Breve storia dei rumeni/Capitolo quarto

Capitolo quarto

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CAPITOLO QUARTO.

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Stefano-il-Grande: suo regno e sue relazioni
colle potenze italiane.


i. Dopo la conquista di Chilia, che gli dava incontestata la dominazione sulle parti inferiori del Danubio, Stefano dovette resistere all’invasione del rè d’Ungheria, Rumeno lui stesso per la parte del padre, Mattia, che si chiamava Corvino per via del corvo, stemma valacco che la famiglia portava sulle sue armi, ed il quale voleva esser considerato dai rappresentanti del rinascimento italiano che scrivevano o lavoravano per lui (un Bonfinio, un Galeotto Marzio, un Filippino Lippi) come discendente autentico dei Corvini di Roma. Il potente rè vicino credette aver scoperto relazioni tra Stefano ed i Sassoni transilvani che si erano ribellati contro’l suo sistema fiscale, e, nelle ultime settimane dell’anno 1467, un esercito ungherese, condotto da Mattia stesso, varcava i monti. Città e villaggi furono rovinati fino a Baia, e Suceava stessa doveva esser aggredita. Un’attacco notturno del Moldavo decimò i nemici, ed il rè, ferito lui stesso, dovette prender in fretta la via verso i Carpati per non mai più [p. 46 modifica] tentar di sottometter questo suo «feudo» moldavo. Dopo qualche anni, per continuar ad essere il difensore del regno contro i Turchi, Stefano ottenne anche da

Chiesa di Baia (fondazione di Stefano-il-Orande).


Mattia due castelli transilvani: Csicsö (rum. Ciceu) e Küküllö" (Cetatea-de-Baltă, Città-della-Palude) e un’intero territorio presso al primo: un vescovo rumeno [p. 47 modifica] fu stabilito in Vad. Belle chiese che riuniscono i caratteri dell’arte gotica, conservando le norme immutabili

Ornamento di smalto delle chiese moldave.


del culto bizantino, furono erette in Moldavia da maestri transilvani; ornamenti propri al nuovo stile [p. 48 modifica] moldavo: dischi di smalto con figure prese dalla mitologia popolare, ornano le severe linee di pietra, e mattoni nudi, di variegati colori, formano dissegni longitudinali. Una sola torre, sottilissima, sale dal mezzo del tetto coperto a quadrelli; le campane pendono dalla gran torre sotto la quale è praticato l’ingresso nel vasto cortile. Niente di quell’influenza del Rinascimento che padroneggiava alla splendida Corte del fastuoso rè Mattia si scorge in questa giovine arte, nudrita soltanto dalle tradizioni del medio evo.

2. Contro la Valacchia sottomessa presso che assolutamente alla prepotenza turca doveva volgersi adesso il Moldavo vittorioso per chiuder al Sultano i passi del Danubio. Il «bel» Radu, già favorito di Mohammed II, fu il primo nemico da esser allontanato o distrutto. Radu stesso aveva provocato il vicino più possente gittando le orde tartare contro la Moldavia, che avevano spesse volte visitata; già la flotta turca si preparava anch’essa per prender Saline (oggi Sulina, alle bocche del Danubio) e Moncastro, e Stefano mandava a Caffa, che prendeva le sue misure di difesa, ambasciatori in cerca d’aiuto. Ma nelle selve di Lipnic i Tartari furono vinti dai Moldavi: il monastero di Putna, dove Stefano volle esser sepolto e dove i monaci segnarono in lingua slava, la lingua della chiesa, dello stato, della letteratura, le gesta di questo regno guerriero, fu eretto [p. 49 modifica]

Stefano-il-Grande.

[p. 50 modifica] per commemorare la grazia divina a cui era dovuta la vittoria del pio principe. Fino nel 1473 stette il Sultano tartaro Eminec, fratello del Cano e futuro Cano lui stesso, in Moncastro, ed i Genovesi di Caffa avevano cura di trasmettere al sovrano tartaro nuove sul fratello prigioniero.

Nel febbraio del 1471 Stefano prendeva il primo porto della Valacchia, Brăila, dove già nel secolo quartodecimo approdavano navi greche ed asiatiche, il Brilago degl’Italiani, che dovettero venir spesso anche qui in cerca di grani. Radu volle vendicarsene, ma fu vinto a Soci, nel distretto di Bacău, fin dove erano arrivate le bandiere de’ suoi cavalieri. Stefano stesso adoperava anche pedoni, presi dai villaggi, pagava un corpo permanente e s’appoggiava per la difesa del paese sulle città di pietra che aveva costruito. Nel 1473, mentre gli Osmani combattevano in Asia contro il potente Scià turcomano Usun-Hassan, i Moldavi sconfissero l’esercito valacco a Rîmnicu-Sărat (Lago-Salato), presso la frontiera; Radu fuggì, lasciando al vincitore la Capitale Bucarest — i principi avevano prima la residenza nella già mentovata Argeş, poi in Tîrgovişte, i suoi tesori, la sua famiglia. Maria, figlia del bel principe valacco, fu poi moglie di Stefano, dopo che la Comnena Maria ebbe finito gli ultimi tristi suoi giorni. Basarab, della dinastia degli antichi regnanti, fu imposto ai Valacchi. I Turchi lo scacciarono subito dopo la partenza del suo protettore. Allora Basarab [p. 51 modifica]diventò vasallo di quelli e rimase in possesso della sua sede, ma nell’anno seguente i Moldavi e Transilvani lo costrinsero ad abbandonarla, e per pochi [p. 52 modifica] giorni un «giovine» Basarab, figlio dell’altro, fu principe di Valachia.

3. Il Sultano credette dover intromettersi. Il beglerbeg, generalissimo, di Rumelia, cioè di Tracia, la «Romania» degl’Italiani, fu mandato a castigar il vicino irrequieto. Era lo stesso Soliman Eunuco che combattè i Veneziani in Albania ed assediò Scutari. Nelle paludi del torrente Racovăţ, presso Vasluiu, al Ponte-Alto (Podul-Înnalt), Stefano distrusse l’esercito degli «Infedeli» (10 gennaio 1473). I prigioni furono massacrati, ed a quelli che volevano riscattarsi si rispondeva: «Se siete ricchi, cosa siete venuti a cercar in questo povero paese?». L’annalista veneto Stefano Magno riassume in queste parole le nuove della gran vittoria cristiana che Stefano stesso aveva communicata a «tutti i principi cristiani»:

«Interim Soliman-bego, bassa della Romania, con la Corte d’esso signor de’ Turchi, insimul con Isabech, Alibech, Scanderbech, Daudbech, lacubbech, Vucitrinbech, Saraphagabech, signor de Sophia, con Sarabech [Piribech, Junusbech |, con el fiolo d’Isac-Bassà, tutti signori in nelle parti de Romania, con tutte zente de Romania, insieme con tutto el popule de Transalpina, mandado a danni de Valacchi, che nuovamente dall’imperio di quello s’haveano tratto et levadi havea l’obedienza in tutto, con [p. 53 modifica]

esercito de persone 120 m. se ne passò in le parti di Valacchia Inferior. All’incontro del qual essendo messo in ordine Steffano, Vaivoda della Molda, con Valacchi 42 m. et Transilvani 26 [= 2]

Chiesa di Moldoviţa (nella Bucovina austriaca; fondazione di Alessandro-il-Buono).


m. - questi Transilvani sono zente mandadoli in sussidio per el rè d’Ongaria, insieme con el Oracoli, et, posti al passo, volendoli devedar entrar in nel paese, per Turchi furono prima [p. 54 modifica]

malmenadi i Valacchi. Et, entradi i ditti Turchi, overo lassadi entrar, in nel paese, reccuperandose dapoi li Valacchi, havendo brusadi tutti i strami del paese, astrense li Turchi entrar in un bosco tutto aquoso, over in un palude, in nel qual quelli restorono per anegadi. Et, adì 7 zener, in nel zorno dell’Epiphania, ditti Valacchi assaltò quelli a un ponte, et, volendo i Turchi erano in guardia di quello, scapar, ruinorno detto ponte, et, attraversandose el legname con loro a traverso el fiume, s’annegorono. Onde per sopra il detto legname i ditti Turchi se messeno a fugir. All’incontro de i quali Valacchi con le frezze se messeno a devedarli, et in quelli investì et meseli in rotta et fuga. Et, per tutto quel zorno et la notte et mezo l’altro zorno, non cessono taiar a pezzi Turchi, per muodo che con le loro spade se pascerono de i corpi loro. Per muodo che quasi tutti perino, et pochi ne fugino. Del Bassa, alguni disseno fu preso, et altri che ferido fugì. Habbuda la qual vittoria, quello, adì 25 zener, de Sozavia, scrisse al rè d’Ongaria come, per intender el Turco voler vegnir el mazo futuro contra de loro, per far le vendette, el prega i vogli mandar sussidio, per esser el suo paese el passo del tutto. Sono annali dicono esser sta Turchi 75 m., de’ quali fono taiadi a pezzi cerca 50 m.; fé morto quel Bassa fò sotto Scutari et molti [p. 55 modifica]flambulari. I Valachi erano da 30 m. Fù cosa miracolosa.»

Nell’estate la dotta osmana, di 180 galere, 3 galeazze,

Chiesa di Mirăuţi (in Suceava; secolo XIV°; rifatta da Stefano).


170 fusti, 120 taforesse, salpò nel Maro Nero. Doveva conquistar i porti moldavi e metter fine al dominio genovese della Gazaria. Il tentativo contro Moncastro [p. 56 modifica] non riuscì, e Chilia-Licostomo, più debole, era stata distrutta dai Moldavi stessi. Ma ai 6 di giugno i gianizzeri entravano in Caffa, dove trovarono tra gli altri difensori anche dei Moldavi del principe Stefano, che furono tutti uccisi. Cento venti Genovesi che avevano potuto scappar ai Turchi, col naviglio che gli portava verso Costantinopoli, furono arrestati a Licostomo e menati prigionieri a Suceava, secondo l’inumano diritto di cattura sui naufraghi. Anche Alessandro, signor di Teodori, il Tedoro dei Genovesi, che una nave italiana aveva condotto nel suo dominio con soldati moldavi, fu, insieme con tutta la sua famiglia, vittima degli Osmani, nel mese di dicembre. Ora Mohammed II era padrone di tutto il circuito de Mar Nero, ad eccezione di Moncastro e di Matrega, piccolo castello dei Senarega.

4. Colla vittoria di Vasluiu comincia l’importanza del principe moldavo pella storia universale. I suoi ambasciatori andarono dal Pontefice, dai potentati e dalle repubbliche italiane per chieder soccorso a nome della minacciata cristianità. «Questo sarebbe l’anno che coll’aiuto dell’Altissimo si potrebbe acquistare vittorie assai», scriveva nel giugno 1475 Marco Strozzi da Chio a suo fratello Filippo in Firenze. Già nel novembre 1474, Polo Ogniben, ambasciatore della Repubblica veneta ad Usun-Hassan, andava a trovar Stefano nel campo fortificato di Vasluiu, dove aspettava [p. 57 modifica]

Evangelio slavo del secolo decimo quinto (epoca di Stefano).

[p. 58 modifica] l’attacco dei Turchi, ed il Moldavo scriveva al Papa per rammentargli il dovere di far che «i potentissimi rè e principi si adoperassero nella difensione della cristianità contro i perfidissimi Infedeli». Venezia stessa, a cui Stefano domandava anche un medico per curar la ferita al piede, riportata nel primo tentativo contro Licostomo, invocava altamente «l’animo e l’intenzione piissima, religiosissima, costantissima ed intrepidissima contro il comune nemico». Le relazioni sul gran successo ottenuto nel gennaio gli meritarono il titolo di «uomo che il Cielo stesso aveva mandato (hominem celitus excitatum), in stato, non soltanto di difender i cristiani, ma di preparar ed adempir anche la loro legitima vendetta». La Signoria scriveva nel marzo del 1476 a colui che Sisto IV doveva dichiarar «l’atleta del Cristo» in questi termini: «O fossero gli altri principi cristiani con tale animo e volontà, oppure avessi tu stesso la forza corrispondente alla tua magnanimità!»1

5. Già aspettava Stefano l’invasione del Sultano stesso. Dagli Ungheresi e dai Polacchi, i di cui rè ambivano la suzeranità sulla Moldavia, non si poteva aspettar nessun aiuto notevole: nel combattimento di [p. 59 modifica] Vasluiu, oltre, forse, a qualche centinaia di Polacchi, avevano preso parte soltanto i Siculi, venuti da se stessi per difender in quei boschi moldavi le loro proprie terre. Mattia Corvino si contentò di aver preso sul Danubio serbico la fortezza di Sciabaz e di aver mandato in Bosnia, col despota serbo Vue Brancović, anche Țepeş,

Chiesa di Voroneţ (edificata da Stefano-il-Grande).


che da lunghi anni era, prima prigioniero, poi ospite della Corte di Buda. Migliori speranze nudriva Stefano negl’Italiani.

Pretendeva che una parte del sussidio di cento mila ducati accordato dal Pontefice a quel rè Mattia che voleva presentar il «Moldavo» come un suo «capitano», gli fosse confidata a lui, personalmente e direttamente. Venezia appoggiava nel mese di maggio questa sua [p. 60 modifica] dimanda, considerando il «favor che ’l dicto signor puoi conferir ale cosse christiane contra el Turcho». Anche i Fiorentini ricevettero l’ambasciata moldava. Il baccalauro Pietro, che pare sia stato un’Italiano, parlava in nome dei suoi colleghi rumeni. Sisto IV lo fece «vescovo della chiesa moldava», con residenza in Moncastro, dove erano due chiese cattoliche. Ma per Stefano non si potè ottener nient’altro che «parole» («verba»): gli si dava soltanto la speranza di mandargli qualche cosa della seconda colletta di decime e vigesime che si sarebbe fatta tra i cristiani d’Occidente. Arrivati a Venezia, gli ambasciatori affermarono energicamente che il loro mandante «non era sottomesso in niente al rè di Ungheria, ma era padrone della provincia e delle genti sue» («Stephanum predictum regi Hungarie in nullo esse suppositum, sed dominimi provincie et gentium suarum»). Il legato apostolico pretendava nondimeno tutta la contribuzione pel rè Mattiate la ottenne. Un segretario veneziano, Emanuele Gerardo, fu mandato dal Senato per osservar lui stesso lo stato, delle cose di Moldavia. Doveva parlar a Stefano della sua «gloriosa e magnanima vittoria» e promettergli un costante appoggio; si doveva cercar anche il mezzo di trattar per mezzo suo coi Tartari, dato che si credeva ancora nella loro disposizione di aiutar i cristiani contro i Turchi e di ricuperar Caffa e Tana: Venezia sollecitava il loro aiuto in favore di Stefano, che i Tartari dovevano aggredire [p. 61 modifica] nel momento decisivo della prossima guerra! Quando si intese poi la mossa del Sultano stesso, la Signoria destinò un secondo ambasciatore col «legato apostolico che portava danari», certamente al rè Mattia, sfruttatore continuo dei sacrifizi e delle vittorie rumene,

Vecchio sigillo di Baia


benché si asserisse che costui avesse consentito che una parte dei sussidi fosse mandata in Moldavia2

Il Sultano dopo aver depredato il paese trovò i Moldavi nei boschi del distretto di Neamţ, nella vicinanza della fortezza collo stesso nome. Presso al Torrente-Bianco (Valea-Albă), dove poi sorse il villaggio di Războieni, così chiamato dalla lotta ivi [p. 62 modifica]combattuta, si azzuffarono i Turchi coi Rumeni il 26 luglio 1476. I pedoni dell’esercito moldavo erano partiti per difender contro i Tartari i loro villaggi: i boiari soli, senza nissun aiuto straniero, fecero l’impossibile per respingere la multitudine degli Osmani. Furono «schiacciati dal numero», secondo l’energica espressione di un annalista rumeno. Il Vicentino Angiolello, che visse molti anni tra i Turchi, come loro schiavo, così descrive la battaglia, che aveva visto coi propri occhi:

«Andava per antiguardia del campo del Turco il prefato Soliman-Bassa, beglierbech della Romania, il qual’era stato rotto l’inverno manzi dal conte Stefano, et, gionto et alloggiato appresso detto bosco dov’era alloggiato detto conte Stefano, circa 5 miglia, et doppo mangiare, circa hora di nona, il conte Stefano uscì del suo steccato et messe in fuga le scorte di Soliman-Bassa, et ne amazzò alcuni, et, seguitandoli fin al paviglione, messe a romore l’antiguardia. Il Bassa montò subbito a cavallo, et gli andò contra, et furono alle strette, et ne morì dall’una parte et dell’altra. Ma, per esser Soliman-Bassa più grosso di gente, e tuttavia aggiongeva, fù forza al conte Stetano di retirarsi dentro del suo fortificato bosco, dove stette saldo, et difendevasi con l’artegliarie, et dannegiava li Turchi; onde se retiravano a dietro. [p. 63 modifica] [p. 64 modifica]
«Il Gran-Turco, inteso ch’erano alle mani, montò a cavallo con la sua Corte, et messe li gianizzari avanti, et lui col resto della Corte se gli avviò dietro, et, gionti ad un torrente, largo bonamente un tirar d’arco, con poca acqua et già roso, et haveva le rive alte, quando fossimo appresentati a detta acqua col Signore, sopra la riva del detto torrente, fossemo salutati dall’artegliaria. Ma facevano poco danno, perchè eramo lontano circa un miglio, et, calati et passati detto torente, al montar dell’altra riva etiam furono tratte quantità d’artegliaria. Dove furono guasti et morti alcuni, et poteva etiam toccar al Signor Gran-Turco, imperocché era alla sorte come altri. De’ quali non poco distanti da lui ne furono tocchi et guasti et morti alcuni, tra li quali fu un nostro compagno, il quale haveva nome Zachia di Longo, dal Signore per manco di due pertiche di misura. Et, restata la furia dell’artegliaria, il Gran-Turco si messe a fuggire galoppando il cavallo, et, gionto la fantaria, ch’era poco d’avanti, et fermosi contra l’inimico, per non lasciar più trar artegliarie. Et così tutti s’affrettorono di buon cuore. Tuttavia il Gran-Turco con quelli da cavallo teneva con loro. In poco di spatio giongessimo all’inimici, et immediate salimo sopra li ripari, et messemo in fuga il conte Stefano, toltogli l’artegliarie, et lo segui [p. 65 modifica]

tavano per il bosco. Et furono morti da 200 persone, et presi circa 800, trà Vallacchi et Armeni; li quali Armeni erano la maggior parte di Moncastro et da Licostomo venuti. Fu preso etiam de’ molti carriaggi, et, se non fosse stato il bosco folto et scuro per l’altezza de’ legnami, pochi ne saria scappati.»

Chiesa di Pătrăuţi (edificata da Stefano-il-Grande).


Ma quelle cità di Licostomo e Moncastro erano rimaste in possesso dei Moldavi. Nissuna città era stata conquistata dal Sultano, e l’assedio di Neamţ non ebbe nissun risultato. Il paese intiero era stato «bruggiato» secondo l’ordine di Stefano stesso. Un «polverazzo di braggia» faceva «fumar l’aria» in quelle torride giornate di luglio. Le provvigioni erano state perdute nel naufragio della flotta che le portava. La fame e la peste decimavano l’immenso esercito stanco e scoraggito. [p. 66 modifica] Così, mentre che ’l Sultano tornava col corpo dei gianizzeri, sminuito pella disperata resistenza dei Moldavi, Stefano usciva dal suo nascondiglio fra montagne inaccessibili e «cavalcava potente per tutta la Moldavia» («egresso Vayvoda et per totam Moldaviam intrepide obequitante»).

6. Gli successe anco di ristabilir Vlad Țepeş, suo parente, in Bucarest, nei dintorni della quale ribelli e Turchi poterono ucciderlo in un’imboscata. Soltanto nel 1477 arrivò Stefano a metter il suo cliente Basarab il giovine in Bucarest, ma per vederlo in breve tempo diventar vassallo dei Turchi, senza i quali non avrebbe potuto mantenersi. Lo stesso avvenne anche di Vlad il Monaco («Călugărul»), il «Caloiero» delle sorgenti italiane, fratello di Țepeş, che ottenne la Valacchia nel 1482 doppo la vittoria di Stefano contro Basarab. L’intenzione di sottometter la Valacchia all’influenza moldava ed impiegar le forze di tutti i Rumeni danubiani, coll’aiuto dei Transilvani stessi, tra cui v’erano tanti elementi militari della medesima razza, contro gli Osmani, si era dimostrata vana.

Padroni della Valacchia, dominando in Caffa, Tana e tutte le città del littorale pontico, avendo anche a loro disposizione i Tartari, il di cui Cano fungeva adesso da vassallo osmanico, i Turchi dovevano far ogni sforzo per guadagnar anche i porti moldavi e ridur la Moldavia alla situazione precaria di un piccolo Stato [p. 67 modifica] senza contatto col Mare. Nello stesso tempo gli stessi Turchi impedivano ’l libero commercio tra l’Occidente

Ruine della fortezza di Suceava.


germanico e l’Oriente levantino, commercio che aveva fatto fìn’all’ora la prosperità dei due principati rumeni. [p. 68 modifica]7. Prevedendo un nuovo colpo da parte dei Turchi, Stefano ebbe ricorso fin dal 1478 all’aiuto delle potenze occidentali e del Papa. Venezia l’aveva assicurato che in breve tempo avrebbe ricevuto 10.000 ducati e che si predicherà una crociata speciale con privilegio di giubileo in suo favore. Questi soccorsi tardavano, e non arrivarono mai. Così Stefano dovette mandar in Italia il suo «barba», Giovanni Zamblacho (= Caloioanne Valaco) per rinnovar le lagnanze e dimande d’esser aiutato. L’ambasciatore moldavo, alludendo alla sconfitta di Valea-Albă, mostrò nel nome del principe che «quel che è seguito non seria intervenuto sel havesse intexo che li principi christiani et visini soi non havesse tractà come l’hano tractà... Io cum la mia Corte hò fato quel che poti, et è seguido ut supra; la qual cossa zudego sia sta volontà de Dio per castigarme come pecator, et laudado sia el nome suo... Non solamente non me nano aiutato, ma torsi alcuni hano havuto piacer del danno fatto a mi et al dominio mio da Infideli... Per esser impedito el Turco cum mi zà anni IV, sono romaxi molti christiani in reposso.» Quanto ai suoi porti minacciati, sapeva bene «che queste do terre sono tuta la Valachia», la sua ricchezza e’l suo avvenire, e prometteva concorrer come dominatore del Danubio e della bocca del Nistro alla ricuperazione di «Caffa et Chieronesse».

Nel 1479 fece riparar le mura di Chilia, e la chiesa che ivi eresse è l’opera di un certo Giovanni Privana, [p. 69 modifica] forse Provana, che pare esser stato uno degl’Italiani di Caffa rifugiati in Moldavia. Ma la flotta osmana che comparve in quell’anno nel Mar Nero non fece altro che riunir Matrega alla provincia del Cano di Crimea. Quanto ai sussidi pontifici, Venezia stessa aveva consentito già dal 1478 che fossero mandati per mezzo del rè Mattia, che, dal canto suo, non doveva mai rammentarsene.

8. Così fu consumata nel 1484 la rovina della politica

Ornamento dei libri stampati nella Valacchia dopo ’l 1500.


inaugurata e seguita con tanti sacrifizi dal gran principe moldavo. Il Sultano Baiazid prese Licostomo già ai 14 di luglio e Moncastro ai 4 dell’agosto seguente, coll’aiuto dei Tartari e del Valacco Vlad, guadagnando così, come egli stesso dice, «chiave e porto verso la Polonia, Russia, Tartaria e tutto ’l Mar Nero». I giovani di Moncastro furono iscritti nel corpo dei gianizzeri e le fanciulle vendute sulla piazza de’ schiavi in Costantinopoli. 200 famiglie di pescatori [p. 70 modifica]rimasero là dove Moncastro aveva rappresentato per secoli intieri libero commercio, ricchezza e civiltà.

9. Da parte della cristianità, Stefano ebbe scarsa consolazione per questa sua perdita. Nel 1497 entrava in Moldavia il rè polacco Giovanni-Alberto, che prometteva il suo soccorso per la ripresa dei due porti. Ma, invece di andar contro i Turchi della nuova provincia danubiana, intraprese l’assedio di Suceava, sperando poter conquistar pel fratello Sigismondo l’intiera Moldavia. La fortezza resistette alcune settimane, e la mediazione ungherese, di rè Vladislao, fratello di Giovanni Alberto, pareva aver messo fine all’ empia guerra. Quando i Polacchi ruppero le condizioni del tratato e, prendendo altra via per ritornarsene, devastarono il paese, Stefano punì questa trasgressione col massacro dei nemici nei boschi di Cozmin (26 ottobre). Negli ultimi anni del suo regno sorsero nuove ostilità contro la Polonia per via della provincia di Pocuzia, coi castelli di Sniatyn e Colomèa, che Stefano pretendeva annettere, essendo esse già da lungo tempo impegnate per una somma di denaro imprestata da Alessandro-il-Buono.

10. Le relazioni già cominciate colle città italiane furono proseguite anche dopo ’l 1484. Nel febbraio del 1501 Rinaldo ed Antonio venivano a Venezia per comprar «panni d’oro» e cercar un medico «tra gli [p. 71 modifica] amici suoi, li qual», diceva il principe, «son certo me amano». Stefano aveva consultato fin’ora anche don

Chiesa di Bălteni (Ilfov: secolo decimosesto): peristilo.


Branco, un prete siciliano, impiegato qualche volta in missioni, come questa che compì in Moldavi [p. 72 modifica] nel nome del rè dei Romani Massimiliano. La Signoria scelse Matteo da Murano, che rimase in Moldavia tre anni: in dicembre 1502 Demetrio Purcivio (Purice), messo di Stefano, domandava «qualche farmacie» pella gamba del vecchio principe ammalato. Questi parlava a Matteo della sua vita di guerre e di sofferenze: «io sono circondato da inimici da ogni banda, e hò avuto bataie 36 dapoi che son signor de questo paese, de le qual son stato vincitore de 34 e 2 perse», e ’l «ciroico» lo giudicava «homo sapientissimo, degno de molta laude, amato molto da li subditi, per esser clemente et justo, molto vigilante et liberale, prospero de la persona per la età sua, se questa infirmità non lo havesse oppresso». I Moldavi, che fornivano un’esercito di 40.000 cavalieri e 20.000 fanti, sembravano al medico veneziano «valenti uomini et homini de fatti, et non da star so li pimazi, ma a la campagna». Nel dicembre 1503 si presentava dinanzi alla Signoria un’altro ambasciatore di Stefano, il cubiculario Teodoro, per dimandar un medico invece di Mattia, ch’era morto in suo servizio. «Di li piedi e di le man non si poteva mover di ajutar, dil resto sta bene», era il diagnostico, ed era stato adimandato il «conseglio di medici di Padoa» pella malattia del settuagenario principe. «Col sangue potendo, lo voria varir», fu la risposta del doge. Tre medici volevano andar in Moldavia col salario di 500 ducati all’anno: Zorzi di Piamonte, Alessandro Veronese ed [p. 73 modifica] [p. 74 modifica] Hieronimo di Cesena, che fu anche scelto e mandato a Suceava; ma al letto del moribondo vegliava nel seguente luglio anche un «barbiere di Buda» ed il medico ebreo del Cano dei Tartari; Johann Klingensporn da Norinberga aveva già abbandonato il paese. Stefano costrinse i boiari ad elegger per suo successore il figliuolo Bogdan, che Mattia descriveva nel 1502 «modesta quanto una donzela e valente homo, amico de le virtù e de li homeni virtuosi»; «poi», scrive ’l «fisico» Lionardo de’ Massari in Buda, «tornò in lecto, et in do zorni morite».

Era il 2 di luglio 1504. Le ceneri di Stefano-il-Grande, che il popolo venera qual santo, ed a cui attribuisce ancora ogni grand’opera del passato, riposano nel chiostro di Putna, che non appartiene più al paese rumeno libero, ma fa parte della Bucovina austriaca. I discendenti dei suoi fedeli soldati contadini aspettano la sua risurrezione e la gran guerra sanguinosa che darà ai Rumeni il loro diritto intiero e l’agognata giustizia.





  1. „Utinam vel tali animo et voluntate reliqui essent principes cliriştiani, vel solus tantum haberetis virium quantum magnitudini animi vestri conveniret!“(Hurmuzaki, Documente, VIII, p. 7: risoluzione del Senato veneto; 6 marzo 1475).
  2. Ma la ricca Venezia ridomandava i dugento ducati che aveva dati in prestito agli ambasciatori di Stefano!