Canti (Sole)/Appendice
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APPENDICE
LUIGI LA VISTA
Di Luigi La Vista non s’era ancor fatta alcuna solenne commemorazione in questa città, dove egli cadde da eroe; perciò parmi giusto ch’io cominci dal volgermi ai valorosi giovani, qui radunati, salutandoli con le nobili parole del Poeta:
Oh voi pietosi, onde si tristo e basso
Obbrobrio laverà nostro paese!
Bell’opra hai tolta e di che amor ti rende,
Schiera prode e cortese,
Qualunque petto amor d’Italia accende.
Più volte, tenendo gli occhi sui volume pubblicato dal Villari,1 ho pensato fra me che non mi meraviglierei punto, se uno straniero, a cui fosse ignoto il nome del giovine eroe, facendo la medesima lettura, domandasse a se medesimo: Questo racconto è una storia, o non piuttosto un romanzo che arieggi quei due famosi del Goethe e del Foscolo, i quali fecero battere tanti cuori giovanili? Non mi meraviglierei, dicevo, perchè il protagonista pare una delle creature più ideali che abbia mai immaginato alcun autore moderno: e la stessa forma generale del libro, composto dagli scritti di Luigi La Vista e dalle aggiunte e note dell’editore, concorrerebbe a ingenerare quel dubbio, che il Villari abbia fatto un romanzo, misto più o meno di storia, a somiglianza di quei due famosi esemplari. Questa volta però, a maggior gloria del nome italiano, si tratta di fatti non immaginati, ma veri: si tratta della breve storia di un uomo vissuto solo ventidue anni, e che pur fa onore alla storia di un popolo intero.
Non ci è un atto solo in quella vita che non fosse ispirato dal fine altissimo, al quale, come a sua meta, essa era ognor volta. Quanto il La Vista facesse, pensasse o sognasse, tutto pareva dovesse apparecchiarlo a quella grandezza, a quel martirio, per cui la sua vita, che sin allora era stata pur bella, divenne santa; per cui la sua memoria, che pur ci sarebbe rimasta cara nei suoi scritti, c’invita a inginocchiarci sul terreno ov’ei cadde. Come un gran poeta trae da tutte le cose ispirazioni e incitamenti, così quel meraviglioso giovane, dai propri studi, dai colloqui con gli amici, dalle bellezze della natura, da quanto accadesse intorno a lui, traeva nuovi conforti a proseguire il suo ideale e nuove cagioni di ardenti speranze.
Questo sentimento è come l’anima che informa tutti i suoi scritti; ed è talvolta espresso con parole di pari sublimità. «A noi (egli scrive) non cale dell’insulto, o dello scherno: chi può vilipendere o schernire un giovane, che nel fiore degli anni e delle speranze immola ai suoi simili gli affetti del cuore e le illusioni della mente, colui non è nato alla civiltà, colui dee arrossire innanzi ai selvaggi. Ma i giovani intendono i giovani; le sventure sovrumane della giovanezza stringono i vincoli formati dall’età e dall’amicizia. Se un giovane cade, gli amici lo piangono; quel pianto è un panegirico, non bassezza, non adulazione; la virtù dei superstiti piange la virtù dell’estinto. La tomba d’un giovane è un altare.»2 L’ammirabil giovine che qui si rammentava degli eroi delle Termopili, di Simonide e del suo Leopardi, non prevedeva ch’egli sarebbe stato privo di tomba, e noi di altare:
A lui non ombre pose
Tra le sue mura la città,...
Non pietra, non parola; e forse l’ossa
Col mozzo capo gl’insanguina il ladro
Che lasciò sul patibolo i delitti.
Ma quell’altare, o generoso, è oramai nel cuore degli Italiani, dove starà anche dopo che il tempo avrà spazzato fin le rovine dei sepolcri che sfidavano i secoli.
Gli affetti più gentili e che più onorano ed affinano la nostra natura, in lui giungevan tutti ad un’altezza, a cui non sempre sogliono giungere anche negli spiriti più eletti. Come amasse suo padre, si scorge dalle parole con cui gli dedicò alcuni scritti, i soli ch’egli desse alle stampe: «A mio padre, che a me ignaro delle carezze materne e delle domestiche gioie finora invano bramoso, faceva, con isquisita intelligenza del core, gustare gli amori ineffabili di madre di fratello di amico, questo primo frutto di studi dolorosamente diletti.»3
Co’ suoi cari estinti conversava anche più assiduamente che altri non faccia coi vivi che più ami. «A niuno dei miei più cari ho parlato tanto, e con niuno ho conversato tanto, quanto con mia madre estinta da tanti anni, e con una mia sorella morta quasi sul mio entrare nella vita. Parimenti m’immagino che dovranno fare con me quelli che resteranno a piangere ed annoiarsi dopo di me.»4 Chi non sente qui quella «corrispondenza d’amorosi sensi», cantata dal Foscolo, e che diviene più vera e più santa che mai in un’anima come quella di Luigi La Vista?
Affetti parimente forti e divini furon quelli che sentì per i grandi scrittori, specialmente per i poeti e per gli storici. E ce n’è testimonio, autorevole sopra tutti, il De Sanctis: «Uscito dal campo de’ fantasmi, e del suo pensiero, l’anima desiosa innamoravasi delle grandi anime, e Courier, e Santarosa, e Pascal, e Salvator Rosa, e Manzoni, e Dante, e il Petrarca furono testimoni e compagni de’ suoi ultimi anni. Noi l’udimmo ragionar di costoro, con tanta copia di nobili ed alti e peregrini concetti, che pareva uscito allora dalla conversazione di un grande uomo, il cui parlare avesse sublimato e nobilitato il suo animo; ed il suo giudizio era accompagnato da tanta ammirazione ed affetto, che sembrava favellasse di amici, con cui fosse stato in dimestico e lungo consorzio.»5 In queste ultime parole del Maestro ci par di sentire il Lessing, quando dimostrava che, a intendere i grandi autori, la maniera più efficace era di trattarli e amarli come amici. E il nostro giovine, che pure fino a diciannove anni era stato chiuso in un povero seminario, aveva per propria virtù inteso e praticava quella maniera per l’appunto, con cui il sommo Tedesco rinnovò tutta la critica.
Non meno grande fu in lui quel sentimento della natura, così raro anche nei nostri scrittori sommi, specie nei meridionali: egli seppe ammirare il mondo esterno in tutti i suoi vari aspetti, nell’ameno e nell’orrido, su’ monti e su’ mari. «Eccomi (egli scrive) su questa landa della Puglia, in cui l’orizzonte pare che si allarghi; landa deserta, monotona, malinconica. I paesaggi pittoreschi qui sono rari, ma bellissimi. Varietà di campagne; verdura di boschi, di ulivi o di viti; tutto questo cessa all’uscire della nostra provincia. Fino a Canosa, e forse fino a Barletta, il viaggio è triste, noioso; da Barletta a Bari è un incanto, è una beatitudine di occhi e di spirito. Vie magnifiche, dirittissime, biancheggianti sopra una pianura incantevole; viti ed ulivi e mandorli da una parte, dall’altra il mare col suo azzurro, colla sua immensità. L’aspetto del mare è sublime; io sono nato sui monti, e lassù i miei occhi hanno acquistato il gusto degli spettacoli vasti, infiniti; se mi stacco dalle montagne, io anelo al mare. I monti e il mare son doppia immagine del sublime, dello sterminato, del sovrumano. Quando il mare apparisce come striscia azzurra all’estremo orizzonte, la fantasia finge gli spazii e le acque e le tempeste e le voragini; così si confonde e s’ingrandisce. Quando il mare apparisce come golfo o come rada sotto i tuoi occhi, lo spettacolo allora di sublime diventa bello; le barchette, le reti, i pescatori sono una poesia che potrebbe dirsi pastorale; sono un idillio. Il tramonto del sole contemplato da un golfo, mentre gli aranci diffondono intorno un nembo di fragranze, è un’estasi, una malinconia, una meditazione, che può dirsi amore, pace, preghiera, visione».6
Della natura ha quel sentimento squisito che si congiunge così bene con gli altri affetti del nostro cuore, e specialmente coi moti che vi suscita la grande poesia. Sulla cima dei suoi monti egli sente quanto sia vera e bella quella descrizione manzoniana:
da un poggio aereo....
Vedea nel pian discorrere
La caccia affaccendata.
Contemplando poi il Vulture, «montagna azzurra, disegnata sopra una vasta pianura, terminata dal mare», intende tutta la verità di questi altri versi dei Manzoni:
Dalle squarciate nuvole
Si svolge il sol cadente,
E dietro il monte imporpora
Il trepido occidente;
Al pio colono augurio
Di più sereno dì.7
Inebriato alla vista delle campagne native, giunge fin anche a immaginare i paesaggi che ne farebbe, se fosse pittore. E qui torna di nuovo quel bel Vulture, «montagna maestosa, pavonazza, serenissima, a varii picchi», e le catene di colline che se ne diramano.8 Ben veggo che questo gentil figlio di Venosa, così poetico in tutto, avrebbe potuto applicare a sè medesimo quei versi del suo famoso concittadino, che quivi bevendo le aure vitali, fu primamente sorriso dalle vergini muse:
Me fabulosae Vulture in appulo.
Altricis extra limen Apuliae,
Ludo fatigatumque somno,
Fronde nova puerum palumbes
Texere.9
E chi sa che non si rammentasse di qualche sua ascensione sul Vulture, descrivendo quella fatta da Angelo, personaggio nel quale evidentemente ritrasse se medesimo! Sentite che bellezza: «Un giorno che ei s’inerpicava sopra uno dei più alti gioghi degli Appennini, ei sentiva che più ascendeva in alto, più si sgombravano i pensieri della miseria e della realtà. Il vento che gli fischiava negli orecchi, stordendolo, parea che lo incuorasse a salire; gli occhi stanchi si riposavano con piacere sul verde soave delle messi nascenti; le membra infralite e rotte dalla veglia e dall’inedia si ristoravano nell’aere leggiero e freschissimo, e nel profumo temperato delle erbe e dei fiori selvatici. Mai non era salito tant’alto; giunto sul vertice del monte, si volse intorno, e guardò; un cielo immenso gli luceva sul capo, un immenso paese gli rideva dinanzi. A quello spettacolo ei si sentì come innanzi ad una persona venerata, come innanzi ad un essere temuto. Per la prima volta ei si spaurì innanzi alla natura; per la prima volta la vide sterminata, la sentì arcana. Nelle sue corse fanciullesche egli avea scherzato col vento della vallata, con gli uccelletti del piano; avea superato tutto, e si era creduto superiore a tutto: ora il vento gli urlava intorno, quasi sdegnato gli gridasse: — Questo è il regno dei venti; verme, torna alle farfalle della tua siepe. — La luce lo cingeva e lo abbagliava; i raggi gli bruciavano la pupilla, e parea che gli gridassero: — Questo è il regno del sole; ragazzo, torna alle lucciole della tua vallata».10 Certo in queste parole ci è come l’eco di Werther, di Jacopo Ortis e di Aroldo; ma è un eco che divenne voce propria in un’anima, la quale sentiva il grande e il sublime non meno potentemente che quelle anime sorelle, di cui ripeteva qualche accento. Giovani nativi di quelle contrade, la prima volta che ci tornerete, vogliate salire sul Vulture, e la memoria del vostro La Vista accrescerà in voi gli effetti stupendi che produce di per sè il salire in alto. Quel nostro glorioso Petrarca, che primo al mondo cercò sulle vette dei monti il sublime della natura, ne scendeva poi quasi sgomentato dal sentimento del sovrannaturale, che opprimeva in lui il nascente uomo nuovo. Ma il giovane lucano, travagliato dalla malattia della coscienza moderna, ne scendeva dicendo: «Eterna natura, natura arcana, io ho tremato un istante innanzi a te, ma io mi sento nato a strapparti il tuo segreto.... Noi lotteremo, e la nostra lotta finirà quando o io avrò compreso te, o tu avrai annullato me».11
Qui avvertiamo tutto l’orgoglio e l’ambizione infinita dello spirito moderno, e nel tempo stesso il presentimento di affanni non meno infiniti, e che non sarebbero cessati se non per morte. Montando, egli era Werther; scendendo, è Fausto. Ah! egli non aveva una patria; e a quel male non c’è altro rimedio che l’avere una patria, in cui ognuno possa spendere se stesso in servigio di lei. A noi, poscia che dalle vette dell’Appennino che parte Italia abbiamo cercato con lo sguardo le marine che la circondano, e ci siamo pasciuti un pezzo dei grandi spettacoli della natura e delle grandi ricordanze della storia, a noi, più felici, è dato scenderne dominati da pensieri alti insieme e sereni, e specie da quello di potere, omai liberi, onorar con atti egregi di mano o d’ingegno quella comune patria che un tempo battè l’ali per mare e per terra!
L’amore della donna ha poca parte in questo volume di Memorie e scritti; anzi non pare che fosse ancora uno dei pensieri dominanti del nostro giovane. Egli accenna talvolta a qualche affetto fuggitivo;12 ma ad un amor vero e saldo, non mai. Che incendio un siffatto amore sarebbe divenuto in quell’anima! In ciò, come in altre cose, egli cercava sempre, ma non aveva ancor trovato; e anche qui è singolare il suo modo di sentire e d’immaginare: «Una donna nobile, ricca, contenta mi fa quasi ribrezzo e rabbia; al contrario, ad una donna, a cui neppure la bellezza diminuisce le pene dell’oscurità e della miseria, volentieri darei la mano, il cuore, la vita, le speranze della mia età»13. Qui l’amore è pura idea: nella donna non si cerca altro che un cuore immacolato, un’anima capace d’intenderne un’altra e divenir con essa un’anima sola. A udire siffatte cose non pochi veristi dei nostri giorni sorrideranno di compassione! Questo è certo; ma non è parimenti certo che in un Quindici maggio essi sarebbero al posto di Luigi La Vista!
Non solo per questo, dunque, ma altresì per tutti gli altri affetti che gli facean piena nel cuore, egli non aveva ancor trovato la cosa in cui quietarsi; nemmeno negli studi, che par fossero stati il suo supremo amore. Avrebbe voluto legger tutto, intender tutto, far sue tutte le verità della scienza, tutte le bellezze dell’arte; e, a volte, sentiva lo sgomento del voler troppo. La pace negli studi non si consegue prima che si sia cominciato a saper lavorare. Il lavoro è per lo studioso come la diritta via per il pellegrino: il quale forse la troverà anche più faticosa delle altre, non riuscirà forse a percorrerne che poca parte, e vi cadrà senza più rialzarsi; ma, cadendo, avrà pur sempre innanzi agli occhi, stanchi o moribondi, quella Gerusalemme che era meta al suo cammino. Ben lontano ancora dall’aver trovato la forma definitiva del suo lavoro, Luigi La Vista aveva nondimeno cominciato ad intendere mirabilmente l’intimo delle cose, specie nel campo delle lettere; e non sono in lui rare le intuizioni che onorerebbero anche un ingegno grande, e già maturo. Eccone alcuni esempi.
Egli sapeva già interpretar lo scrittore nell’uomo: criterio estetico sovrano e più che mai fecondo di egregi effetti, quando chi l’adoperi abbia un cuore, la cui nobiltà gli faccia più agevole l’intendere tutto ciò ch’è nobile e gentile negli altri.
Di quella cara anima di Vittoria Colonna hanno scritto molti; ma forse nessuno come il La Vista ne comprese appieno i pregi e i difetti, e dimostrò come questi ultimi non le tolgano quella maggiore originalità che la diparte dagli altri cinquecentisti. «In Vittoria Colonna», egli scrive, «grande mi parve la somiglianza tra la donna e la poetessa; e questa somiglianza è il pregio della sua poesia, la quale di astratta e letteraria si rende reale e vera... Dall’indole casalinga e dall’animo verginale di Vittoria Colonna naturalmente sorgeva una vena di poesia schietta, fresca, limpidissima... Niun critico sarà più severo di me, se dalla donna giudicherà la poetessa, e se l’una e l’altra collocherà fra il Bembo e l’imitazione da una parte, l’Aretino e la corruttela dall’altra»14.
La storia letteraria, che ai dì nostri è scritta con più giusti criteri estetici che prima non si facesse, potrebbe, pare a me, accettare come verissime queste sentenze, profferite, circa quarant’anni fa, da un critico poco più che trilustre.
Allo stesso modo egli intese quella ricca e singolare natura di Salvator Rosa, uomo di «due anime»15, e quello spirito profondamente classico di Andrea Chénier.16
Certo oggi non c’insegnerebbe più nulla, ma è bella per quel tempo quest’altra sentenza: «Delle opere latine del Petrarca si è detto troppo inconsideratamente, che non abbiano nulla di storico, nulla di vivo, che sieno un importuno ritorno al passato... Nelle sue opere latine è gran parte della vita interiore del Petrarca»17. Anzi, un’altra ragione di lode io la vedo in ciò, che io stesso De Sanctis sostenne una sentenza opposta; e gli studi più recenti hanno dato ragione al discepolo, e torto al grande Maestro. Vero è che questi, delle opere latine petrarchesche ebbe sempre scarsa notizia; da ciò il suo errore, un errore di fatto; perchè, quanto al doversi in ogni autore studiare innanzi tutto la vita interna, chi, se non il De Sanctis, lo aveva insegnato, teoricamente e ancor più coll’esempio, al La Vista e a noi tutti?
Ardente, com’egli era, nell’ammirazione verso i grandi, conserva tuttavia la più intera indipendenza di giudizio anche avanti ad essi; e basti a prova il luogo seguente: «Il Manzoni ha tentato di confutare una parte dell’ultimo capitolo del Sismondi, tentativo inutile. Ha sparso e snervato in piccole e slegate osservazioncelle una serie stretta e compatta di osservazioni vere e profonde; e, ciò che è peggio, sparpagliando quel che era unito, ha tolto via quel vero e quel convincente, che veniva dall’unità e dall’opportunità. Render polemico ciò che era storico è cattivo metodo, dove non è cattiva fede. Una considerazione che ti si presenta chiara e parlante, incastonata in un fatto, ti apparirà tosto squallida e sfumata, quando le sarà stato tolto il puntello di quel fatto»18
Or il Manzoni, di cui così giudicava una delle opere minori, era per lui uno di quei grandi autori, dei quali pensava che non si potesse «parlare altrimenti che inginocchiato e col capo scoperto»19. Eppure, meglio forse che altri, almeno fino al suo tempo, egli ha notato il vero difetto delle Osservazioni sulla morale cattolica, e di cui non va esente del tutto neanche il Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia: difetto che consiste appunto nella soverchia sottigliezza degli argomenti, opposti ad altri argomenti derivati dalle più ampie testimonianze della storia, e in quella cotal sottintesa sicurezza dell’autore, di poter abbattere tutta la forza che viene dal complesso di queste, pur col confutarne più o meno felicemente alcune alla spicciolata.
Nè mai ho sentito così còlto l’intimo sentimento del poeta de’ Sepolcri, come in queste sole parole: «Il carme di Foscolo ti sembra ispirato in Santa Croce»20. Dopo il Foscolo stesso, che fu primo a dirlo, tutti ripetono che, a differenza di altri poeti ispirati dalla filosofia e dalla religione, egli considerò i sepolcri politicamente. Ma quel sentimento, espresso da altri in maniera per lo più vaga e incerta, il La Vista lo rende così com’era stato improntato dalla potente personalità del poeta; ed apre una nuova via alla nostra immaginazione, facendole balenare il Foscolo che mediti il suo carme tra quelle tombe, il cui ricordo gli dettò il luogo più famoso del suo lavoro: «Io, quando il monumento Vidi ove posa il corpo di quel Grande, Che temprando lo scettro a’regnatori, Gli allòr ne sfronda...» ecc.
Quanto sia stata felice questa intuizione vedasi anche da ciò, che il Foscolo stesso, in persona di Jacopo Ortis, aveva detto: «Presso a que’ marmi [le sepolture di Santa Croce] mi parea di rivivere in quegli anni miei fervidi, quand’io, vegliando su gli scritti de’ grandi mortali, mi gittava con l’immaginazione fra i plausi delle generazioni future»21. Or il nostro giovane autore compì con quel suo cenno il pensiero e il presentimento di Jacopo. Questo sì ch’è penetrare nell’intimo degli scrittori!
Ma, insomma, egli intendeva tutte le cose più egregie, perchè le pensava e le faceva egli stesso. Il carme del Foscolo ha sempre avuto una singolare eloquenza per le grandi anime: Garibaldi lo sapeva tutto a mente. E il nostro giovane, tra quei Sepolcri foscoliani, tra quei superstiti che seguono a vivere con gli amici estinti, tra quelle fanciulle che pregano per la perduta madre e per i difensori del proprio paese, tra quegli eroi del pensiero e dell’opera, tra quei morti che non muoiono mai, accanto a quell’Ettore che avrà onore di pianti fin che sarà sacro il nome di patria, il nostro giovane, dico, si sentì più che mai in casa sua: intese più che mai di essere predestinato.
Predestinato alla più bella delle glorie. Combattuto, come vedemmo, da quella terribile malattia della coscienza moderna, che aveva fatto tante nobili vittime, egli più volte fu sul punto di porre fine ai suoi giorni, e meditò anche qual fosse la più poetica maniera di recare ad atto il feroce proposito. Ma, più generoso di Werther e di Jacopo Ortis, che vollero uccidersi avendo ancora una madre, egli si ricordò sempre a tempo di avere un padre e una patria, e che dunque doveva ancor vivere. È vero che per l’Ortis una delle cagioni del suo volontario morire fu la caduta della patria; tuttavia, quand’anche questa ne fosse stata cagione sola ed unica, rimarrebbe sempre incomparabilmente più grande l’atto di chi, dominando il proprio dolore, aspetta il tempo di morire combattendo per quella.
Il nostro Luigi, che pareva nato per non essere altro che uno dei martiri del pensiero e delle passioni, descritti dalla migliore poesia moderna, finì con appartenere anche a quell’altra specie di martiri, cui dobbiamo il risorgimento della patria. La tragedia intima, che in lui, come in altri gentili spiriti moderni, procedeva dalla disuguaglianza fra il volere e il potere, era già prossima alla sua catastrofe, quando egli ebbe sentito che c’era una tragedia più sublime nella lotta sopravvenuta tra oppressi ed oppressori; e interruppe quella, e si gittò e trovò la sua catastrofe in questa. Per tal guisa, egli appartiene a due martirologi; e non saprei indicare un altro carattere giovanile che, con questa doppia aureola, splenda così puro, così grande, così divino. «La morte dei giovani», diceva egli stesso22, «è la migliore delle poesie». E la morte tua, diremo noi, o generoso, è la migliore di tutte le poesie e di tutte le storie!
Note
- ↑ Memorie e scritti di Luigi La Vista raccolti e pubblicati da Pasquale Villari, Firenze, Felice Le Monnier, 1883.
- ↑ Memorie cit., p. 106.
- ↑ Memorie cit., p. 301.
- ↑ Memorie, p. 9.
- ↑ Memorie cit., p. xlv.
- ↑ Memorie cit., p. 169.
- ↑ Memorie cit., p. 176.
- ↑ Memorie cit., p. 177.
- ↑ Orazio, Odi, III, 4.
- ↑ Memorie cit., pp. 283-4.
- ↑ Memorie cit., p. 285.
- ↑ Memorie cit., p. 65.
- ↑ Memorie cit., p. 66.
- ↑ Memorie cit., pp. 356-8.
- ↑ Memorie cit., p. 280.
- ↑ Memorie cit., p. 205.
- ↑ Memorie cit., p. 328.
- ↑ Memorie cit., p. 112.
- ↑ Memorie cit., p. 66.
- ↑ Memorie cit., p. 370.
- ↑ Lett. del 27 agosto 1798.
- ↑ Memorie cit., p. 207.