Caccia e Rime (Boccaccio)/Avvertenza
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AVVERTENZA
Con le feste secentenarie boccaccesche celebrate nel settembre 1913 possiamo dir che si chiuda un fecondo decennio di studi con rinnovato fervore dedicati al grande artefice della nostra prosa narrativa: e che si chiuda in maniera assai degna, quando alla solenne ricorrenza si lega la pubblicazione (oltre che di molti ed utili scritti speciali di valenti eruditi) di quell’elegante ma rigorosamente esatta sintesi delle attuali cognizioni biografiche e letterarie sul Certaldese, ch’è il Boccace di H. Hauvette1, e di quella solida ricostruzione scientifica della lezione di un’operetta poetica, ch’è la stampa del Ninfale Fiesolano procurata da B. Wiese2. Punto d’arrivo, il primo libro, dei risultamenti della critica boccaccesca insino ad oggi; ma punto di partenza dei nuovi studi, che immancabilmente seguiranno, non può essere se non la scrupolosa restituzione o confermazione del testo di tutti gli scritti del nostro autore: e chi scrive si compiace di aver contribuito, per la sua parte, al gravoso lavoro fondamentale, poiché, proprio ad un tempo con questo volume minore, esce in luce per sua cura l’edizione critica delle Rime di Giovanni Boccacci3, destinata a segnare la giubilazione dell’ormai più che centenaria stampa baldelliana (1802).
E, tuttavia, non si esclude che anche testi provvisori, diligentemente allestiti e riveduti, in attesa di quelli definitivi, possano recare ottimi servigi agli studi. Io, per esempio, già da parecchi anni vagheggio l’idea di una ristampa delle opere minori volgari del Boccacci, la quale, senza pretender di diffondere una lezione criticamente fermata di quelle (di così privilegiata sorte non fruiscono, per ora, che il Ninfale e le liriche: troppo poco rispetto al numero e alla mole di ciò che resta!), possa tuttavia, per sagacia e scrupolo di cure spesevi attorno col sussidio di buoni testi a penna, rappresentare uno stadio, praticamente apprezzabile, di transizione tra la raccolta del Moutier4 — a cui debbono ancora per forza attenersi gli studiosi5 — e la ventura definitiva edizione. Potrà effettuarsi questo disegno? Le difficoltà saran grandi, e non me le nascondo; ma, certo, un principio di effettuazione vuol essere il presente volume.
Esso contiene due forme della produzione letteraria del Certaldese, la Caccia di Diana e le Rime, che bene convengono insieme dentro la stessa copertina: le Rime, infatti, riferibili agli anni compresi entro i termini 1336-1374, costituiscono un natural vestibolo alla serie delle opere dettate dopo l’incontro con la Fiammetta (30 marzo 1336) e per amore di lei; mentre la Caccia è anteriore, come vedremo tosto, a quest’avvenimento ed è, per conseguenza, la prima in ordine di tempo delle composizioni boccaccesche pervenute sino a noi. Il testo del poemetto, che ancora oggi valenti critici bandiscono dal canone di queste dannandolo d’apocrifia6 è appunto di quelli che più sopra ò chiamato provvisori: esso, per altro, giovatosi assai d’un buon manoscritto dell’anno 14307, dovrebbe segnare un sensibile miglioramento sopra le uniche due stampe precedenti8, specialmente per quanto riguarda i nomi e i cognomi delle cinquantotto gentildonne napoletane che vi sono menzionate. Invece, la mia edizione critica delle Rime costituisce, naturalmente, il fondamento della seconda parte del volumetto, che la riproduce con fedeltà per tutto ciò che riguarda la lezione e l’ordinamento delle singole poesie.
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La Caccia di Diana è osservabile, non ostanti la poca peregrinità della concezione e la sproporzione tra la tenuità del soggetto e l’ampiezza dello svolgimento, per la scorrevolezza dello stile, che richiama quello dell’Amorosa Visione: ragione la quale, unita alla somiglianza della forma metrica ed all’analogo scopo dell’enumerazione di belle dame negli ultimi canti del più tardivo poema, spiega perché i manoscritti congiungano di preferenza queste due opere. Oltre all’accennato valore storico e genealogico della Caccia per i nomi delle signore più in vista della nobiltà napoletana durante il regno di Roberto d’Angiò9, assai notevole è in essa l’imitazione, spesso palese, delle forme dantesche; e le rime (per ripetere le parole degli ultimi editori), ‘intessute, e allungate anche troppo, sopra un tenue e monotono argomento madrigalesco, non son tutte prive d’eleganza’10.
Che il poemetto sia, secondo ogni verisimiglianza, anteriore al cominciamento dell’amore per la Fiammetta, si ricava dal non trovarsi la donna del poeta indicata col celebre pseudonimo, con cui sempre Giovanni chiamò la presunta bastarda del re Roberto11; e però quell’indeterminata e impenetrabile designazione della bella donna12 sarà da riferire ad alcuna delle gioconde creature, i cui amori, attestatici da note pagine autobiografiche, precedettero la più focosa passione. Apparterrà dunque la Caccia di Diana a quel periodo di galante vagheggiamento delle belle napoletane, del quale ci documenta a sufficienza l’Ameto ove narra di Caleone (lo scrittore), che, ‘come gli altri giovani le chiare bellezze delle donne di questa terra andavano riguardando,’ così egli per sua parte faceva; segue quindi il racconto delle relazioni con due graziose ‘ninfe’ chiamate Pampinea ed Abrotonia, ed infine, ricordata una visione-presagio riferibile al novembre-dicembre 133413, è detto che Caleone si pose ad andare ‘con ferma speranza più volte cercando in ogni luogo ove belle donne si ragunassero,’ ma che passarono sedici mesi ‘avanti che la servata immagine in lui (quella di Fiammetta) avesse a cui somigliarsi tra molte in quello mezzo da lui vedute.’ Da queste ragunate di belle donne, evidentemente, sortì la sua prima origine la nostra operetta, alla quale vorrei assegnare perciò la data 1334 o 133514; e così essa verrebbe a costituire uno degli esempi più antichi del genere poetico a cui appartiene, ossia dei componimenti ove si nominano per ragion di lode più donne insieme. Senza occuparci qui della letteratura provenzale, nella nostra sino al Boccacci tal genere è rappresentato, oltre che dal perduto serventese dantesco ond’è ricordo nella Vita Nuova, da un capitolo semipopolare di Antonio Pucci, ch’è appunto dell’anno 1335, e da un altro capitolo boccaccesco del 1342, che figura qui avanti15.
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Nelle Rime, invece, abbiamo il più immediato e sincero documento di quell’affetto che avvinse indissolubilmente il cuore dell’ardente poeta alla splendida inspiratrice delle sue migliori opere giovanili.
Quando il Boccacci la vide per la prima volta (mi sia lecito ripeter qui ciò che ò scritto altrove16), la Fiammetta, ossia, secondo una recente identificazione, madonna Giovanna Sanseverino contessa di Mileto, che a padre putativo riconosceva Tommaso d’Aquino conte di Belcastro e a natural genitore il re Roberto, avea forse già fatto più d’una deroga alla fede coniugale. La vita lussuosa spensierata e brillante che a Napoli si conduceva in quei giorni dall’aristocrazia dietro l’esempio dei principi del sangue, le giostre e i banchetti, le gite in barca sul golfo, la promiscuità facile delle dimore estive a Baia e al capo Miseno, offrivano alle belle dame tentazioni continue, che quelle non avevano, non tutte almeno, la virtù di rintuzzare. La stessa Fiammetta è dal Boccacci rappresentata in atto di vantarsi delle passioni destate, dei tesori fatti sperperare in suo onore, delle invidie e rivalità seminate fra i suoi corteggiatori; per bocca del più famoso di questi, ella stessa, accingendosi a raccontare la storia del suo legame con Caleone, dichiara di trasceglier quello espressamente, tra ‘molti amori ferventi’ che le si riaffacciano alla memoria.
Le fasi della passione che la bionda contessa infiammò nel cuore del Boccacci, studente ormai di diritto canonico e ammesso liberamente alla corte e nei ritrovi della nobiltà, si possono con sicura chiarezza seguir nelle opere composte in questo periodo, e segnatamente nelle Rime. Assai lungo e doloroso fu il corteggiamento; per quanto la distanza sociale tra il borghese, figlio del banchiere toscano ben accetto al re, e la nobile dama, imparentata con le più alte famiglie del Regno e discendente per parte di ambedue i genitori da due fratelli di san Tommaso d’Aquino, fosse molto minore di quello che da alcuno si potrebbe credere, è certo tuttavia che la superba Fiammetta per anni interi mostrò di non accorgersi del meno cospicuo tra’ suoi ammiratori, se non per incitarlo a scrivere di sé e per sé. Alla fine la costanza dell’innamorato trionfò; ed appunto durante una stagione balnearia (forse quella del 1339) egli poté credersi al termine delle sue fatiche, delle quali gli fece cogliere il frutto una sorpresa notturna raccontata non senza abbellimenti fantastici in un episodio dell’Ameto.
Tutti gli stati d’animo del lungo corteggiamento segnano la lor traccia passionale nelle Rime. Esaminate, vagliate, discusse opinioni molteplici di studiosi anche autorevoli, io ritengo si possa escludere che alcuna delle liriche superstiti vada riferita ai primi ed oscuri amori precedenti l’incontro nel 1336, a quei primi amori napoletani a’ quali è da credere invece pertenga la Caccia di Diana: è legittimo perciò ritenere inspirate dalla Fiammetta, fuor delle poche di cui dovrò dire tra breve, tutte quante le rime d’amore, che sono settantacinque (II-LXXVI). Celebrazioni ammirative dei capelli degli occhi del canto soave, pittura degli effetti d’amore, rapimenti d’estasi, alternative di fiducia e di sconforto, dubbi di dì in dì più pungenti, accorate deprecazioni, angosce, imprecazioni contro Amore, illusioni e disinganni, riaprirsi di speranze, spiragli di azzurro tra le nubi, malcerte attese, gioie dei primi successi, rapido incalzante crescendo di baldanza quanto più s’avvicina l’ora del meritato ristoro, e poi subito trepide gelosie, il doloroso distacco pel richiamo a Firenze, le disperate rievocazioni, infine l’amara delusione del ritorno a Napoli lungamente agognato e che invece ritrova l’oblio e il tradimento: ecco, su tutti i toni e in tutti i tempi, allegretto, flebile, tremolo, acuto, singhiozzato, maestoso, basso, in sordina, ecco una magnifica sinfonia amatoria che dall’innamorato cuor del poeta seppe esprimere la Fiammetta.
La successiva morte di questa, che, dati quattro figli al marito, dispensate intorno a sé gioie e piaceri, illusioni e rovine, si estingueva poco più che trentenne il 6 aprile 1345, non è invece ricordata nelle Rime. Lontano dalla capricciosa contessa di Mileto, ormai rassegnato all’abbandono dopo l’ultimo incontro così poco felice, il Boccacci avea certo sentito nascere in sé quello stato d’animo che maestrevolmente dipinge nel proemio del suo capolavoro: ‘Il mio amore, oltre ad ogni altro fervente, e il quale niuna forza di proponimento o di consiglio o di vergogna evidente, o pericolo che seguir ne potesse, aveva potuto né rompere né piegare, per sé medesimo in processo di tempo si diminuì in guisa, che sol di sé nella mente m’à al presente lasciato quel piacere, ch’egli è usato di porgere a chi troppo non si mette ne’ suoi più cupi pelaghi navigando: per che, dove faticoso esser solea, ogni affanno togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso.’
Se non che la morte della donna restituì, per un meccanismo psicologico abbastanza spiegabile, la vita al ricordo di lei: e, privilegiata anche nel sepolcro, la Fiammetta ebbe l’onore di sopravvivere nell’ingegno e nel cuore del suo antico amante, il quale di lei diede il nome alla più gioconda e spensierata delle sette gentili novellatrici del Decameron e in una decina di sonetti ad imitazion del Petrarca (XCVII-CVI) la spiritualizzò sino a rivestirla dell’aureola di un altissimo ufficio morale.
Quest’ultimo stadio del processo evolutivo che subì l’amore per Fiammetta è dell’età più avanzata, e però coevo alle altre rime di carattere morale ond’è, se non dovizia, non iscarsa rappresentanza nella raccolta: sia che il poeta invochi la giustizia ‘al mondo freno’, come in una delle sue poesie intonate da musici ai servigi del canto (XCII), sia che lamenti la presente corruzione de’ tempi in vano rimpianto del passato (XCIII-XCVI); sia che, dal sermoneggiare trapassando alla preghiera, sveli nella pratica delle virtù morali e religiose, nell’ardente amor divino, nel culto ingenuo della Vergine il trasmutato ideale degli anni cadenti (CIX-CXIX). Ma prima della serie senile, nella succession delle rime per ordine largamente cronologico, trovan posto due gruppi che si rifanno alla piena maturità degli anni, dai trenta circa ai quaranta, e documentano altri aspetti della vita boccaccesca: i viaggi, le dotte amicizie, lo spiacevole gabbo della vedova mal corteggiata. Al viaggio in Romagna nel 1347 e 1348 si riferisce un difficile sonetto responsivo (LXXIX) ad uno di quel Cecco figlio di Meletto de’ Rossi, forlivese e segretario, per allora, del bollente Francesco degli Ordelaffi: questi, con cui il Boccacci scambiava proprio nello stesso tempo alcuni noti carmi bucolici in latino, avea diretto una poetica circolare a vari rimatori intorno la minacciosa avanzata della morìa dall’oriente verso occidente e gli straordinari segni celesti che inasprivano la paura. Risposero il Petrarca, maestro Antonio da Ferrara e il valoroso milite messer Lancillotto Anguissola, oltre che il nostro poeta; a lui, più vicino e concorde, replicò il Rossi in un ultimo sonetto. Altre tenzoni gli posero a fronte, su argomenti convenzionali ed astratti, un Riccio barbiere, non sappiam di dove (LXXVIII), e il sollazzevole popolan fiorentino Antonio Pucci (LXXXI). Sollazzevole non meno, a’ danni del poeta, fu l’impronta vedova ch’egli, rinsavito, così acerbamente ripagò nel Corbaccio.
Per lei si possono credere scritti alcuni sonetti (LXXX, LXXXII-LXXXIX) nei quali rispecchiansi le rapide vicende della breve relazione: timore dell’onestà attribuita alla donna, rabbiose disperate imprecazioni all’indirizzo d’Amore che non lascia tregua al canuto proco e lo fa divenir ‘favola del vulgo noioso’, lamenti della superba indifferenza di madonna, richiami sempre più violenti a se stesso per riprendersi dal giogo della perfida ingannatrice. L’epilogo di questa storia d’amore in versi è uno scritto in prosa; la pungente, incisiva, dilacerante prosa del Laberinto d’Amore.
Non senza un sapor recondito di simbolo è l’immediato riaccostamento, ai sonetti per la vedova, di due che rappresentano, negli inviti di acconce personificazioni femminili, l’anelar di Giovanni alla gloria poetica (XC-XCI). Alle tempeste sentimentali della gioventù e della virilità subentrano le lotte, non meno angosciose, di cui il tavolo da studio è l’unico e muto confidente. E con vera angoscia si sarà Giovanni indotto a quelle confessioni d’impotenza artistica che in altri due sonetti (CVII-CVIII) s’irrochiscono quasi di mal represso pianto e che consuonano con le spiegazioni da lui date ad amici intorno il disperato proposito al quale dobbiamo la perdita di tanta parte della sua opera poetica: il bruciamento delle poesie volgari, liriche per massima parte. Quanto è amara constatazione quella di sentirsi impari le forze all’ardua conquista dell’alloro!
Ma anche questo riposo non sempre gli fu rispettato dagli uomini. Parallelamente alle altre informazioni biografiche, le Rime ci mettono a parte di due amarezze che colpirono il cuore del poeta, sensibile per natura e più fatto dall’età senile. Una volta un religioso, macchiato, pare, di molte sozzure, osò provocare con accuse e punzecchiare il Boccacci, che gli avventò addosso due veementi sonetti (CXX-CXXI): nei quali son sì osservabili i riscontri con frasi e concetti della lunga invettiva contro il priore dei SS. Apostoli, il Nelli, che l’ipotesi da me avanzata circa la identità di colui, che il Petrarca ribattezzò Simonide, col ‘sacerdote iniquo’ dei versi non mi sembra invero troppo ardita.
Più tardi, fu la volta di un ignoto che, per quanto ricaviamo dai sonetti responsivi (CXXII-CXXIV), rimproverò poco urbanamente al Boccacci la divolgazione delle sublimi bellezze dantesche, nella pubblica lettura in S. Stefano palesate alla ‘feccia plebeia’: ma, o che la fibra fosse nel sessagenario scrittore già fiacca o che veramente lo rimordesse coscienza delle appostegli colpe, il Boccacci si tenne sulla difensiva e replicò molto calmo.
Un anno dopo, nel 1374, gli moriva il maestro ed amico, il Petrarca; e l’acerbissimo lutto trasse dall’anima del poeta un sonetto, che è il più patetico della raccolta, la quale si chiude, così, con un singulto (CXXVI).
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Per tutto ciò che riguarda la bibliografia delle Rime, le relazioni tra i mss. che le conservano in rapporto alla costituzione del testo, la loro lezione, le ragioni del loro ordinamento e le questioni ermeneutiche e biografiche che ad esse si collegano, è necessario che il lettore studioso ricorra alla lunga trattazione proemiale di cui è corredata l’editio maior. In essa è anche svolta la questione dei ventinove sonetti dell’Appendice (qui ripubblicati, perché nulla manchi al volume di quanto appartiene alla produzione lirica boccaccesca): ove si potesse tener conto solamente degli argomenti interni, ossia cavati dal contesto dei sonetti, nessun dubbio dovrebbe sorgere sulla legittimità dell’attribuzione al nostro poeta, ma disgraziatamente i testi a penna li riferiscono senza il nome dell’autore, e questo vieta di distribuirli tra le varie categorie delle liriche sicuramente autentiche. Reggendo il presupposto della loro genuinità, i primi ventiquattro andrebbero ad ingrossare il numero delle rime composte per il massimo amore; i tre successivi apparterrebbero alle vicende amorose dell’età matura: poi si avrebbe un altro sonetto in morte della Fiammetta, ed infine uno che, pieno di confessioni di stanchezza e di sconforto, preluderebbe alle devote celebrazioni della Vergine rimasteci in tre sonetti della serie certa.
Delle illustrazioni mie ai testi, dei quali ò brevemente discorso sin qui, non mi accade avvertir nulla: esse sono prevalentemente storiche, pur avendo io creduto di dover largheggiare anche in dichiarazioni esegetiche e lessicali, che, superflue agli studiosi, non parranno per avventura tali a non piccola parte di quella più larga categoria di persone cólte cui specialmente si rivolge questa ben auspicata, e da rivelarsi certamente provvida in non remoto avvenire, ‘Collezione di Classici italiani’.
Rimini, 31 maggio 1914.
Aldo Francesco Massèra.
Note
- ↑ Boccace. Étude Biographique et Littéraire, Paris, A. Colin, 1914.
- ↑ Das Ninfale Fiesolano Giovanni Boccaccios. Kritischer Text, Heidelberg, C. Winters Universitätsbuchhandlung, 1913.
- ↑ Bologna, Romagnoli-Dall’Acqua, 1914 (nella ‘Collezione di opere inedite o rare’)
- ↑ Opere volgari di Giovanni Boccaccio corrette su i testi a penna, Firenze, Stamperia Magheri, 1827-1834.
- ↑ E da cui si vanno attingendo, con meccanica fedeltà, le ristampe di opere singole (Corbaccio, Fiammetta, Amorosa Visione, ecc.) moltiplicatesi in questi ultimi anni.
- ↑ Dubita dell’autenticità il Volpi (Il Trecento2, p. 431, in nota a p. 232), e più fortemente l’Hauvette (Boccace, pp. 139, n. 4, e 481). Ma per l’opinione contraria sta una schiera di boccaccisti, dal Claricio, che sin dal secolo XVI prometteva di stampare con la Teseide e il Filostrato la ‘leggiadretta et sollazzevole’ Caccia di Diana (Apologia contro detrattori della poesia di messer Gio. Boccaccio, in calce all’Amorosa Visione, Milano, 1521, c. dr), al Landau (Gio. Boccaccio, sein Leben u. seine Werke, p. 36), al Casetti (nella Nuova Antologia, XXVIII, p. 558), al De Blasiis (Racconti di storia napoletana, p. 214, n. 3) e al Torraca (Per la biografia di Gio. Bocc., p. 66). Propensi all’attribuzione scorgo anche il Koerting (Boccaccio’s Leben u. Werke, p. 460), il Gaspary (Storia della lett. ital., II, l2, p. 336) e il Crescini (Contributo agli studi sul Bocc., p. 69, n. 2). Lo Hutton non parla della Caccia, se non erro, in tutto il suo recente volume (Gio. Boccaccio, a biographical Study).
- ↑ Fu da me studiato nell’agosto 1907 presso una nobile famiglia riminese, ma oggi non so dove si trovi. Proviene dalla libreria di casa Minutoli Tegrimi, di Lucca; è membranaceo, in parte palinsesto, e consta di fogli ridottisi a 88 di molti più ch’erano in origine. Vi si contiene la Amorosa Visione preceduta dai tre sonetti acrostici e seguita dalla Caccia: gli ultimi dieci versi del maggior poema e i primi diciotto del poemetto mancano per la caduta di un foglio intermedio. Nel recto dell’estrema carta del ms. si legge: ‘Qui finisce la Caccia di Diana e sue conpagne,’ e subito sotto: ‘Deo gratias amen: 1430. Ego karolusmaria de battifolle scripsy hunc librum, mea manu propia, in etate puerily.’
- ↑ La prima è intitolata: La caccia | di Diana | poemetto | di | Giovanni Boccaccio | ora per la prima volta pubblicato per | cura di I. Moutier (Firenze, nella Stamp. Magheri, 1832); la seconda è una pubblicazione nuziale (sulla copertina: Nozze | Casini-Polsinelli, e nel frontespizio: La | Caccia di Diana) curata da S. Morpurgo e da A. e O. Zenatti, e stampata a Firenze, Tip. Carnesecchi, 1884.
- ↑ Non esattamente il Casetti disse che nel poemetto son nominate le più belle donne della corte di Giovanna I, la quale salì al trono nel 1343; anzi l’‘imagine giovanile’ della stessa regina vi vide raffigurata, né so spiegarmi come, il De Blasiis! Cfr. i luoghi citati nella nota 1 alla p. precedente. A quanto scrivo più oltre della famiglia Scrignara (p. 5, n. 2) aggiungo qui che ad essa è detto appartenere un personaggio del Decameron (VII, 2), Giannello Scrignario: andrà però corretto il suo cognome, che nella volgata si legge ancora Strignario.
- ↑ Cfr. la stampa Morpurgo-Zenatti, p. 4.
- ↑ Si veda qui oltre, p. 8, n. 1.
- ↑ Cfr. i luoghi seguenti della Caccia: I 46-55; II 32; IV 1, 11-12, 31, 56; V 52; XVI 46; XVII 4; XVIII 10-58.
- ↑ Cfr. qui, p. 83, n. 2.
- ↑ Certo, la Caccia è anteriore all’Amorosa Visione (1342), come si può arguire dal fatto che in questa appar maritata una donna che in quella è invece chiamata ancora col cognome paterno: cfr. p. 27, n. 3.
- ↑ LXIX, p. 101.
- ↑ Da questo punto sino alla fine del paragrafo, riproduco parte del mio discorso Giovanni Boccacci nella sua lirica, stampato nell’ultimo fascicolo (XXII, pp. 58-63) della Miscellanea storica della Valdelsa.