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diradata la nube che lo scoppio della polvere aveva prodotta, e si udirono le strida di parecchi soldati, feriti dalle scheggie del pezzo.

— Ah, per l’anima di!.... — gridò il Picchiasodo, che non sapeva più in nome di chi bestemmiare con frutto. — Birbe matricolate! La mia bombarda! La regina delle bombarde! Vedete un po’! E stamane, poi, proprio stamane! Ma che diamine avete voi fatto? Forse nel trarla quassù l’avreste lasciata ruzzolare pei sassi?

— No, messere Anselmo; s’è portata con ogni cura e non le si è fatto alcun male; — gridarono ad una voce i soldati.

— Già, — entrò a dire Giovanni di Trezzo, — tanto va la gatta al lardo che vi lascia lo zampino. Anche le bombarde sono mortali, e voi saprete quello che ha detto il poeta: Cosa bella e mortal...

— Sì, sì, ho capito! — interruppe il Campora. — Questa è opera del Cattabriga, che, fedele alla sua praticaccia, mi avrà risciacquato la bombarda coll’aceto.

Il Picchiasodo si apponeva; chè infatti il mal uso di lavar le bombarde coll’aceto era spesso cagione di simili guasti, e non tutti se ne volevano persuadere. Il Cattabriga, bombardiere a cui Anselmo Campora avea dato cagione di quella disgrazia, era lì per rispondere, chiedendo scusa al suo comandante, allorquando il Maso uscì fuori con una delle sue solite arguzie.

— Messer Anselmo — diss’egli — credete a me, non è l’aceto. La signora Ninetta è una bombarda per bene. Ha veduto il brutto coso con cui volevate appaiarla, e al disonore ha preferito la morte. —

Il Picchiasodo lo guardò un tratto in silenzio, come