Capitolo XVI

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XV XVII

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CAPITOLO XVI.

Nel quale si narra come la signora Ninetta al disonore
preferisse la morte.


È tempo di dire, poichè vien proprio a taglio coi fatti che abbiamo raccontati pur dianzi, da che avesse origine quel tafferuglio, che aveva distolto da un ufficio di cortesia Don Giovanni di Trezzo.

Mastro Bernardo, coll’amico Antonio Cappa e colla sua compagnia di finarini, s’era avviato per l’erta di castel Gavone, come aveva promesso alla Gilda. Pervenuto, con quella maggior sollecitudine che gli era consentita dalle tenebre, dal vento impetuoso e dalla asprezza del cammino, sotto alla macchia dei roveri, aveva udito il grido straziante di soccorso, che, come i nostri lettori già sanno, era stato gettato da madonna Nicolosina. A lui, per altro, era parso di riconoscere la voce della sua bella nipote. Rispose, con quanto fiato ci aveva in corpo, e pensò di essere udito; senonchè, quel rovaio indiavolato, che a lui portava i suoni dall’alto, impediva che giungesse la sua risposta lassù. Ma questo era il meno; giungere bisognava, e mastro Bernardo e il Cappa, sollecitati i loro uomini, s’inerpicarono di buona gamba per la costiera, e trafelati, ma contenti d’aver fatto quanto era in poter loro, afferrarono la cima del poggio. [p. 296 modifica]

Colà, alzati gli occhi alle mura del castello, mastro Bernardo vide la finestra della nipote, illuminata, ma chiusa. Stava per gridare; ma in quel mentre, un soldato aveva veduto biancheggiare alcun che tra gli sterpi. Era l’appiccatura delle lenzuola, per cui dovevano tirarsi in casa, secondo l’indettatura di Gilda, ma che oramai non poteva servire più a nulla.

Mastro Bernardo capì che quell’utile ordigno qualcuno lo aveva buttato dalla finestra, e che questo messer qualcuno non era un tale a cui mettesse conto la loro ascensione. E fin qui la prova della sua intelligenza non offriva niente di strano. Ma il buono venne subito dopo, e fu una vera alzata d’ingegno, che doveva raccomandare il suo nome alla memoria dei posteri.

— Presto, ragazzi, a tôrre una scala! — gridò egli ai vicini. — Andate dai Bonorini, dai figli della Rossa, che stanno qui presso. Presto, una scala, due scale, vi dico; tre scale, anzi, quante scale si trovano. Più saranno, meglio per tutti! —

I casolari a cui mastro Bernardo accennava, erano appunto a breve distanza, giù per la costa del monte. Però le scale furono tratte al piè delle mura, prima che il bravo ostiere dell’Altino avesse il tempo di perdere la pazienza. Due di esse, legate insieme, raggiungevano a mala pena l’altezza del davanzale; ma il valentuomo non desiderava niente di più.

Per contro, vedendosi aiutato dalla fortuna, alzò l’animo a cose più grandi. Gli veniva udito al primo piano del castello un insolito tramestìo. I nemici entravano dunque allora dall’altra banda? E non si poteva opporre sorpresa a sorpresa? Le scale c’erano, e [p. 297 modifica]per afferrare una finestra del primo piano non ne occorreva che una. Su dunque; egli al secondo, con pochi seguaci; il rimanente della compagnia, sotto il comando del Cappa, si sarebbe introdotto da quella finestra nel primo.

Era questa, nello spazio di pochi minuti, la seconda alzata d’ingegno di mastro Bernardo; ma ohimè, non così felice come la prima, epperò (s’ha da metterlo in sodo, quantunque a malincuore) meno degna del ricordo dei posteri. A scusa di mastro Bernardo non va dimenticato, per altro, che questa è la sorte di tutte le umane intraprese; chi fa falla, dice il proverbio, e non tutte le ciambelle riescono col buco.

Lasciamo il Cappa col grosso della compagnia, e seguitiamo mastro Bernardo. Egli giunse, colla sua spada appesa sugli òmeri, all’altezza della finestra di Gilda, proprio nel punto che si spegneva la lampada. Egli stesso la udì rompersi sul pavimento ed ebbe ancora il tempo di scorgere attraverso i vetri un’ombra nera, che si scagliava verso il fondo della camera. Afferrare la colonna che partiva in due la finestra, sfondare d’un pugno vigoroso la vetrata, urtar di spalle e rovesciarsi dentro, insieme colla imposta atterrata, fu un punto. Nicolosina n’ebbe animo e lena a respingere il suo assalitore; e il prode Tommaso, capito in di grosso che quello non era più luogo per lui, ebbe a mala pena il tempo di darla a gambe per l’uscio; e non baciò nemmanco la toppa.

Mastro Bernardo alzatosi appena sulle ginocchia, e notato con grande soddisfazione di non essersi levato di sesto, si diede in quelle tenebre a chiamar la ni[p. 298 modifica]pote; ma per lei, non senza meraviglia del valentuomo, rispose la voce di madonna Nicolosina. Poche e rotte parole chiarirono ogni cosa, e l’entrata dei nemici, guidati da due traditori nel castello, e lo stratagemma della Gilda, e l’infame attentato del Sangonetto. Ma la Gilda? ov’era la Gilda? Nelle stanze della padrona, per fermo. E mastro Bernardo vi corse a furia, brancolando a guisa di cieco, urtando della persona nei muri, guidato dai cenni della contessa d’Osasco, non meno ansiosa, non meno trepidante di lui.

L’uscio era aperto. Si gettarono dentro, egli, madonna Nicolosina e i pochi che avevano seguito mastro Bernardo lassù. Un doloroso spettacolo si offerse ai loro occhi in quel punto. La Gilda, pallida, scarmigliata, noncurante di loro, stava acchiocciolata presso un cadavere. Invano la chiamarono per nome, la scossero, la incalzarono colle dimande; li guatava attonita, senza risponder parola; componeva le labbra ad un riso melenso; indi tornava a guardare il cadavere.

Madonna Nicolosina chinò gli occhi a sua volta e ravvisò Giacomo Pico, il suo fiero amatore; rabbrividì, pensando al pericolo ch’ella avea corso, e a quel nero tradimento che, nella profondità delle sue dolorose cagioni, nella fulminea prontezza del meritato castigo, e nei lutti che si seminava d’intorno, attingeva una specie di cupa maestà, siccome è dato anche al delitto di averla, quando esso derivi da una grande sventura. E cadde allora, combattuta da tante sensazioni angosciose; cadde a terra e pregò, colla fronte umiliata ai piedi di Gilda, che or lei, ora il morto, guardava con occhio istupidito e rideva.

Intanto, gli uomini che avevano seguito mastro Ber[p. 299 modifica]nardo scendevano al piano inferiore, rincorrendo giù per le scale il Sangonetto fuggente. E là in cambio di trovar lui, che s’era accovacciato in qualche angolo per aspettare il destro di uscirne, s’imbattevano nelle tenebre in una masnada di gente, che diè loro addosso con furia. Era il grosso della compagnia, guidato dal Cappa, che spandendosi per le sale e non pensando agli amici del pian di sopra, li toglieva in iscambio, assalendoli vigorosamente, al grido di San Giorgio e Carretto. Nè valse a tutta prima il rispondere in quella medesima guisa; il furore è cieco, e sordo per giunta, e la prudenza, poi, teme sempre d’insidie. Allorquando i combattenti si persuasero d’esser tutti della medesima insegna, non era più tempo di far opera utile; che la gente di messer Pietro Fregoso era accorsa con impeto gagliardo ed alte grida di guerra, dal pianterreno, ove già aveva fatto prigione lo scarso presidio, e Giovanni di Trezzo giungeva dall’altra banda, pigliando in mezzo i mal capitati soccorritori. Violento fu l’urto, e più assai la confusione che la pugna. Le fiaccole portate dagli uomini di Giovanni di Trezzo, illuminando le sale, diedero agio ai genovesi di compir l’opera, cansando l’errore in cui erano incappati i nemici, col picchiarsi alla cieca tra loro. Molti in questa occasione furono i morti; i superstiti, come di leggieri s’argomenta, caddero tutti prigioni.

Fornita questa bisogna, e padroni oramai del castello nella sua parte più ragguardevole, i genovesi pensarono di occupare altresì il piano superiore, per sincerarsi che non vi fossero altri difensori appiattati. A tale impresa, che richiedeva, oltre il valore, un tel [p. 300 modifica]po’ di riguardo, imperocchè lassù dimorava il grosso della famiglia, donne, la più parte, e innocuo servidorame, andò Giovanni di Trezzo in persona, col fiore de’ suoi.

In mal punto fu visto allora da Anselmo Campora il nostro prode Tommaso Sangonetto, che si era poc’anzi imbrancato tra i combattenti.

— Animo, a voi, Sangonetto, che conoscete il castello; insegnate la strada. —

Tommaso Sangonetto s’augurò in quell’ora d’essere almeno quattro palmi sotterra. Pure, gli bisognò fare di necessità virtù, e si mosse cogli altri verso le scale.

— Che diamine avete? — gli domandò il Picchiasodo, che nella allegrezza della vittoria avea preso a trattarlo più dimesticamente, e saliva con esso lui, appoggiandogli la sua larga mano sulle spalle. — Non mi sembrate troppo saldo sulle gambe.

— Io? che, vi pare? sono un po’ scombussolato; — balbettò il Sangonetto. — Capirete bene.... in un momento come questo!... Neppur io m’aspettavo che la dovesse andar così liscia.

— Eh, non dico di no. Del resto, ci avete dato un buon colpo d’aiuto, e non dubitate; messer Pietro Fregoso vi compenserà a misura di carbone. —

Il dialogo dei due amiconi fu interrotto da un cozzo improvviso di spade là in alto. Mastro Bernardo ne faceva delle sue. Inviperito da tante disgrazie, ed anche un po’ riscaldato, innalzato dalle circostanze a’ suoi occhi medesimi, l’ostiere soldato menava colpi a dritta e a manca, sull’ingresso dell’appartamento di madonna Nicolosina, a cui i nemici, guidati dal chiarore dei doppieri, si erano allora rivolti. [p. 301 modifica]

— Sotto! sotto! pigliatelo vivo! — gridò Giovanni di Trezzo. — Vo’ farlo impiccare per la gola, questo furfante, che s’ostina a resistere dove comanda la repubblica genovese.

— No, perdio, non comanda la repubblica! — rispose fieramente mastro Bernardo. — Comando io, qui; difendo due donne dai vostri tentativi ribaldi. —

E seguitava a menar colpi a tondo, per tenere in rispetto gli assalitori. La lotta, per altro, era troppo disuguale e non poteva durare più molto.

Madonna Nicolosina si fece innanzi e trattenne il braccio del suo furibondo campione.

— Smettete, vi prego; — diss’ella, — Colui che ha parlato è di sicuro il comandante di questi soldati. Egli non vorrà certo recare offesa a due donne.

— Ben dite, mia nobil signora; — fu pronto a rispondere Don Giovanni di Trezzo. — Dove noi comandiamo, degli insultatori di donne si sogliono caricar le bombarde.

— Ah, sì? Vediamo dunque la prova! — entrò a dire mastro Bernardo. — Cercate pel castello il vostro amico e aiutante Tommaso Sangonetto, che in qualche buco si sarà pure ficcato, e fategli fare questa piacevolezza, che l’ha meritata davvero.

— Che dici tu ora?

— Dico, messere, che mentre voi facevate il vostro mestier di soldato a pianterreno, il vostro aiutante è salito quassù a ruba di donne, e già aveva ardito di mettere le sue sconcie mani sulla figliuola del nostro marchese, sulla illustrissima contessa di Osasco.

— Se la cosa sta come tu la racconti, — disse Giovanni di Trezzo, — sarà fatta giustizia. [p. 302 modifica]

— Ohè! che cos’è questo ch’io sento? — diceva intanto il Picchiasodo a Tommaso Sangonetto. — Ma tu tremi a verga, furfante!

— Fate cercare quest’uomo! — gridò una voce imperiosa dal fondo, che fece dare indietro i soldati e lo stesso comandante, per modo che il passo fu subito sgomberato. — Madonna, — proseguì allora colui che aveva parlato in tal guisa, nell’atto che s’inoltrava verso la contessa d’Osasco, — vogliate condonare la poca vigilanza nostra ad un’ora di trambusto. Non sarà mai detto che l’esercito comandato da Pietro di Campo Fregoso sia contaminato da cosiffatte ribalderie. I miei soldati hanno ordini severi e consuetudini oneste di pugna. Ora, se il capitano si giova di tutti gli spedienti e accoglie ogni servizio che lo conduca più prontamente al suo fine, egli non può altrimenti sottrarre ad un castigo esemplare chi commette la viltà di oltraggiare una donna. Contessa d’Osasco, il vostro offensore sarà giudicato domani.

— O stamani, — mormorò il Picchiasodo, — perchè oramai si può cantar mattutino. —

Il Sangonetto faceva in quel mentre un passo indietro, sperando di mettersi lontano dal tiro e di darla a gambe non visto. Ma il Picchiasodo ci aveva gli occhi nella collottola.

— Ehi, dico, non mi dare la volta! Qua, mal arnese, e sentimi questo po’ di tanaglia. A voi, dopo tutto; non cercate più altro, ecco l’uomo! —

Da questo breve discorso il savio lettore argomenterà i gesti del Campora, che io non mi fermo a descrivere. E nemmanco mi dilungherò a raccontare come il Sangonetto, tirato a forza davanti a madonna [p. 303 modifica]Nicolosina, che non voleva accusarlo, si buttasse vilmente ginocchioni ai suoi piedi, e ne implorasse la intercessione presso il capitano generale. Il lettore ne sarebbe stomacato come lo fu messer Pietro Fregoso.

— Basta! — diss’egli, stizzito, — Levatemi questo codardo da’ piedi! Anselmo, tu sei pratico di queste faccende e sai che cosa ci voglia per mantenere la disciplina e custodir l’onore di un esercito. Ti dò questo briccone in governo; fanne giustizia a tuo senno.

— Eh! un bel regalo! — borbottò il Picchiasodo tra i denti.

Messer Pietro tornò poco stante alle cure del comando; chè, preso il castello Gavone, non era già finita ogni cosa, ma bisognava tener salda la preda e provvedere in pari tempo alla sicurezza dell’esercito, contro ogni colpo disperato del Borgo.

Le precauzioni non erano inutili. Gente risoluta ce n’era in buon dato nel Borgo, anche dopo la partenza, voluta a forza un mese addietro dal marchese Galeotto, di messer Barnaba Adorno e degli altri della sua casa; ai quali, perchè fuorusciti di Genova e mortalmente odiati dai Fregosi, dovevasi risparmiare ad ogni costo il brutto quarto d’ora d’una resa, oramai preveduta da tutti. Rimanevano adunque nel Borgo i congiunti e i principali aderenti del marchese; e bene pensava messer Pietro, che, pigliato di sorpresa il castello, bisognasse assicurarsene il possesso, rafforzandolo con molta mano di soldatesche e sussidio d’artiglierie, prima che i difensori del Borgo fossero per riaversi dallo stupore.

Frattanto, il nostro bravo Giovanni di Trezzo con[p. 304 modifica]duceva madonna Nicolosina, la madre e l’altre donne, a riparo nella chiesuola di San Giorgio, che era dentro al castello, e colà usava ogni maniera di cortesi trattamenti ad essa e agli altri ragguardevoli uomini di casa Carretta, che erano stati colti in quella notte lassù.

Tra queste ed altre cure simiglianti, giunse il mattino, lieto per gli uni, doloroso per gli altri, siccome avviene pur troppo di tutti i giorni dell’anno. Anselmo Campora era già sulla spianata davanti al castello, per mettere in sesto la signora Ninetta ed alcune bombardelle tirate in fretta lassù dal battifolle di Pertica, mentre i soldati di Trezzo e i mastri di legname, sparsi nei dintorni, lavoravano ad asserragliare il poggio dalla parte del Borgo. Lavoro arrangolato e sollecito, poichè si temeva che da un momento all’altro potessero i finarini tentare un colpo disperato sull’erta.

— Aspettate; — diceva il Picchiasodo; — or ora manderemo a quegli ostinati una nespola del nostro orto, e saprà loro d’acerbo. A proposito, s’ha a far giustizia di quell’altro. Ohè, Falamonica, dov’è il prigioniero?

— Sotto chiave nei fondi del castello, come avete ordinato; — rispose il Falamonica, che i nostri lettori avranno creduto morto, laddove egli non aveva preso che un bagno freddo.

— Orbene, vallo a pigliare e portalo qua. Quell’altro ha già avuto il fatto suo dalla donna; al suo degnissimo sozio glielo daremo noi, in lire, soldi e danari. —

Poco stante, un drappello di soldati conduceva [p. 305 modifica]sulla spianata Tommaso Sangonetto, il prode Sangonetto, bianco il volto come un cencio lavato, e già più morto che vivo.

— Messer Pietro mi ha posto un bel carico sulle braccia! — borbottò il Campora, vedendo giungere quel disgraziato. — Che vi pare, amico Giovanni? S’ha proprio a caricarne la bombarda, di quel batuffolo di stracci?

— Perdio! — rispose Giovanni di Trezzo. — Fate come v’aggrada, Anselmo, poichè il capitano generale v’ha lasciato in governo il panno e le forbici. Ma io domanderò a voi che cosa si è sempre fatto delle spie, dei disertori e dei furfanti pari a costui. Per me, ve lo dico schietto; se fossi il mastro de’ bombardieri, vorrei risparmiare una palla.

— E sia; — ripigliò il Picchiasodo. — a voi dunque, signora Ninetta; preparatevi a ricevere in casa un briccone. —

Il Sangonetto, come i lettori possono figurarsi, guatava con occhio smarrito ora il Picchiasodo ora Giovanni di Trezzo, e ansimava, sudava freddo e tremava; sopratutto tremava e gli battevano i denti, e gli si piegavano le ginocchia. I soldati, più assai che tenerlo stretto nelle ugne, dovevano reggerlo sotto le ascelle, che non avesse a cascare da senno, come un batuffolo di stracci.

In quel mentre, il Falamonica si messe a gridare.

— Ah, cane! eccolo là!

— Chi? — domandò il Picchiasodo.

— Vedete, messere; il vostro cucco, il vostro prediletto, il mariuolo che m’ha gettato nel pozzo. —

Colui che il Falamonica segnava a dito, era per [p. 306 modifica]era per l’appunto il Maso, fatto prigioniero nella beltresca, riconosciuto da alcuni soldati pel fuggitivo del giorno addietro, e condotto da essi al Campora, colla speranza di averne la mancia.

Anche il Maso riconobbe il Falamonica, e se fu contento di non averlo mandato a male, non si tenne altrimenti per salvo.

— Son fritto! — diss’egli un’altra volta in cuor suo. — Non c’è più scappatoie. —

Per altro, nell’avvicinarsi alla comitiva, l’animoso giovinotto volle ancor dire la sua.

— Ah, sia lodato il cielo, Falamonica! Siete voi, proprio voi, in carne ed ossa!

— E nervi, per stringerti il nodo alla gola, assassino! — rispose il Falamonica, guardandolo a squarciasacco.

Il Picchiasodo entrò in mezzo al discorso.

— Furfante! — diss’egli, aggrottando le ciglia o ingrossando la voce. — Così hai risposto alle mie amorevolezze per te?

— Scusate, padron mio riverito; — rispose il Maso, facendo faccia tosta; — ero prigione, ma non già sulla parola, nel campo vostro. Sono fuggito, per tornarmene quassù, a fare il debito mio di finarino e di soldato. C’è la storia del pozzo, lo capisco; ma il pozzo era poco profondo, e difatti, ecco qua il Falamonica, più sano, e credo anche meglio pasciuto di prima, mentre io non ho più messo altro in corpo, dopo la vostra ultima minestra. Messere Anselmo, fatemi impiccare, se ciò vi dà gusto e se è necessario alla vostra felicità; ma ditemi in grazia una cosa: ne’ miei panni, ieri, che cosa avreste fatto voi? [p. 307 modifica]

— Si domanda? Avrei dato fuoco alla baracca ed al campo; — rispose il Picchiasodo alzando la spalle e facendo cipiglio, per nascondere un sorriso che gli spuntava già sotto i baffi. — Dal resto, — aggiunse, — siccome io non ero ne’ tuoi panni, ieri, non vorrei esserci oggi per tutto l’oro del mondo.

— Già, capisco; — borbottò il Maso; — puzzano d’impiccato un miglio lontano.

— Torniamo a noi, — ripigliò il Picchiasodo, — e sbrighiamo anzitutto quell’altro.

— Messere, — disse il Falamonica sottovoce al padrone, — sapete che la bombarda è carica.

— Eh lo so, bighellone! Prima si manda la nespola al Borgo, e poi metteremo dentro costui. Messere dell’archibugio, — soggiunse il Picchiasodo, volgendosi al Sangonetto con una celia da camposanto, — o quanto non era meglio per voi che vi foste fatto vivo con me, laggiù, all’osteria dell’Altino? Ma già, — proseguì borbottando, — se voi foste stato un uomo di polso, non vi sareste macchiato di tradimento e d’infamia. Animo, a te, bombardiere! Avanti l’uncino, e fuoco! —

Il bombardiere obbedì, togliendo l’uncino arroventato dal braciere e accostandolo al focone. Seguì un lampo e insieme col lampo un fragore, uno schianto, come di folgore, che intronò le orecchie di tutti gli astanti e a qualcheduno fe’ peggio. La palla era uscita, ma in pari tempo era andata in frantumi la canna. La signora Ninetta, la povera signora Ninetta, amore e delizia di Anselmo Campora, era andata dove vanno tutte le cose vecchie, e talvolta anco le giovani; e ben se ne avvide il suo cavalier servente, quando fu [p. 308 modifica]diradata la nube che lo scoppio della polvere aveva prodotta, e si udirono le strida di parecchi soldati, feriti dalle scheggie del pezzo.

— Ah, per l’anima di!.... — gridò il Picchiasodo, che non sapeva più in nome di chi bestemmiare con frutto. — Birbe matricolate! La mia bombarda! La regina delle bombarde! Vedete un po’! E stamane, poi, proprio stamane! Ma che diamine avete voi fatto? Forse nel trarla quassù l’avreste lasciata ruzzolare pei sassi?

— No, messere Anselmo; s’è portata con ogni cura e non le si è fatto alcun male; — gridarono ad una voce i soldati.

— Già, — entrò a dire Giovanni di Trezzo, — tanto va la gatta al lardo che vi lascia lo zampino. Anche le bombarde sono mortali, e voi saprete quello che ha detto il poeta: Cosa bella e mortal...

— Sì, sì, ho capito! — interruppe il Campora. — Questa è opera del Cattabriga, che, fedele alla sua praticaccia, mi avrà risciacquato la bombarda coll’aceto.

Il Picchiasodo si apponeva; chè infatti il mal uso di lavar le bombarde coll’aceto era spesso cagione di simili guasti, e non tutti se ne volevano persuadere. Il Cattabriga, bombardiere a cui Anselmo Campora avea dato cagione di quella disgrazia, era lì per rispondere, chiedendo scusa al suo comandante, allorquando il Maso uscì fuori con una delle sue solite arguzie.

— Messer Anselmo — diss’egli — credete a me, non è l’aceto. La signora Ninetta è una bombarda per bene. Ha veduto il brutto coso con cui volevate appaiarla, e al disonore ha preferito la morte. —

Il Picchiasodo lo guardò un tratto in silenzio, come [p. 309 modifica]se stesse in forse, meditando la profondità dell’osservazione. L’amore per la sua povera bombarda gli diede il tracollo.

— Tu hai colpito nel punto, — gridò, — ed ecco una osservazione che ti salva la vita. A te! ami quest’uomo? — gli chiese, additandogli il Sangonetto.

— Come il fumo negli occhi! — rispose il Maso. — È un traditore del mio paese; faceva l’occhiolino ad una certa persona che è sempre piaciuta a me; ha fatto, come sento or ora, un’azionaccia... Come volete che io l’ami?

— Ti sentiresti di fartela con lui?

— Perdio! — sclamò il Maso. — Ve lo infilzo come un tordo allo spiedo.

— Sta bene, hai qui la mia spada. Tienla per amor mio, te la regalo. E tu, mascalzone, — proseguì il Campora, contento di aver trovato una via così spiccia, — levati di qua; vattene al Borgo, se ti ricevono, e se questo giovinotto ti consentirà di arrivarci! —

Il Sangonetto cadeva, come suol dirsi, dalla padella nella brace.

— Messere, — balbettò egli, con voce piagnolosa, — chiudetemi in una prigione per tutta la vita, vi supplico...

— No, — rispose il Picchiasodo, — mi faresti scoppiar la prigione dalla vergogna. Va via! Fategli largo, voi altri! E tu, piglialo, da bravo!

— Ammazza! ammazza! — gridarono in coro i soldati, vedendo il Sangonetto che batteva il tacco verso la china.

— Non dubitate, — gridò il Maso, correndogli sull’orme, — è un uomo morto. — [p. 310 modifica]

I soldati del Campora e di Giovanni di Trezzo ebbero allora uno spettacolo di corsa, che nel Circo massimo, ai giuochi gladiatorii, non ebbe l’uguale il più famoso popolo della terra, Il Sangonetto, veduto andargli a male la sua ultima speranza, s’era dato a fuggire, e volava via come il vento. Come fu al ciglione del poggio, piegò improvvisamente a dritta, e giù a fiaccacollo, guadagnando una cinquantina di passi sul Maso che lo seguiva furente.

I soldati corsero sui greppi per averne l’intiero.

— Lo perde! — No, non lo perde! — Vedrete; là dietro alla macchia dei roveri lo raggiunge di certo. — Che! vedetelo là, il furfante; va via come una lepre. — Sì, ma l’altro è buon cane da giungere, e non gli dà troppo campo. — Ah, diamine, eccoli là nel torrente! — Incespica! — Chi? — Il giovinotto, perdiana! Ma ecco, si rialza; non s’è fatto nulla. — E quell’altro, vedete un po’! Già, la fortuna aiuta i bricconi. Piglia la via della Caprazoppa. — E qual’altra volete che pigli? Se va al Borgo, è un uomo spacciato. Se volta a tramontana, intoppa nel battifolle di Gorra. — O come? Non si vede già più? — Lo nascondono quei massi sporgenti. Guardatelo ora, là tra quei due cespugli, che s’inerpica. — Ha da essere stanco la parte sua. Ma l’altro, dov’è? — Guardate è là sotto, a cento passi più giù. — Lo perde! — No, non lo perde. Vedete? lo fiuta da lunge, e si rimette sull’orma. —

Questi i ragionari dei soldati, lungo la costiera occidentale di castel Gavone. Intanto, era vero che il Sangonetto aveva fatto ogni poter suo, e che il petto non gli reggeva più oltre a sostener quella gara mor[p. 311 modifica]tale. Giunto a fatica presso uno di que’ massi biancastri che sporgono fuor della ripida costa, sotto la roccia dell’Aurèra, si gittò per morto a rifugio entro una fratta di arbusti e sterpi intralciati. Colà ristette, trattenendo a forza il respiro, sperando che il suo nemico avesse smarrito la traccia.

E ciò temettero dal canto loro i soldati genovesi. Il Campora già si pentiva di aver fatto al briccone un così largo partito. Ma poco stante comparve il Maso al piè dello scoglio; i soldati lo videro star perplesso un istante, indi con passo guardingo inoltrarsi, strisciar quasi a mo’ di serpente lunghesso i fianchi scoscesi del masso. Quel che seguisse, non fu dato ad essi di scorgere; bensì parve loro di udire a qualche distanza un grido lamentevole. Indi a non molto, una massa informe, come un sasso, o un batuffolo di cenci (la frase era del Campora) precipitava da quel greppo, ruzzolava per la china paurosa del monte.

— Animo, ragazzi! — gridò il Picchiasodo. — Ci abbiamo avuto un’ora di svago. È tempo di tornare ai fatti nostri. E così vada bene ogni cosa per noi, come questa c’è andata, coll’aiuto di Dio.

Amen! — risposero i bombardieri, che vedevano il loro comandante di buon umore e s’arrischiavano a far gazzarra con lui.