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duceva madonna Nicolosina, la madre e l’altre donne, a riparo nella chiesuola di San Giorgio, che era dentro al castello, e colà usava ogni maniera di cortesi trattamenti ad essa e agli altri ragguardevoli uomini di casa Carretta, che erano stati colti in quella notte lassù.

Tra queste ed altre cure simiglianti, giunse il mattino, lieto per gli uni, doloroso per gli altri, siccome avviene pur troppo di tutti i giorni dell’anno. Anselmo Campora era già sulla spianata davanti al castello, per mettere in sesto la signora Ninetta ed alcune bombardelle tirate in fretta lassù dal battifolle di Pertica, mentre i soldati di Trezzo e i mastri di legname, sparsi nei dintorni, lavoravano ad asserragliare il poggio dalla parte del Borgo. Lavoro arrangolato e sollecito, poichè si temeva che da un momento all’altro potessero i finarini tentare un colpo disperato sull’erta.

— Aspettate; — diceva il Picchiasodo; — or ora manderemo a quegli ostinati una nespola del nostro orto, e saprà loro d’acerbo. A proposito, s’ha a far giustizia di quell’altro. Ohè, Falamonica, dov’è il prigioniero?

— Sotto chiave nei fondi del castello, come avete ordinato; — rispose il Falamonica, che i nostri lettori avranno creduto morto, laddove egli non aveva preso che un bagno freddo.

— Orbene, vallo a pigliare e portalo qua. Quell’altro ha già avuto il fatto suo dalla donna; al suo degnissimo sozio glielo daremo noi, in lire, soldi e danari. —

Poco stante, un drappello di soldati conduceva