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di pari sublimità. «A noi (egli scrive) non cale dell’insulto, o dello scherno: chi può vilipendere o schernire un giovane, che nel fiore degli anni e delle speranze immola ai suoi simili gli affetti del cuore e le illusioni della mente, colui non è nato alla civiltà, colui dee arrossire innanzi ai selvaggi. Ma i giovani intendono i giovani; le sventure sovrumane della giovanezza stringono i vincoli formati dall’età e dall’amicizia. Se un giovane cade, gli amici lo piangono; quel pianto è un panegirico, non bassezza, non adulazione; la virtù dei superstiti piange la virtù dell’estinto. La tomba d’un giovane è un altare.»1 L’ammirabil giovine che qui si rammentava degli eroi delle Termopili, di Simonide e del suo Leopardi, non prevedeva ch’egli sarebbe stato privo di tomba, e noi di altare:


  A lui non ombre pose
Tra le sue mura la città,...
Non pietra, non parola; e forse l’ossa
Col mozzo capo gl’insanguina il ladro
Che lasciò sul patibolo i delitti.


Ma quell’altare, o generoso, è oramai nel cuore degli Italiani, dove starà anche dopo che il tempo avrà spazzato fin le rovine dei sepolcri che sfidavano i secoli.

Gli affetti più gentili e che più onorano ed affinano la nostra natura, in lui giungevan tutti ad un’altezza, a cui non sempre sogliono giungere anche negli spi-

  1. Memorie cit., p. 106.