Commedia (Lana)/Inferno/Canto IV
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(Commento di Jacopo Della Lana) (XIV secolo)
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IV.
uppemi l’alto sonno nella testa
Un greve tuono sì , ch’io mi riscossi,
Come persona che per forza è desta:
E l’occhio riposato intorno mossi,
Dritto levato, e fiso riguardai 5
Per conoscer lo loco dov’io fossi.
Vero è che in su la proda mi trovai
Della valle d’abisso dolorosa ,
Che tuono accoglie d’infiniti guai.
Oscura, profond’era e nebulosa, 10
Tanto che, per ficcar lo viso al fondo,
Io non vi discernea veruna cosa.
Or discendiam quaggiù nel cieco mondo.
Incominciò il poeta tutto smorto:
Io sarò primo, e tu sarai secondo. 15
Ed io, che del color mi fui accorto,
Dissi: come verrò, se tu paventi
Che suoli al mio dubbiare esser conforto?
Ed egli a me: L’angoscia delle genti,
Che son quaggiù, nel viso mi dipigne 20
Quella pietà, che tu per tema senti.
V. 1. In questo quarto capitolo, poi che nel terzo è trattato de’ cattivi, intende di trattare di quelli che sono nel Limbo, li quali non sono stimolati, nè fattoli male né pena, se non che non hanno speranza, e disiano; e fanne due parti. La prima parte è in aiere tenebroso e obscuro. L’altra parte è in luogo luminoso: lo quale lume li viene da una lumera posta lìe per la giustizia di Dio. Lo quale luogo tenebroso hae a significare che di quelli che vi sono non è alcuna memoria nel mondo; e perchè alcuna gente è in questo limbo, che furono al mondo di grande eccellenzia, sì li provide di quella grande lumera la giustizia preditta. Dice che uno tuono lo destò, e narra la condizione del luogo infino che dice: or discendiam.
16. Mostra che la pena ch’hanno quelli che sono nell’inferno, dispone si quell’aiere che fa parere ciascuno, che le entra, smorto e di colore livido. [p. 142 modifica]<poem>Andiam, che la via lunga ne sospigne.
Così si mise, e così mi fe’ entrare Nel primo cerchio che 1’abisso cigne.
Quivi, secondo ch’i’ potè’ ascoltare,1 25
Non era pianto, ma’ che di sospiri,2 Che l'aura eterna facevan tremare:
E ciò avvenìa di duol senza martiri,
Ch’avean le turbe, ch’eran molte e grandi ,
E d’infanti e di femmine e di viri. 30
Lo buon Maestro a me: Tu non dimandi
Che spiriti son questi che tu vedi ? Or vo’ che sappi, innanzi che più andi,
Ch’ei non peccaro: e s’elli hanno mercedi.
Non basta, perch’ ei non ebber battesmo, 35
- ↑ V 25 Questa lezione, è del Cod. di frate Stefano che sebbene abbia bisogno di accompagnarsi d’altro Codice che finora non trovo è pur sempre la più vera anzi la sola vera.
- ↑ V. 26. Scrivo era col Cortonese, col marciano IX, 3O e col Lana, e rigetto il comune avea. Rifiuto poi il seguire chi nel verso successivo reca l’aura e la terra perchè questa terra non ha che farci, e il Lana la esclude.
V. 22, Qui comincia ad entrare nel primo cerchio nel grado di quel foro, che per Lucifero e per li suoi seguaci fue fatto. 25. Tratta universalmente della condizione di quelli, e dice che non gli è pianto ma pure sospiri, perchè il pianto si segue a pena ed a tormento, e i sospiri si segue solo a desiderio, e dice che li detti sospiri faceano tremare quell’aiere. Ora egli è da sapere che, sicome dice lo Filosofo in lo secondo libro Dell’anima, la voce fa similemente muovere l'aiere per circulazione, come fa muovere 1’acqua una pietra, che li sia dentro gittata, che quella ch’è tocca dalla pietra per lo movimento della pietra si rimuove da quello luogo più forte; poscia perchè l’altre parti resisteno alcuna cosa, con ciò sia che l’acqua sia corpo solido, fa lo secondo circolo meno muovere, e per consequens lo terzo meno, poscia lo quarto meno, sichè diventa tutta l’acqua tremante. Così la voce per quelle persone gittata fuori, fa apresso la loro bocca grande movimento nell’aiere, poi un poco più lungi fa minor moto, poi ancora un poco più lungi, minor remore; e cosi di grado in grado, come più s’allontana lo dito movimento overo suono di voci, meno si odono; siche le voci de’ sospiri di quelli faceano tremare tutto 1’ aiere. E soggiunge ch’erano turbe d’infanti, cioè di fanciullini e di femine e uomini.
31. Qui mostra la benivolenzia di Virgilio che lo incitò a domandare.
34. Qui dice la condizione di quelli in universali del limbo, evdice che non pecconno, e s’elli funno virtuosi non basta, perchè
[p. 143 modifica] Ch’è parte della fede che tu credi:1
E se furon dinanzi al Cristianesmo,
Non adorar debitamente Dio:
E di questi cotai son io medesmo.
Per tai difetti, e non per altro rio, 40
No’ siam caduti, e sol di tanto offesi,2
Che senza speme vivemo in disio.
Gran duol mi prese al cor quando lo intesi,
Perocchè gente di molto valore
Conobbi, che in quel limbo eran sospesi. 45
Dimmi, Maestro mio, dimmi, Signore,
- ↑ V. 36. 11 Comm. R. spiega Chiave della fede; e Chiave sarebbe di porta, non di
parte. Porta hanno alcuni Cod. danteschi; ma il Che non è il quale battesimo, sibbene il relativo di tutta la sentenza. La Vind. e il Di-Ragno han parte nel testo e nel commento, com’è nel testo R. Il Witte ritenne anch’egli parte; e
io resto fermo a questa dizione sostenuta da antiche stampe, dal Gaet. dall’Ang. da BS, BP, BU, BV, Bg, dal Vat 1399 e Viv. da quattro patavini ecc. dai tre parmigiani, dal Cavr. e dal Laur XL, 7. - ↑ V.41. Colla comune e col Lana leggasi perduti; sebbene cosi si fanno dannati come gli altri. Il Codice Cortonese ristorerebbe il danno col bello e vero No’ siam
caduti.
non funno baptizati, lo quale baptismo è parte1 della fede Cristiana: sichè appare che senza baptismo nulla persona si può salvare.
V. 37. Qui risponde ad una tacita questione, la quale si potrebbe fare in questo modo. Ello fue uno tempo in lo quale non si baptizava, come fu inanzi l’avenimento di Cristo; se battesimo non era ordinato, come doveano elli essere perduti? E dice che se funno inanzi al Cristianesimo, elli non adoronno debitamente Dio, cioè che non seguinno la legge mosaica. E soggiunge, che di quelli cotali ello era, cioè Virgilio: e di questi cotai sono io medesmo.
40. Or dice concludendo che tal difetto, cioè tale mancamento hanno quelli, lo quale li fae essere perduti; vero è che non hanno offensioni da altra cosa, se non c’hanno desiderio di volere bene, ma non hanno speranza.
43. Mostra qui Dante come n’ebbe passione considerando la facoltade di quelli che erano ivi, però ch’erano state persone di grande valore al mondo.
45. Qui tocca Dante la resurrezione di Cristo, e l’andata ch’elli fe’ al limbo a trarne quelli antichi, che lì erano sospesi, perchè non era aperta la porta del Paradiso da Cristo vittorioso signore; e mettelo sotto modo d’interrogazione, e dice che ’l disse a Virgilio: uscì mai da questo luogo alcuno per suo merito o per d’altri? quasi a volere essere certo dalla nostra fede, la quale vince ogni errore.
- ↑ Il Commento Cod. Rie. ha chiave, e la Vind. parte; e cosi i Cod. spartili. Ma vedasi qui sopra la nota al verso 50 del lesto.
Comincia’io, per voler esser certo
Di quella fede che vince ogni errore;
Uscinne mai alcuno, o per suo merto,
per altrui, che poi fosse beato? 50
E quei, che intese il mio parlar coverto,
Rispose: Io era nuovo in questo stato.
Quando ci vidi venire un possente
Con segno di vittoria incoronato.
Trassene l’ombra del primo parente,1 55
D’Abel suo figlio, e quella di Noè,
Di Moises legista e ubbidiente;
Abraam patriarca, e David re,
- ↑ V 5S. Correggo il comune trasseci col Cortonese. Qui è trasse fuori, non trasse qui o dentro.
V. 51. Risponde Virgilio che poco tempo dopo sua morte discese lie un possente con segno di vittoria incoronato; e questo fu Cristo benedetto, lo quale trasse del limbo l’ombra, cioè l’anima del primo padre, cioè di Adam, d’Abel suo figliuolo, lo quale fu morto da Cain suo fratello, quella di Noè, lo quale fu quello che rimase dal diluvio con tre figliuoli e con tre nuore, e scampò in l’arca che
Dio li comandò ch’ello facesse inanzi lo diluvio di cento anni: in la quale arca elli mise di tutti li animali che nascono di generazione, acciò che dopo lo diluvio non fusse perduta la spezia. Ed
è da sapere che, sicome dice lo filosofo Avicenna, li animali nasceno in molti modi, fra li quali v’è di quelli che nasceno di putrefazione, come alcuni vermicelli, sorigi, ed altri animaletti, li quali non fu mestieri essere messi in la ditta arca.
57. Questo Moises fu quello che trasse lo popolo di Dio delle mani di Faraone per lo comandamento di Dio, e condusselo in terra di promessione. Vero è ch’elli non giunse, perchè lo ditto viaggio si dovea fare in XL die , ed elli lo brigò in XL anni. E questo avenne al ditto popolo per li loro peccati, ch’erano molto obstinati e disposti ad idolatria, e quello è uno peccato che molto dispiace a Dio, in per quello che quelli cotali referono alla creatura
quello che è da referire al Creatore. Or in questa via da Dio fu data a Moises la legge, ch’elli intendea che lo ditto popolo osservasse; e quelli sono li diece comandamenti della legge musaica, e però dice: Moises legista.
58. Questo (Abraam) fu quello da chi disceser tutti li Giudei, li quali erano lo sopradetto popolo; ebbe un figliuolo ch’ebbe nome Isaac, e questo ebbe uno figliuolo, ch’ebbe nome Jacob: lo quale Jacob ebbe due mogliere figliuole di Laban, ed ebbe due ancille, de le quali quattro femine ebbe XII figliuoli, li quali furono li principi delle dodici tribù de Israel, cioè del popolo di Dio; e però dice in singularità: Israel.
[p. 145 modifica] Israel con suo padre, e co’ suoi nati,
E con Rachele, per cui tanto fe’, 60
Ed altri molti; e fecegli beati:
E vo’ che sappi che, dinanzi ad essi,
Spiriti umani non eran salvati.
Non lasciavam l’andar, perch’ei dicessi,
Ma passavam la selva tuttavìa, 65
La selva dico di spiriti spessi.
Non eravam di lunge molta via1
Di qua dal sommo; quand’io vidi un foco,
Ch’emisperio di tenebre vincìa.
Di lungi n’eravamo ancora un poco,270
Ma non sì ch’io non discernessi in parte,
Che orrevol gente possedea quel loco.
- ↑ V. 07. Verso bellissimo e giustissimo del Cortonese che mi corregge anche il v. 70.
- ↑ V 68. Witte accettò sonno che è anche in undici mariani ne’ tre cortonese e in altri, e il Lana li aiuterebbe, ma qui parlasi di luogo, della sommità della valle.
V, 59. Cioè con Jacob e con Isaac, e con Rachele moglie del ditto Jacob e figliuola del ditto Laban, per la quale lo ditto Jacob cotanto fe’, cioè che servì lo ditto Laban XIV anni por averla per moglie, e così l’ebbe. E puossi referire alla ditta Rachele, che è
interpretata contemplativa, e a Divid preditto che è cantore dello Spirito Santo, e compuose lo Salterio, in lo quale sono molti psalmi di grande contemplazione.
61. Qui conclude in universali: E altri molti, cioè profeti, ed altri giusti, li quali aveano debitamente adorato e observato la legge di Dio. E soggiunge, com’è ditto, che fino a quel termine di tempo non era beato alcuno della spezia umana, e questo avenìa perchè non erano recomperati per Cristo dal demonio, in le cui mani erano caduti per lo peccato di Adam primo nostro padre. Venne Cristo glorioso e ricevette morte per salvare, e cosi fe’: sichè dopo tal morte si salvò la spezia umana.
64. Segue suo poema mostrando come molti erano in tale stato, e quasi così spessi come sono li àlbori nella selva; e però a dichiarazione di tale metafora dice: la selva dico di spiriti spessi.
67. Segue lo poema; poscia che ha ditto di quelli che sono nel luogo tenebroso, or dice di quelli ch’hanno dalla giustizia di Dio lume, perchè di loro suona in lo mondo alcune lode. E dice che non era ancora passato molto spazio di tempo per loro, dachè elli si dessidò, ch’ello vide una lumiera, la quale vincea quell’emisperio di tenebre (emisperio è quella parte dell’aiere e del cielo che si può vedere), altro non vuol dire se non che quello luogo era luminoso. Per la qual visione, avegna ch’elli fusse ancora di lunge, elli pure discernea che quelli cotali erano persone di grande autorità, e di onorevile condizione pure alli suoi atti.
[p. 146 modifica] O tu, che onori ogni scienza ed arte,
Questi chi son ch’hanno cotanta orranza,
Che dal modo degli altri li diparte? 75
E quegli a me: L’onrata nominanza,
Che di lor suona su nella tua vita,
Grazia acquista nel ciel che sì gli avanza.
Intanto voce fu per me udita:
Onorate l’altissimo poeta; 80
L’ombra sua torna, ch’era dipartita.
Poiché la voce fu restata e queta,
Vidi quattro grand’ombre a noi venire;
Sembianza avevan nè trista nè lieta.
Lo buon Maestro cominciommi a dire;185
Mira colui con quella spada in mano,
Che vien dinanzi a’ tre sì come sire.
- ↑ V. 85 Per istare col Witte e la Vindel. il cominciò ha a dividersi in quattro sillabe. Qui col cominciommi è anche più verità.
V. 73. Circa la quale imanda, come appare nel testo, Dante persuade a Virgilio per renderlo benivolo alla responsione, in due modi. L’uno, mostrando come Virgilio onora la scienzia, cioè che per lo suo volume si può venire in cognizione scientifica. L’altro modo,
come per lo ditto volume si può venire in perfezione d’arte, la quale arte universalmente assunta è Retorica, come appare nella Bucolica ed in la Georgica. Dopo sua persuasione espone suo dubbio, cioè chi sono questi ch’hanno tanta onorevolezza che ’l mondo
li fa essere diversi dalli altri, sì in luogo come in claritade?
V. 76. Risponde che la nominanza ch’hanno onorevile nel mondo gli acquista stato di bene: circa la qual cosa è da notare come l’ordine di Dio segue pure giustizia, che non è alcuno bene che non sia remunerato.
79. Segue suo poema e dice che ragionando le sopradette parole, tuttavia andando verso la lumera, ello udì dire a quelle persone, che erano in lo ditto luogo: Onorate l’altissimo poeta, cioè onorate Virgilio, che torna e che era partito di qui. E dice che, come funno ristate le ditte parole di quelle quattro ombre grandi( cioè quattro di quelle anime, che erano lie) si levorono del luogo dove erano, e vennero incontra a quelli, cioè Virgilio e Dante: e soggiunge la sembianza ch’aveano, e dice nè trista nè lieta, cioè non trista, che non hanno gloria.
85. Qui dice in persona di Virgilio chi erano quelli quattro; e dice che l’uno venia dinanzi come a Signore, e quello era Omero, lo quale fu lo sovrano poeta, e perchè trattò di battaglie e universalmente di tutto lo mondo, sì lo figura con una spada in mano. Lo secondo fu Orazio, ch’avea sopranome Satiro, lo qual fece tragedie e pistole molte, e tenne forma poetica ne’ suoi ditti. Lo terzo
[p. 147 modifica]Quegli è Omero poeta sovrano,
L’altro è Orazio satiro, che viene,
Ovidio è il terzo, e l’ultimo è Lucano. 90
Perocché ciascun meco si conviene
Nel nome, che sonò la voce sola;
Fannomi onore, e di ciò fanno bene.
Così vidi adunar la bella scuola
Di quel signor dell’altissimo canto, 95
Che sopra gli altri corm’aquila vola.
Poi ch’ebber ragionato insieme alquanto,
Volsonsi a me con salutevol cenno:
E il mio Maestro sorrise di tanto:
E più d’onore ancora assai mi fenno,1100
Ch’esser me fecer della loro schiera ,1
Sì ch’io fui sesto tra cotanto senno.
Così n’andammo infino alla lumiera,
Parlando cose, che il tacere è bello,
Sì com’era il parlar colà dov’era.
- ↑ V. 101. Quantunque duro esser mi fecer è molto vero e molto migliore che quello di BS ch’esser mi feceno di la lor schiera. Il Bg. e Cavr. e altri Cod. sostengono questa lezione da me scelta coll’aiuto del Rice. 1005. Chi seguì Ch’essi mi fecer, non buono seguirono. Non potevano farlo della loro schiera, ma riceverlo in essa, e quindi l'essere è ottimo. Il me in vece del mi tolgo al BP.
fu Ovidio , lo quale fece molti libri poetichi, fra quali fu Methamorphoseos, in lo quale si contegnono molte istorie, le quali sono
toccate questa in Comedia.1. Lo quarto fu Lucano, lo quale scrisse
in forma poetica le battaglie di Roma , e di quella parte della terra
ch’è chiamata Europa.
V. 91. Qui soggiunge la cagione per che si levorno a farli onore, e dice perch’ elli si convegnono con lui nel nome che sonò la voce, cioè che sono poeti sicome è ello.
94. Segue lo poema dicendo, come appare nel testo, che quelli sono lo fiore de’ poeti; e sicome aquila vola sopra tutti li altri uccelli, così lo trattato di quelli è sopra tutti gli altri, e soggiunge come fu sesto fra quelli, quasi dica ch’ello è lo sesto delli eccellenti poeti.
103. Dice che andonno insieme infino a quel lume, cioè fino a quel luogo che era illuminato d’alcuno splendore, com’è ditto; e dice che ragiononno così che ’l tacere è bello. Vero è che è a dire: questa clausula è centra quello che suona nel testo, che poi che l’autore impose silenzio alla sua cantica, non è bello a farne
- ↑ Qui il Cod. Laur. XC, 115, per la spiegazione data al greco, ha un interpolato» Methamorphoseos è a dire vulgate di trasformazione, perchè Ovidio trasforma una forma in l’altra.
[p. 148 modifica]<poem>Venimmo al piè d’un nobile castello,
Sette volte cerchiato d’alte mura, Difeso intorno d’un bel fiumicello.
Questo passammo come terra dura:
Per sette porte entrai con questi savi; 110
Giugnemmo in prato di fresca verdura.
suso alcuna esposizione, overo dichiarigione. Vero è che per alcuno dubbio che radicare si porìa in lo intelletto del lettore, acciò che non si caggia in Scilla volendo schivare Cariddim, diremo
incidenter le cagioni, che poterono muovere Dante a non volere recitare quello ragionamento. E quanto a ciò una delle quattro cagioni lo poteron muovere: cioè, o che parlonno cose di infedelitade, le quali non sarebbe lecito nè onesto a’ Cristiani nè a ragionare nè
a crederle, e però non vuolse recitarle, sicome dice l’Apostolo: quod non est ex fde, peccatum est. O elli parlonno di si sottile materia , che la infermitade delli intelletti umani non lassa intendere, e però impuose silenzio, sicome è scritto in lo Ecclesiastico: cogitatio antem de æternis vult magnumm silentium. O elli parlonno di cose alla cui recitazione bisognerebbe grandissima dilazione di parole, ed elli avea già disposto ed ordinato la sua Comedia in quantitade, sichè necesso fue, a non rompere lo preordinato, lo tacere:
superfluum corrumpit naturam( Avicenna). O elli parlonno di cose che parve allo autore vanagloria e aroganzia, come di suo senno
e sottigliezza, e però a tal ragione ponere silenzio fu umilitade, sicome dice Augustino: humilitas est aqua quæ fluit cum silentio: e Salomone in Proverbiis: laudet os alienum et non os tuum.
V. 106. Nota che queste sette mura hanno a significare le sette liberali scienzie , senza le quali non si può entrare ad essere del collegio delli savi; le quali sono: gramatica , cioè scienzia che insegna drittamente parlare e scrivere; dialettica, che è scienzia di raziocinazione, ed è modo di sapere e da inquirere per le premisse le conclusioni si necessarie come probabili; rettorica, scienzia di persuadere e di orare per modo di silogismo grosso, lo quale è apellato in essa entimema, ed è cosi modo d’investigare ragione alla filosofia morale, e conclusione, come la dialetica alla naturale: arismetica è scienzia di numero, cioè di quantità discreta: geometrìa è scienzia di mesurare quantità continua: musica è scienzia di suono applicato a numero: astrologia è scienzia di movimento e significazione di stelle. Mo soggiunge Dante ch’è intorno queste mura uno fiumicello, lo quale hae a significare la disposizione dello intelletto umano e l’abito alto ed abile a scienzia.1
- ↑ Il Cod. XL, 26 Laur. dice del fiumicello: — Difeso intorno, ecc. Si è la diligenza che va dintorno ad acquistare questa virtù; e nomina le cardinali e le divine, che sono ben altro che le liberali scienzie.
Genti v’eran con occhi tardi e gravi,
Di grande autorità ne’ lor sembianti:
Parlavan rado, con voci soavi.
Traemmoci così dall’un de’ canti 115
In luogo aperto luminoso ed alto,
Sì che veder si potean tutti quanti.
Colà diritto, sopra il verde smalto,
Mi fur mostrati gli spiriti magni.
Che di vederli in me stesso n’esalto. 120
Io vidi Elettra con molti compagni,
112. Qui descrive in comune la condizione delle persone ch’erano in quello luogo; poi in particolari quando dice: io vidi Elettra;
circa la quale universale digressione li atti che fanno parere la persona savia e di valevile essere, e dice: con occhi tardi e gravi, quasi a dire chi vuole essere estimato savio, dee muovere li ocelli adagio, e non guardare più su che sua statura, nè avere velocità in suo moto, perchè la mobilità delli occhi palesa instabilità d’animo.
114. Cioè che più era lo tempo del tacere che del parlare, sicome lo proverbio dice: chi troppo parla, spesso falla.
Ivi. Cioè che parlare con voce acuta e stridente mostra infiammazione di cuore, la quale hae la sua radice in ira che impedisce sì l’animo, che non cognosce nè giusto nè dritto.
119. Tutte sono a seguitazione del poema suo, sicome appare nel testo.
121. Questa fu mogliera di Atalan re, lo quale fu lo primo re ch’avesse Europa. E questo Atalan vegendosi essere signore della terza parte della terra abitabile vuolse fare una cittade, in la quale elli voleva abitare, ed allora fece domandagione a sue idole che lidovessono insegnare in questa Europa quello luogo ch’era più sano, e là dove fusse migliore fare sua abitazione; infine dopo alcuni suoi sacrifizii ebbe risposta che dovesse andare in quella parte dove poi elli edificòe Fiesole ch’è vicino di Firenze per tre miglia. E li fe’ una forte e bella cittade, alla quale elli puose in nome Fiesole, quasi a dire: questa città fie sola: e lì abitò con la predetta Elettra, ed ebbe di lei tre figliuoli: lo primo ebbe nome Italo, per lo quale fu ditta la Italia: lo secondo ebbe nome Dardano, lo quale fu lo primo cavaliere, che fece in prima sella e freno, e fu de’ conditori di Troia, e per cui ebbe quella città nome più tempo Dardania: lo terzo ebbe nome Siccano, lo quale fu padre di Candacia, bellissima donna: e dal qual Siccano fu denominata la Sicilia. Or questo re Atalan si diede Sicilia a Siccano: alli altri due disse: all’uno di voi lasso Fiesole; l’altro vada a conquistare s’ello vuole. Gettòne per le venture si che Dardano si convenne procacciare conquistando alla ventura, ed allora edificò Troia, la quale era ditta per lui Dardania, com’è detto. [p. 150 modifica]<poem> Tra’ quai conobbi ed Ettore ed Enea,
Cesare armato con gli occhi grifagni.
Vidi Cammilla e la Pentasilea;
Dall’altra parte vidi il re Latino, * •125 Che con Lavina sua figlia sedea.
Vidi quel Bruto che cacciò Tarquino,
Lucrezia, Julia, Marzia e Corniglia,
- ↑ V. 125. Cosi il Cod. Antaldi, il Laur. XL, 7 e il Cortonese antico.
V. 122. Questo Ettor fu figliuolo del re Priamo di Troia, lo quale fu probissimo uomo e valente. Enea discese dal sopradetto Bardano, e discese poi Cesare Augusto imperadore, per lo quale fece Virgilio
suo volume, e per compiacere a Cesare trovò tutta la genealogia sua, come era disceso da Eneas, lo quale fu più virtudioso e probo uomo ch’avesse il mondo, e fu quello che ancise Turno in Italia, ed ebbe Lavinia figliuola del re Latino per mogliera, com’è detto; per la quale Lavinia dopo la morte del re Latino ello succedette
in lo reame d’Italia.
123. Questo (Cesare) fu quello sopradetto imperadore, il quale fu molto vivo e armigero uomo.
124. Questa (Camilla) è quella che venne in soccorso di Turno contro Enea, com’è detto in lo primo capitulo. Fu (Pentasilea) reina delle amazoni e del regno feminoro, la quale venne in soccorso de’ Troiani quando furono assediati da’ Greci. E questo fece per amore di Ettor, lo quale ella molto amava.
126. È (Latino) lo padre sopradetto di Lavinia e suocero di Eneas.
127. Bruto fu uno gentilissimo uomo di Roma il quale avea una figliuola, mogliera di Collatino, molto bella e legiadra donna, della quale innamoròe Tarquinio Sesto figliuolo del Tarquinio Superbo re di Roma: infine elli la violòe, ed ebbene suo diletto; per la quale cosa quella dònna predetta, nome Lucrezia, s’ancise per
se medesima; per lo quale disdegno e ingiuria lo detto Bruto con parenti ed amici e con raunanza di popolo, saglinno armata mano
sulla piazza di Roma gridando, muoia, muoia Tarquinio. Questi
cognosciuto lo pericolo, fuggio. Dopo questa fugazione feceno li
Romani statuto e ordine che in Roma non fusse mai più Re, e quale s’appellasse Re fusse morto.
E ressesi un lungo tempo a Senatori; infine non possendo durare senza Signore, declarossi lo statuto, che non dovesse avere nome re, ma appellassesi Imperadore. E da li innanzi ebbeno nome, li re, imperadori. 128. Fu (Julia) figliuola di Julio Cesare e mogliera di Pompeo, lo quale Pompeo con l’aiutorio de’ gentili di Roma tolsero la terra a Julio Cesare in questo modo: ch’essendo cavalcato fuori di Roma Julio con molta gente, elli li serraron drieto le porte, di che li seguì poi grandissime battaglie tra Julio Cesare e Pompeio, sicome si tratta in Lucano.
[p. 151 modifica] E solo in parte vidi il Saladino.
Poi che innalzai un poco più le ciglia, 130
Vidi il Maestro di color che sanno,
Ivi. Fu (Marzia) niogliera di Cato. Questa Marzia essendo in giovane etade, e Cato suo marito essendo in tale etade che non potea satisfare alle sue volontadi , pregò lo ditto Catone che gli
lassasse tórre un altro marito, che elli vedea bene ch’elli non potea fornire quello che al matrimonio si convenisse per generare prole ed erede. Cato benivolo e pio ad essa li die parola che ella lo trovasse e lo tollesse, e questa cosi fe’: stata con questo secondo marito in certo tempo la morte gliel tolse. Questa veggendo che così gli era incontrato, tornò a Cato facendo lo danno suo grande, e
con parole di pietà, pregandolo che la dovesse ritòrre. Elli sicome
clementissima persona la ricevette, e poi stette di continuo con essa.
Ivi. Fue (Corniglia) seconda moglie di Pompeio sopradetto.
V. 129. Questi (Saladino) fue Soldano di Babilonia, lo quale fue sagacissinia e savia persona: sapeva tutte le lingue, e sapeva molto bene trasformarsi di sua persona; cercava tutte le provincie e tutte le terre sì de’ Cristiani come de’ Saraceni, e sapeva andare sì segretamente che nulla sua gente nè altri lo sapea. Fulli ditto per uno astrologo che Gottifredi di Buglione di Francia lo doveva ancidere. Questi in abito di pellegrino si mise in cuore di trovare lo ditto Gottifredi e di ucciderlo se potesse. Venne a Parigi solo e passando per una via solo, uno abate lo quale era andato a visitare lo sepolcro e in quello viaggio lo vide, si l'ebbe cognosciuto, mandolli drieto uno suo famiglio e disse: di’ a colui che mi favelli. Costui 1non con grado fu a lo ditto abate, lo quale disse secretamente: tu se’ lo Soldano, che io ti cognosco. Questi si celò quanto potè; infine l’abate li promise credenza: questi li ragionò la vicenda. Or l’abate vogliendo disturbare tanto male, disse: fratello mio, elli fa gran guardia, ma io farò sì che tu lo vedrai. Allora fu al re di Francia, e contali la novella. Lo re fè armare sua famiglia, e mandare Gottifredi con essa mostrando che Gottifredi fusse invece del re. Quando passò per la contrada dov’era Saladino, allora disse il Saladino fra se stesso: mo io veggio che non potrei ancidere costui. Tolse comiato dallo abate per tornare in sue parti; lo re lo fe’ distenere; e’ morì in corte.
Or perchè questo Saladino fue uomo di grande sagacità e di unica vita, lo mette in disparte dagli altri. Li sopradetti uomini, e femine funno di grande essere nel mondo, e trattane molto lo autore, e però ch’hanno nominanza nel mondo si li mette in disparte in luogo luminoso, com’è detto di sopra. 131. Questo è Aristotile, lo quale è maestro di quelli che sanno, cioè che quelli che sanno la filosofia d’Aristotile, si può dire che sappino sì la morale come la naturale; delle quali due scienzie fece molti libri.
- ↑ Qui è garbuglio di sintassi ne’ Codici. Il costui è il Saladino.
Seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor gli fanno.1
Quivi vid’io e Socrate e Platone,
Che innanzi agli altri più presso gli stanno. 135
Democrito, che il mondo a caso pone,
Diogenes, Anassagora e Tale,
Empedocles, Eraclito e Zenone:
- ↑ V. 133. Non ammirano come la Nidob. e altri hanno: ma mirano per le ragioni del Foscolo, e perchè in lui fissavano gli occhi con rispetto; qui il Witte
cammina bene colla Vindelina e il R il BG, il Val. 1399 i Cod. Cort. Gaet. Antin. Viv. 4 Patav. BS, BP, BU. BV. e il Laur. XL, 7. Come mai il Nidobeato guastò ciò che di bene la Vindelina aveva? Molto fu lodato, non sempre meritevole.
134. Furono due filosofi, li quali conficenno similmente libri, de’quali molti fece brugiare Aristotile chi dice per invidia, chi per schifare confusione.
136. Questo fu uno filosofo, il quale tenne che l’mondo fusse a caso e a fortuna, imaginando che era uno luogo, lo quale elli apellava Caos, e dicea che in quel Caos era in confuso tutte le particularità, le quali a casu, cioè senza cagione, si coniungeano insieme, e faceano e uomini e buoi e asini e cavalli e albori e tutte le altre spezie; poi in capo d’alcuno tempo tutti ritornavano in lo ditto Caos a stare in confusione insieme, e apellava lo detto tempo della confusione, d’amicizia, come cosa amichevolmente stata insieme: in lo tempo ch’erano le spezie e le cose mondane per singulo apellavano tempo di lite, la quale oppinione è riprovata per Aristotile si in lo libro della Fisica, come in lo libro dell’Anima. 137. Tutti questi furono filosofi, li quali ebbeno diverse oppinioni de’ principii naturali. Alcuno ponea le contradditorie insieme essere false, e così seguia ogni cosa essere falsa; e alcuni poneano che quello di che si generava si gli era inanzi che quello che poi si generava; e alcuni poneano ogni cosa essere si infusa che inanzi che si potesse rispondere ad una questione ogni cosa era mutata, che solo rispondea collo ditto a chi lo domandava; e alcuni negavano lo movimento dicendo che ogni moto retto non potea essere perchè bisognava che la cosa mossa passasse per certo spazio e ogni spazio è divisibile in infinito; sichè impossibile era a transire in infinito. Altri erano che poneano vacuo. Altri erano che ogni cosa si generasse di atomi e in quelli si resolvessono. Altri erano che poneano l’anima dispartirsi dal cielo, e quando moriva1tornava al cielo. Altri poneano idee separate, e quelle faceano principio delle naturali spezie. Altri negava lo senso. Altri non approvava se non quello che appariva a senso.
[p. 153 modifica]E vidi il buono accoglitor del quale,
Dioscoride dico: e vidi Orfeo, 140
Tullio e Lino e Seneca morale:
Euclide geometra e Tollomeo,
Ipocras, Avicenna e Galieno,2
Averrois che il gran comento feo.
Io non posso ritrar di tutti appieno; 145
Perocché sì mi caccia il lungo tema,
Che molte volte al fatto il dir vien meno.3
- ↑ Tutti i Codici portano così come abbiamo stampato, e già stampò il Vindelino ed ha il BG. La elissi fattasi nella testa del Lana deve essere spiegata, così: e quando il corpo moriva, l’anima tornava al Cielo. Elissi in lui non rare.
- ↑ V. I’i’2. La Nidobealina ha Livio in vece di Lino, e Foscolo e Fraticelli 1’ accettano. Blanc trova giusto Lino con Orfeo, come Cicerone con Seneca. 11 Gregoretli
si fa dubbio per 1’ ordine, e domanda perchè non sia Orfeo , Lino e Tulio e Seneca morale^ Si può rispondere: secondo che parlò Dante, e piacque al suo
orecchio. Il Comm. ha filosofi morali e rettorici ; Storici non ha, - ↑ V 147. Anche è lezione di BS, EU, BV e del Landiano.
Or molte e diverse oppinioni erano intra li filosofi, le quali parlando naturalmente tutte furono dichiarate e assolvute per Aristotile in li suoi libri e naturali e morali.
V. 140. Questo Diascorides compuose uno libro delle virtudi dell’erbe e la maniera in che nascono, cioè che radice, che fusto, che foglia, che fiore e che frutto elle fanno. 141. Questi sono filosofi morali e retorici, li quali, compuoseno molti libri belli, ed ebbene diverse oppinioni, e li fu di quelli che negavano la legge, altri communitade, altri matrimonio; le quali oppinioni per lo filosofo Tullio e Seneca funno corrette1. 142. Fu (Euclide) quello che compuose le teoremate di geometria, le quali funno per Boezio e per Campano cementate. Ivi. Fu (Toloumeo) quello re che fu grandissimo astrologo, e compuose lo Almagesto, lo Quadripartito, e lo Centiloquio in astronomia; lo quale Almagesto fu corretto in alcuni capitoli per Gieber, sicome appare in lo suo libro. 143. Questi furono grandi filosofi di medicina, e compuoseno molti libri; e fue per un tempo Ipocras, e Galieno: e Avicenna fue dopo. 144. Fue ( Averrois ) similemente in medecina, e comentòe tutta la filosofia naturale. Vero è che in molti luoghi elli discrepa dalla scienzia d’Aristotile, secondo la scienzia de’ moderni. 147. Or qui conclude per poner fine al presente capitolo; che la sua possanza è deficiente a nomare tutti li filosofi che sono stati, dei quali è fama nel mondo, ed aduce una bella ed onesta scusa, che a lui incontra come a quelli che proporzionando lo fatto cioè l'essere, lo dire li manca.
- ↑ Continua con una chiosa d’altrui: » Ed anche per fra Giglio (Egidio) in libro De regimine Principum».
La sesta compognia in due si scema:
Per altra via mi mena il savio duca,
Fuor della queta, nell’aura che trema; 150
E vengo in parte, ove non è che luca.
148. Segue lo suo poema mostrando come lassò lìe li quattro poeti, e com’era disposto a veder più entro. Circa lo quale capitolo è da notare che questi, e li simili, li quali non adoravano dedicatamente Dio e furono senza battesimo, sono dalla giustizia di Dio giudicati in non avere speranza di mutare condizione nè vita, nè in meglio nè in peggio, avvegna che ragionevilemente, quando avranno li corpi dopo lo giudizio, saranno più difettivi, perchè nè 'l corpo, né l'anima avrà beatitudine nè gloria. E qui si termina la somma del quarto capitolo.
Nota. È a questo Canto che l’Ottimo incomincia a servirsi del Lana. Al v. 129 ha, il principio della chiosa per otto linee della Vindelina. Ai v. 136-7 tutto quello che riguarda Democrito, Diogene sino al tempo del loro fiorire, e altrettale poi di Dioscoride e di Euclide, poi quello che rispetta il v. 145, e quindi tutto ciò che dal v. 148 va alta fine del canto.