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era per l’appunto il Maso, fatto prigioniero nella beltresca, riconosciuto da alcuni soldati pel fuggitivo del giorno addietro, e condotto da essi al Campora, colla speranza di averne la mancia.
Anche il Maso riconobbe il Falamonica, e se fu contento di non averlo mandato a male, non si tenne altrimenti per salvo.
— Son fritto! — diss’egli un’altra volta in cuor suo. — Non c’è più scappatoie. —
Per altro, nell’avvicinarsi alla comitiva, l’animoso giovinotto volle ancor dire la sua.
— Ah, sia lodato il cielo, Falamonica! Siete voi, proprio voi, in carne ed ossa!
— E nervi, per stringerti il nodo alla gola, assassino! — rispose il Falamonica, guardandolo a squarciasacco.
Il Picchiasodo entrò in mezzo al discorso.
— Furfante! — diss’egli, aggrottando le ciglia o ingrossando la voce. — Così hai risposto alle mie amorevolezze per te?
— Scusate, padron mio riverito; — rispose il Maso, facendo faccia tosta; — ero prigione, ma non già sulla parola, nel campo vostro. Sono fuggito, per tornarmene quassù, a fare il debito mio di finarino e di soldato. C’è la storia del pozzo, lo capisco; ma il pozzo era poco profondo, e difatti, ecco qua il Falamonica, più sano, e credo anche meglio pasciuto di prima, mentre io non ho più messo altro in corpo, dopo la vostra ultima minestra. Messere Anselmo, fatemi impiccare, se ciò vi dà gusto e se è necessario alla vostra felicità; ma ditemi in grazia una cosa: ne’ miei panni, ieri, che cosa avreste fatto voi?