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Nicolosina, che non voleva accusarlo, si buttasse vilmente ginocchioni ai suoi piedi, e ne implorasse la intercessione presso il capitano generale. Il lettore ne sarebbe stomacato come lo fu messer Pietro Fregoso.

— Basta! — diss’egli, stizzito, — Levatemi questo codardo da’ piedi! Anselmo, tu sei pratico di queste faccende e sai che cosa ci voglia per mantenere la disciplina e custodir l’onore di un esercito. Ti dò questo briccone in governo; fanne giustizia a tuo senno.

— Eh! un bel regalo! — borbottò il Picchiasodo tra i denti.

Messer Pietro tornò poco stante alle cure del comando; chè, preso il castello Gavone, non era già finita ogni cosa, ma bisognava tener salda la preda e provvedere in pari tempo alla sicurezza dell’esercito, contro ogni colpo disperato del Borgo.

Le precauzioni non erano inutili. Gente risoluta ce n’era in buon dato nel Borgo, anche dopo la partenza, voluta a forza un mese addietro dal marchese Galeotto, di messer Barnaba Adorno e degli altri della sua casa; ai quali, perchè fuorusciti di Genova e mortalmente odiati dai Fregosi, dovevasi risparmiare ad ogni costo il brutto quarto d’ora d’una resa, oramai preveduta da tutti. Rimanevano adunque nel Borgo i congiunti e i principali aderenti del marchese; e bene pensava messer Pietro, che, pigliato di sorpresa il castello, bisognasse assicurarsene il possesso, rafforzandolo con molta mano di soldatesche e sussidio d’artiglierie, prima che i difensori del Borgo fossero per riaversi dallo stupore.

Frattanto, il nostro bravo Giovanni di Trezzo con-