Breve storia dei rumeni/Capitolo terzo
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CAPITOLO TERZO.
Prime influenze italiane sul popolo rumeno |
i. Nel 1204, colla conquista di Costantinopoli, Venezia guadagnava una situazione commerciale privilegiata nell’Impero bizantino, che già prima, ospitava a Durazzo, Salonica e nella Capitale stessa, numerosi negozianti veneziani, e in cui la Repubblica aveva ottenuto adesso un «quarto e mezzo» dell’eredità dei Comneni ed Angeli, colla splendida colonia lontana di Creta. Ma, dopo un mezzo secolo, la sua costante rivale Genova appoggiava i Paleologhi di Nicea e dava loro il possesso di Costantinopoli stessa: la ricompensa fu che i Genovesi sostituirono i Veneziani come nazione franca tavorita nel nuovo Impero greco. Ai 15 marzo 1261 Michele Paleologo segnava il trattato che rendeva Genova padrona dei Mari levantini, e nel luglio dello stesso anno la croce greca ridominava Bizanzo.
2. I Veneziani avevano già le loro relazioni di commercio colla costa settentrionale del Mar Nero, ed i loro mercanti approdavano a Soldaia e principalmente a Tana, il porto alle bocche del Don (tartarico Tem). I Genovesi stabilirono prima del 1290 la colonia di Caffa, che diventò nel secolo seguente la metropoli di numerosi altri prosperi stabilimenti. Nel 1341 si creò per tutto questo complesso di città genovesi nell’Oriente tartaro, nel paese dei Cazari, un’officio speciale della Gazaria italiana. Nel 1365 Soldaia era riunita a questo splendido dominio coloniale, che potè resistere ad ogni sforzo dei nemici, tra i quali annoveravansi anche i gelosi Veneziani. Ma lo sviluppo di Caffa non rese inutile l’attività della Tana veneta.
Le navi italiane cercavano in queste contrade schiavi, pelli, carni salate, caviale, legna, ma innanzi tutto grani. Il privilegio di caricar biada è rinnovato nel trattato conchiuso trà Veneziani ed Imperiali nel 1285, e poi in quello del 1303. Nuovi «caricatori» si guadagnarono nel secolo quartodecimo: cioè alla bocca del Nistro, dove esisteva da tempi antichi la «città nera» dei Greci, Maurokastron, che gl’Italiani nominavano Mauocastro, Maocastro, poi Moncastro, mentre pei Rumeni, che conoscevano l’altro nome, di Asprokastron, era la Città-Bianca, Cetatea-Albă; poi sul Danubio Inferiore, nell’isoletta di Licostomo (sul «braccio del Lupo») o di Chili, rum. Chilia, dal nome d’un vecchio eremitaggio. I Genovesi vi dimoravano verso il 1360 e proibivano la compra del grani ai Veneziani che non volevano associarsi con essi loro. Malgrado le promissioni di rimediarvi, Licostomo e Moncastro rimasero anche dopo queste lagnanze venete empori riservati ai soli mercanti di Genova e Pera di Costantinopoli, che avevano ivi i loro consoli e massari. Venezia, che nel 1352 aveva ottenuto un privilegio dallo Zar bulgaro Alessandro, trovava ora la biada bulgara nel porto di Varna, dove, come anche a Calliacra e fin’a Licostomo stesso, si annidò poi quel signorotto Dobrotić che doveva dar il suo nome alla Scizia Minore.
3. Già nel 1373, non senza essersi inteso colla Signoria veneta, Dobrotić era in guerra aperta coi magistrati della Gazaria genovese; il governatore ribelle di Tenedo, Giovanni Muazzo, diventò suo alleato. Pietro Embrone, consolo di Licostomo, ebbe la sua parte in queste ostilità che si svolgevano nel tempo in cui finiva il regno del principe valacco Laico (Mircea vinse il fratello Dan nel 1386) ed i Moldavi non erano ancora arrivati al Danubio inferiore ed al Mar Nero, nel tempo in cui i Bulgari, spartiti in tre Stati deboli, subivano le prime invasioni degli Osmani. Così i Genovesi potevano sperar di crear in queste regioni una forza politica indipendente, una nuova Gazaria delle bocche del Danubio, per sfruttar più completamente il commercio del Settentrione barbaro. Attraverso il territorio rumeno andavano i corrieri di Caffa fino a Buda, residenza di quel nuovo rè Sigismondo che doveva esser l’irrequieto Imperatore d’Occidente, e le lettere greche dello scrivano Antipa di Licostomo andavano con notizie guerresche pella via di Pera a Costantinopoli stessa. I perperi genovesi, i ducati «ianuini», chiamati anche tartari, la moneta d’argento dei Genovesi correvano presso i Tartari, Russi, Poloni, Lituani e Rumeni e non erano preggiati meno della moneta bizantina. In Valacchia compravano i Caffesi, nel 1410, le campane per tre delle loro porte.
4. Nel 1387 il figlio e successore — primo ed ultimo - del dinasta bulgaro, Ivanco, nuovo principe di questa «Zagora» pontica, rinnovava le relazioni coi Genovesi; i suoi ambasciatori Costa e Ciolpan le sigillavano in Pera: si riconosceva ai Genovesi ’l diritto di tener il loro consolo in Licostomo ed anche in altre possessioni di Ivanco, con chiesa e loggia del commune; l’esportazione dei grani rimaneva libera; il dazio era fissato a uno per cento; 100.000 perperi sarebbero pagati per colui che contraverrebbe a questi articoli. Nel 1396, quando Sigismondo, vinto a Nicopoli, passava per Licostomo nella sua fuga verso Costantinopoli e la sua costa dalmatica, e pensava farvi imbarcar le sue truppe che dovevano andar a Gallipoli, Ivanco era già sparito, e Mircea, il «Domn» valacco, occupatore dell’eredità di questo principe bulgaro, «terrarum Dobrodicii dispotus», assicurava ai mercanti l’osservazione dei loro privilegi. Il rè ungaro ordinava la fortificazione di questo castello e di quello di Calliacra, sperando impedir l’assalto vittorioso dei Turchi. Fra pochi anni il consolo abbandonava questo porto, la di cui importanza era sminuita dal rapido avvanzarsi dei conquistatori.
5. Quanto a Moncastro, che conteneva le reliquie riverite di San-Giovanni il Nuovo, Alessandro il Moldavo, che le fece portar nella sua residenza di Suceava, dove si conservano fin oggi, trasmutandovi anche la residenza del vescovo ortodosso locale, si presentò con un esercito sotto le alte mura genovesi della Città-Bianca per prender possesso del corpo santo. Nel 1410 un notario genovese contava ancora Moncastro tra le possessioni della Repubblica, ma già era il principe di Moldavia signore dei contorni ed esercitava anche nella città certi dritti sovrani. Nel 1412 in Licostomo e Moncastro dominavano già i Moldavi; nondimeno il numero degl’Italiani rimase per qualche tempo importante nella città del Nistro che univa il commercio della Gazaria tartara con quello delle regioni del Danubio. Nel 1435 Venezia cercava di annodar relazioni col monaco moldavo che fungeva da «signor di Moncastro» sotto i successori di Alessandro-il-Buono; Francesco Duodo fu nominato vice-consolo nel 1436, ma il viaggio di Moncastro, con una sola galera, fu continuato soltanto tre anni dopo, quanto cioè lo permetteva la conquista del Mar Nero per parte dei Turchi.
6. Il tempo veniva in cui i Moldavi dovevano pur cercar d’impadronirsi del lido pontico settentrionale, credendo di potere mantenersi di fronto agli Osmani. Già nel 1444 incontravano i Genovesi difficoltà nel loro viaggio pella Moldavia, e Craveotto Giustiniano fu spogliato dal principe Stefano, figlio e secondo successore di Alessandro; si computava a 4.500 «ducati di Moncastro» il danno da lui subito, e si accordarono rappresaglie in suo favore. Nondimeno i Peroti passavano per questo paese nelle loro relazioni coi Germani ed Armeni della città galiziana di Lemberg, «Leopoli» pegl’ Italiani. Genovesi portavano ai mercanti moldavi pepe comprato a Brussa, gottoni, cappelli «pilosi», taffetà ed altri panni fabbricati in Oriente. Stefano-il-Grande voleva farsi in Genova «una spada ala facione velachesca», ed i Caffesi gli presentarono qualche «bello baselardo dorato». Questo negozio era in relazione colla strada commerciale moldava, che legava Lemberg dei rè di Polonia con Caffa. La Valacchia non aveva più importanza pei negozianti di Genova, di Pera e Caffa, ed il parere che le scale danubiane Giurgiu e Calafat avessero che fare collo stendardo di S. Giorgio o coi calafatti di Genova non riposa sù nissun fondamento; l’attribuire le più forti città moldave, Suceava, Hotin, etc., a ingegneri genovesi si spiega coll’uso dei Tartari di qualificar ogni antico castello forte col nome di «Ginivis-Calesi».
6. Già nel 1455, vicino al momento in cui Pietro detto Aron, principe di Moldavia, accettava di pagar al Sultano 2.000 ducati ungheresi all’anno e pensava assicurarsi con ciò il diritto di negociar sul Mar Nero, pescatori moldavi aggredivano ’l castello di Lerici, «Illex», alle bocche del Dniepr, appartenente ai fratelli Senarega, e se ne impadronivano: i Caffesi non ardirono riprenderlo. Nel 1456 fungeva in Moncastro un’agente genovese, che faceva arrestare i soldati fuggitivi di Trebisonda e proteggeva i negozianti in cerca di grano; la communità, presso che autonoma, dei «jupani» di Moncastro mandava i suoi ambasciatori a Caffa. Nel 1462 il Moldavo Stefano, coll’aiuto della flotta turca, cercò di prender al suo vicino e parente Vlad Țepeş Licostomo-Nuova, Chilia, edificata sulla sponda moldava del Danubio, e che gli Ungari custodivano già dal tempo di Pietro Aron. I Caffesi sostennero la causa del principe valacco e Stefano non conseguì il suo intento che dopo la fuga di Vlad, nel 1465. In Caffa si fecero regali e grandi onori all’ambasciator moldavo che portò la nuova «de la soa bona victoria»; il barbiere di Stefano, cioè il suo medico, Zoane, era un Genovese che serviva da mediatore tra i suoi concittadini ed il possente principe del basso Danubio. In iscambio molti tra gli «orgusi» che difendevano Caffa erano «Valachi ungari»; del principato valacco, o «Valachi polani»: del principato moldavo. Stefano aveva sposato in seconde nozze dopo una principessa di Chiev — una Comnena di Teodori o Mangup, castello della Gozia tartara, Maria, ed era lui che sosteneva i parenti della moglie nel possesso della loro piccola signoria. Allor quando, nel giugno 1475, Caffa fu conquistata dai Turchi, vi furono Moldavi che presero parte alla difesa di questa ricchissima tra le città del Mar Nero. Fin all’ultimo momento gli ambasciatori del Moldavo trovarono in Caffa ottima accoglienza, ed i conti della città mentovano le spese fatte pel loro vitto e la loro onoranza. Nell’autunno 1474 si cercavano ancora grani a Moncastro, «unde n’è asai, e de quello locho spiremo le averne a sufiicientia» e si trattava sulla rinnovazione dei privilegi che godevano i Genovesi in Moldavia. Per andar da Caffa a Genova si prendeva la via di Kamieniec al Nistro, dirimpetto a Hotin, ed anche quella delle montagne di Bistritz, dove Angelo Squarzafico fù ucciso dai ladri nel 1474 o 1475.
7. Altri Italiani venivano come rappresentanti della propaganda cattolica, molto attiva dal secolo terzodecimo in là e che creava la sede vescovile di Milcov, distrutta dai Tatari, poi rinnovata dai pontefici del secolo seguente, alla richiesta del rè ungherese Lodovico; quella di Severin, di Argeş, che non ebbero durata lunga e, finalmente, in Moldavia, quella di Seret, il di cui titolo si conservò anche più tardi, quella di Baia o Moldavia, di breve esistenza, e poi quella di Bacău o Bacovia, ove non dimorarono mai i prelati, polacchi per lo più, che s’intitolovano vescovi bacoviensi.
Tra i Dominicani che nel secolo decimoterzo servivano alla propaganda latina in questi confini dell’Ungheria ve n’erano senza dubbio anche d’italiani, come poi anche trà i Franciscani che gli sostituirono dopo il 1324. Vito di Monteferreo, nominato nel 1332 nuovo vescovo di Milcov o Milcovia, pare esser stato piuttosto suddito di rè Carlo-Roberto; il suo successore lo era certamente. Un terzo vescovo di Milcovia, di nazionalità incerta, adempiva nel 1348 le funzioni di ambasciatore ungherese in Venezia. Tutti i vescovi titolari di questa sede che si ritrovano fino dal secolo decimosesto appartengono al clero d’Ungheria.
Ma nel 1350 un Spalatino, Antonio, dell’Ordine dei Minoriti, si presentava alla Curia colla buona nuova che rè Lodovico aveva guadagnato pella Santa Sede «una parte della gran nazione dei Vlachi, che vivono circa le frontiere del reame ungherese verso i Tartari»; domandava per sè stesso la dignità vescovile, conoscendo come missionario in queste parti «la lingua di questo popolo semplice». Per non portar offesa al prelato che aveva ottenuto la successione di Milcovia, questa domanda venne respinta, ed, in seguito di ciò la Moldavia non ebbe un Italiano per primo vescovo cattolico. Ma forse apparteneva al clero missionario italiano quel Francesco di S. Leonardo che portava nel 1390 il titolo di vescovo argense, di Argeş, Capitale del principe valacco Laico. Ungheresi furono fin verso il 1600 tutti i suoi successori, che non formano serie continua.
Ai missionari tedeschi si deve la fondazione della sede vescovile moldava, di Seret, seconda Capitale del nuovo Stato rumeno settentrionale. Il primo vescovo fu il Minorità Andrea di Cracovia, Polacco, ed i prelati polacchi conservarono sempre la successione in questa dignità, che non ebbe che per brevissimo tempo importanza reale. Un vescovo di Seret, Nicolò Venatoris, venne poi permutato alla sede dalmatina di Scardona. Dalla Polonia o fors’anche dall’Ungheria vennero poi i vescovi di Baia, sede creata da Alessandro-il-Buono, che sposò due cattoliche: Margherita, la quale pare esser stata ungherese, e Ryngalla, cugina del rè Vladislao Iagello. Minoriti ungheresi del Csik furono i fondatori del vescovato di Bacovia.
8. Trà i prelati ed ambasciatori orientali che vennero negli anni 1438-9 al Concilio di Ferrara e Firenze pell’ unione delle chiese, la Moldavia, sottomessa allora all’influenza polacca, mandò il protopopa Costantino e il boiaro (boiar è nome bulgaro che significa dignitario) Neagoe, a cui si aggiunse pel viaggio, incominciato a Costantinopoli, anche il nuovo Metropolita Damiano, che segnò l’atto di pacificazione religiosa. I libri de’ conti della Curia mentovano questi «ambasciatori dei Blachi», «Blaccorum».