Castel Gavone/XVII
Questo testo è completo. |
◄ | XVI |
CAPITOLO XVII.
Che è il più breve, e che parrà anche, per virtù
del commiato, il più bello di tutti.
La mattina del 6 di febbraio 1449, i genovesi si erano impadroniti, come ho raccontato, del castello Gavone. Il giorno 8 di maggio avevano a discrezione le mura e gli abitanti del Borgo.
Questa vittoria, siccome i tre mesi di estrema resistenza dimostrano, era costata sangue e fatica non lieve all’esercito. Gli assediati con uno sforzo inaudito avevano tentato perfino di ricuperare il castello, e in più d’uno scontro i genovesi si erano veduti a mal passo. Lo stesso capitano generale, entrando alla riscossa ed esponendo la persona, come del resto era suo solito in cosiffatti frangenti, toccò la sua brava ferita. Ma finalmente, veduti mancare i soccorsi che il marchese Galeotto cercava di raggranellare ne’ suoi feudi d’oltre Appennino, e che chiedeva, ora a Torino, ora alla corte di Francia, i finarini si arresero, dopo quasi un anno e mezzo di lotta.
A Genova, tenendosi certa la vittoria, si era disputato nell’uffizio di Balìa se fosse ben fatto assaccomannare e distruggere in tutto la terra del Finaro; ma il consiglio deliberò (come dice quel candido uomo di monsignor Giustiniani) la parte più benigna ed umana. «E fu deliberato di dare a saccomanno solamente il borgo e di rovinare la fortezza del Gavone. E perchè si era promesso, in caso della vittoria, a Marco del Carretto e ai compagni la terza parte del Finaro, ovvero l’equivalente, fu deliberato di satisfarlo. E, ai nove di maggio, gli uomini del Finaro giurarono la fedeltà alla repubblica di Genova. E poi, ai quindici d’agosto, la repubblica li fece capitoli e grazie, come appàreno di tutte le predette cose autentiche scritture nell’archivio del comune. Tra queste larghezze è forse da notarsi il presente d’uno stendardo, che portava un leon d’oro in campo bianco, con questa leggenda tra le fauci: «Custos fidei sacrae populs finariensis».
Mario Filelfo, istorico di quella guerra per conto di casa Carretta, racconta che addì 24 di maggio, essendo già tratti a Genova come statichi cencinquanta dei più ragguardevoli cittadini, fu dato il Borgo alle fiamme e smantellato il castello. Ed altro narra eziandio, che non mi pare da credergli intiero; imperocchè, se di castel Gavone può ammettersi la rovina, almeno nelle parti più atte a difesa, non può credersi altrimenti che fosse distrutto il Borgo, ove il bellissimo campanile di San Biagio, la chiesa di Santa Catterina col suo convento di domenicani, la vôlta di Ramondo, e più altre fabbriche medioevali, fanno fede ai tardi nipoti di una certa moderazione, anche negli atti più vandalici, che erano pur troppo nel costume dei tempi.
Nè mancarono da parte di messer Pietro Fregoso gli atti umani e cortesi. Prima ancora che avesse fine l’assedio del Borgo, madonna Bannina e tutte le donne della sua nobil famiglia, tra le quali la bella Nicolosina, furono mandate in libertà e accompagnate alle Màllare, donde andarono a ricongiungersi col marchese Galeotto a Millesimo. Dopo la resa, anche il conte di Cascherano fu libero di andare a pigliarsi la moglie e di ricondursi seco lei al suo castello di Osasco.
Inoltre (e questo io l’ho di buon luogo, sebbene non ne faccia motto il Filelfo) Anselmo Campora, che si ricordava de’ suoi amici, faceva rimandare a casa sua il povero mastro Bernardo; e messer Pietro Fregoso diede anche in regalo a lui e al Maso un bel gruzzolo di monete; colle quali i nostri due amiconi rinnovarono i mobili, l’insegna e la cantina, nell’osteria dell’Altino.
Insieme collo zio Bernardo e colla zia Rosa, si era ritirata all’Altino la Gilda, non più pazza, nè scema di mente, come da principio si temeva, ma assai giù dello spirito pei casi gravissimi che l’avevano afflitta, e quasi esangue per una grave infermità che da tanta commozione le era seguita. Dal tempo e dall’amor vigilante de’ suoi, aspettiamo il rimedio efficace ai mali della Gilda, della più leggiadra ragazza del Finaro, ora che madonna Nicolosina è andata ad abbellire di sua presenza il castello di Osasco, sfuggendo al nostro tema e, come potete immaginare, anche alla nostra attenzione.
Il marchese Galeotto, poi ch’ebbe peregrinato qua e là in cerca di aiuti, e risaputo con suo grave rammarico della morte di Bannina, avvenuta a Millesimo in quel tempo che i genovesi entravano padroni nel Borgo, si recò in Francia e vi rimase a lungo, pigliando parte, da quel valentuomo ch’egli era, alle guerre di quel reame. Colà, in una pugna navale sulle coste di Bretagna, un colpo di bombarda ebbe a sconciargli un braccio per modo, che indi a non molto dovette morirne, ma colla consolazione d’aver riveduto il fratello Giovanni, uscito finalmente dalle prigioni di Genova.
Chi vuol saperne di più, intorno a questi due personaggi, faccia capo ai Filelfo e si misuri col suo latino indiavolato. Leggerà eziandio come Giovanni, aiutato dalle soldatesche dei cugini, da quelle de’ suoi aderenti e infine dai soccorsi di Francia, ripigliasse più tardi il marchesato ai genovesi e desse opera a rifabbricare la città ed il castello Gavone.
Egli e i suoi discendenti godettero senza disturbo (poichè Genova, straziata dalle fazioni, aveva altro che fare) il loro marchesato insieme co’ feudi di Stellanello in val d’Andora, di Calizzano in val di Bormida grande, di Massimino sul Tanaro, di Bormida, Pallare e Carcare sulla Bormida d’Acqui. Senonchè (vedete, egli c’è un senonchè!) un Alfonso II, o degenere da’ suoi maggiori, o rifattosi per cagion d’atavismo alle costumanze dei più antichi tra loro, uscì in ogni maniera di prepotenze e di colpe. Dura infame la memoria di lui nella terra, ed io mi dispenso dal ripetere tutto ciò che di lui si racconta. Basti il sapere che fattosi senza licenza sua un matrimonio nel borgo, andò furibondo a turbare la serenità d’un convito nuziale e afferrata la sposa per le trecce, la tolse sull’arcione e la portò via a galoppo in castello. Narrasi altresì che usasse cavalcare a diporto verso la Marina, e di là fino a Pia, dove entrava col cavallo nella chiesa di Santa Maria ed egli e i suoi cortigiani, ritti sulle staffe, abbeverassero i cavalli nella pila dell’acqua santa.
Noti so quale dei due fatti tornasse più ostico ai vassalli del marchese. Cito a memoria cose udite da bambino, e non ho tempo a dilungarmi in queste minutaglie della storia. Il certo si è che i finarini perdettero la pazienza, e mentre Genova ne pigliava ansa a tornare su Castelfranco, i maltrattati e disputati sudditi si richiamavano contro il loro marchese e contro il doge di Genova, al tribunale del sacro Romano Impero; che, imitando il giudice famoso della favola esopiana, volle per sè il feudo aleramico e vi mandò commissarii a governarlo in suo nome.
Ciò fu nell’anno 1568. Tre anni dopo vi si allogarono gli Spagnuoli, per avere una rada sicura donde procurarsi la via più spedita al milanese; e signoreggiarono il marchesato, spendendovi tesori, fino al 1713; nel quale anno Carlo VI lo vendè per sei milioni di lire alla repubblica di Genova. Questa a sua volta lo tenne, quantunque agognato, e per due anni anche carpito dai duchi di Savoia, fino al giorno della ingloriosa sua morte.
Vedete mo’ quante vicende in quattro palmi di terra! Ma altri luoghi d’Italia ebbero peggio, e per le divisioni dei popoli, e per le gare dei maggiorenti; donde le ambizioni dei condottieri, le male arti dei principi e le armi straniere in casa nostra. L’esempio di ciò che patirono gli avi, insegni la concordia e la temperanza ai nipoti.
Torno indietro fino al 1450, per dire ai lettori benevoli che questo racconto può non aver annoiati del tutto, come le cure affettuose d’una buona famiglia e la divozione sconfinata di un’ottimo giovinotto, vincessero il male e confortassero lo spirito della povera Gilda. La più leggiadra ed anco la più disgraziata donna del Finaro, era ben degna di questo dono celeste, che è una stilla d’oblìo.
Anselmo Campora, visitatore quotidiano della famosa osteria, s’invitò da per sè al modesto banchetto. Modesto, poi, si dica soltanto per la qualità dei commensali, non già per quella dei cibi, e molto meno per quella dei vini. Quel sornione di mastro Bernardo scovò ancora per la solenne circostanza, da una certa buca fatta due anni addietro in cantina, una mezza serqua di fiaschi di quella sua prelibata malvasia di Candia, che faceva arrovesciar gli occhi, in segno di beatitudine, al miglior bevitore dell’esercito genovese.
— Siete un brav’uomo, mastro Bernardo! — gridò il Picchiasodo, poi ch’ebbe trincato alla salute di Gilda, del Maso, della zia Rosa, e, a farla breve, di tutti gli astanti, — E vedo, stando qui di presidio, che questo popolo è buono, come si è mostrato valoroso in tante occasioni. Sentite ora un mio pensiero; in vino veritas, e se me ne versate dell’altro, mi spiegherò ancora meglio. Grazie infinite! Io dico dunque, che, come noi due non ci odiamo, perchè abbiamo potuto ricambiarci qualche servizio, così non debbono odiarsi finarini e genovesi. Che diamine? o non parliamo tutti lo stesso vernacolo? Meditate su questo punto, mastro Bernardo, che mi par l’essenziale. E non vi metta in pensiero qualche divario nella pronunzia, come a dire un po’ di cantilena che noi sentiamo nella vostra parlata, e un po’ di strascico che voi fiutate nella nostra. Son cose da nulla, e appunto perchè son cose da nulla, mi stanno a riprova di quanto io v’ho detto. Credete a me, mastro Bernardo; io non so che cosa avverrà di noi tra qualche anno, ma son sicuro che un giorno i nostri figli dimenticheranno queste bizze tra parenti, o non le metteranno in tavola che per ricordare le prodezze comuni. Il Finaro è un bel paese, ma Genova non gli sta di sotto, e ve lo provo. Voi ci avete il vino di Calice; noi quello di Coronata; sinceri ambedue come i nostri cuori, sfavillanti come i nostri occhi, generosi come l’indole nostra. A chi non piace il vino, Dio gli tolga l’acqua! Chi non vede di buon occhio l’amicizia e la fratellanza dei Liguri, abbia il canchero in casa. Pensateci su, mastro Bernardo! Con Genova a capo, si può far la Liguria, come è già stata una volta. E un giorno, chi sa?... Da cosa nasce cosa, e il tempo la governa. Ho detto. —
Così il buon Picchiasodo alle frutte. Ed io ho raccolto con riverenza queste briciole oratorie d’un capo di bombardieri, che precorreva di mezzo secolo Nicolò Machiavelli.
FINE.