Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. II/Capo XXVII
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CAPO VIGESIMOSETTIMO.
Il congresso ecclesiastico conosciuto sotto il nome di concilio di Trento fu convocato al fine di restituire la pace alla Chiesa, turbata a cagione delle indulgenze romane, de’ scandali del clero e delle riformazioni di Lutero; e dopo 22 anni di maneggi delle potestà secolari per volerlo e dei pontefici per differirlo, potè finalmente ridursi in Trento e tenne la sua prima sessione a’ 13 decembre del 1545 sotto il ponteficato di Paolo III. Ma dopo sette sessioni il papa temendo che la sinodo non fosse per recare qualche nocumento alla sua autorità e alla sua Corte, pensò di traslocarla in luogo dove meglio potesse dominarla. I Padri adunque nel marzo 1547 fecero scisma: i partigiani del pontefice, colto il pretesto di un mal di petecchie dichiaratosi a Trento, si ritirarono a Bologna, e i partigiani dell’imperatore restarono a Trento. Non potendo accordarsi, il concilio dormì ozioso finchè da Giulio III fu riaperto di nuovo in quest’ultima città al 1.° di maggio 1551; ma a’ 28 di aprile del seguente anno gl’istessi motivi umani lo fecero disciogliere a modo di fuga, nè fu più ripigliato se non se a’ 18 gennaio del 1562 da Pio IV, sotto il ponteficato di cui ebbe fine nel decembre del 1563.
Il periodo istorico di questa famosa sinodo abbraccia le azioni più memorabili di otto pontefici, di due imperatori, di quattro re di Francia, di altrettanti d’Inghilterra, la storia civile e dogmatica del moderno cattolicismo e uno squarcio fra i più interessanti dell’istoria sociale del mondo cristiano.
Quantunque sia di fede che i concilii generali ossia ecumenici siano inspirati dallo Spirito Santo, come sono inspirati i cardinali che intrigano un papa nel conclave, San Gregorio Nazianzeno, che era santo anch’egli, nella sua lettera a Procopio dice ch’e’ cansava tutte le assemblee de’ vescovi, perchè non ha mai veduto un concilio dal quale sortisse buon fine, o che non aumentasse i mali anzichè rimediarli; perchè lo spirito contenzioso e l’ambizione vi dominano sopramodo, e ciascuno presume di giudicare altrui senza voler correggere sè medesimo. Dal canto nostro teniamo per fermo che il concilio di Trento abbia ricevuto la sua infallibilità dal Sommo Pontefice, siccome è la opinione ortodossa de’ Romanisti; ma le sue vicende, cui niun’altra sinodo ebbe pari, ci mostrano quali e quanti dovessero essere i raggiri di coloro che vi ebbero parte, che animati da passioni diverse voleva ciascuno piegare la religione e far parlare lo Spirito Santo a seconda de’ suoi fini. Temevano i papi il discapito della loro potenza, la corte di Roma i suoi guadagni, i frati i loro privilegi; d’altra parte i principi desideravano l’abbassamento della potestà ecclesiastica, i popoli l’abolizione d’innumerevoli abusi, i vescovi il ricupero degli antichi loro diritti: intanto che i teologi disputavano gli uni per distruggere, gli altri per consolidare, sotto forma di dogma, opinioni private od oscure che si potevano anco lasciare nello stato in cui erano innanzi senza il minimo pregiudizio nella fede delle moltitudini. Religione e politica, interessi materiali e fanatismo, guerre e maneggi, e una gara pressochè continua di scaltrimenti e di conflitti tra il sacerdozio e l’impero, tra il partito innovatore e il partito stazionario, formano presso che il soggetto su cui versa l’Istoria del Concilio Tridentino di Frà Paolo Sarpi.
Fu ed è tuttavia questione grande fra i critici, e non immeritevole di essere sodamente discussa, circa il tempo e l’occasione in cui egli la scrisse; e chi affermò durante l’interdetto per far fronte alla corte di Roma, altri in risposta alla medesima pel libretto dello Squitinio, altri in vendetta di non essere stato fatto cardinale. Il più bello si è che a suo sostegno ciascuno adduce il testimonio di Frà Paolo, o di Frà Fulgenzio, o di qualche altro contemporaneo che dalla bocca del Sarpi lo apprese; il che mi ricorda le controversie degli antichi dottori della Chiesa, che nelle disputazioni loro producevano tutti la tradizione apostolica, benchè nelle opinioni fossero agli antipodi l’uno dall’altro. Non è bisogno di confutare le ipotesi sopraddette, perchè delle più comuni ho discorso a suo luogo, e le altre cadono da sè per le cose narrate qui addietro.
Conviene per altro ricordare come il Grisellini abbia preteso e sostenuto replicatamente che Frà Paolo incominciasse a scrivere la sua Istoria quando ancor giovinetto di 18 a 22 anni era teologo del duca di Mantova; e a prova adduce le parole istesse dell’autore che nel libro primo la chiama fatica di otto lustri; e fa il conto che dal 1572 al 1615 siano corsi appunto poco più di otto lustri. Il conto in aritmetica è giustissimo, ma la citata frase su cui lo appoggia non trovasi nè nel libro primo, nè in altro luogo dell’Istoria o delle opere di Frà Paolo. Il vero è che il Grisellini fu tratto in inganno dal Bergantini che anch’egli fa dire al Sarpi fatica di sette od otto lustri, ed il Bergantini fu ingannato dalla lettera del Boccalini già nominata che dice essere costata quell’Istoria una fatiga di più di sette lustri. Ma questa lettera essendo falsa, l’ipotesi del Grisellini è appieno gratuita, oltre ad essere anco inverosimile per quello che ho detto nel Capo I. Seguendo la vita del Sarpi e i lumi somministratici da lui medesimo, non ci sarà difficile di stabilire la verità.
Dice nel proemio della sua Istoria, che subito che ebbe gusto delle cose umane fu preso da gran curiosità di sapere per intiero le cose accadute al Concilio, e perciò si diede a leggere tutto che trovò stampato e quanti scritti inediti gli capitarono nelle mani. Infatti a Mantova tesoreggiò notizie dagli archivi del duca e da Camillo Oliva che fu segretario del cardinale Ercole Gonzaga, primo legato al Concilio nell’ultima riduzione. A Milano potè ricavare nuovi lumi conversando col cardinale Carlo Borromeo segretario di Pio IV suo zio. Tornato a Venezia fece amicizia ed ebbe documenti da Arnaldo Ferrier, già ambasciatore di Francia al Concilio. A Roma poi conobbe il cardinale Castagna e più altri personaggi intervenuti a quella sinodo da cui ricavò assai notizie orali; e o da mano privata, o frugando nelle biblioteche ed archivi pubblici o de’ monasteri debbe avere potuto raccogliere più ampia materia. Ma tutti i testimoni viventi da lui consultati, e la maggior parte de’ documenti raccolti, non riguardavano che l’ultima convocazione sotto Pio IV; ed erano materiali troppo imperfetti per poterne ricavare un’istoria. Occupato allora, come era, tutto nelle scienze naturali, pare che quel tesoro di notizie lo colligesse per propria erudizione e per quella inquieta curiosità di voler penetrare non meno che gli arcani della natura, quelli della politica e della diplomazia.
L’interdetto di Venezia mutando l’ordine dei suoi studii, l’obbligò ad occuparsi con più diligenza delle cose conciliari. In una lettera al consigliere Gillot, del 18 marzo 1608, in cui lo ringrazia di avergli spedito un esemplare delle sue lettere missive sul concilio di Trento, dice che anch’egli aveva altre volte desiderato di fare una collezione di atti di quel concilio, ma che non permettendoglielo lo stato suo prima di essere Consultore, aveva dovuto appagarsi del desiderio; che già da due anni si adoperava a raccoglierne e ne possiedeva molti relativi all’ultima convocazione, parte documenti originali, parte copie autentiche, ed altri, benchè di non ugual pregio, degni di assai fidanza; ma che sulle due anteriori convocazioni, cui, la prima in ispecie, considerava come la chiave di tutte le susseguenti azioni conciliari, possiedeva poca cosa. È dunque certo che prima di quest’epoca Frà Paolo aveva ancora fatto nulla.
Pare nondimeno che in quell’anno medesimo (1608) se ne occupasse, stantechè scrivendo a Gerolamo Groslot, Signore dell’Isle, a 22 luglio, diceva: «Ho veduto ancora la revisione del Concilio e il bureau e gli atti: se vi fosse altra scrittura che trattasse di tal materia mi sarebbe grata, perchè io ne ho scritto qualche cosa di più, raccolto da altre memorie che ho potuto ritrovare in queste parti». Questa cosa ch’egli aveva scritto non poteva essere che qualche analisi, specialmente dell’ultima convocazione, perocchè delle due anteriori egli stesso aveva pochi mesi innanzi confessato di possieder poca materia, nè pare verosimile che in così breve tempo avesse potuto addoviziarsi. Io non so se sia di questo medesimo lavoro che intende, scrivendo all’ambasciatore veneto a Parigi Antonio Foscarini, in data del 9 giugno 1609: «Mi ha fatto favore a servirsi del libro sopra il Concilio, essendo questa, materia della quale potrebbe nascer occasione che si parlasse». E al prefato Groslot in una del 13 ottobre dell’anno istesso parla della raccolta di memorie che da lui fu ridotta ad aumento grande; ma che per certi rispetti teneva appresso di sè. Indi aggiunge che non potendo star ozioso era disceso sino alle formali parole, viene a dire a stilizzarla. E in altra del 3 febbraio 1610 torna a ripetere che quelle memorie sono tanto particolarizzate che sono giunte a 100 fogli; che pensava di mandargliele, ma che ne fu impedito da alcune contrarietà. Potrebbe essere che al Foscarini parli di un libro che doveva essergli mandato di Francia, e che l’ambasciatore volle riserbare per suo uso; e che al Groslot parli delle memorie che doveva trasmettere al presidente De Thou, e di cui ho discorso a suo luogo: ma ove si voglia intendere del Concilio, par ben chiaro che quel lavoro istorico o critico o dissertativo non fosse se non se un imperfetto commentario. Per me stento a persuadermi che Frà Paolo incominciasse seriamente a scrivere la sua Istoria del Concilio Tridentino prima del 1612. Primamente perchè una compiuta collezione di materiali, dovendoli far venire da parti lontanissime e costando tempo e diligenza a procacciarli, non era una cosa da farsi in fretta; in secondo luogo, perchè gran copia di que’ materiali gli dovette alle cure assidue di Enrico Wotton, dopo che questo ambasciatore inglese passò in Germania nel 1611.
Chi ha letto l’istoria del Tridentino del nostro autore sa quanto frequentemente introduca egli l’opinione pubblica a ragionare quando su un oggetto, quando su un altro, e particolarmente a fare la critica dei decreti conciliari. Fu creduto, e credesi ancora da molti, che sia artifizio dello storico per nascondere le sue opinioni mettendole in bocca di altrui. Ma sa ognuno che dal momento in che Lutero cominciò a predicare la riforma uscirono in tutta l’Europa, e più in Germania, infinità di libelli, satire, critiche, notizie di tale avvenimento, relazioni di tal altro, memorie, documenti, apologie, confutazioni ed altre operette destinate a figurare un giorno, e che tosto spariscono coll’interesse momentaneo che le ha fatte nascere. E questi scritti, comechè in generale dettati dalla passione, contengono non di rado congetture ed arcani d’istoria importanti, e ad un acuto scrittore sono un materiale utilissimo per conoscere lo spirito del tempo e le opinioni degli uomini che movono o sono mossi dagli avvenimenti; e quantunque pel consueto destino a cui son dannati simili lavori, e per le indagini dei frati fossero diventati rarissimi, il Wotton ebbe agio e mezzi di raccoglierne dovizia e spedirli a Frà Paolo, che con fino criterio seppe usarne; ed è da loro che ha dedotte le accennate sue critiche, e per loro mezzo che ha potuto conoscere certi fatti o penetrare certi secreti che paiono impossibili al cardinale Pallavicino, appunto perchè egli mancava di questo importantissimo sussidio. Nè qui soltanto si ristrinse il Wotton, ma potè, mediante le sue relazioni o ricorrendo a persone capaci, procurare all’amico altre memorie estratte o da archivi di principi, o scritte da diplomatici, giureconsulti e teologi intervenuti al Concilio e conservati in varie mani. E per vero ove si confrontino spassionatamente le due istorie, quella del Sarpi e l’altra del Pallavicino, troviamo che il secondo è spesse volte inferiore nella piena cognizione dei maneggi diplomatici; e confessa egli medesimo in più luoghi la propria ignoranza, non pure in ciò che riguarda fatti istorici o secreti di corte, ma eziandio in ciò che contiene le opinioni dei teologi e i loro voti sulle materie dottrinali discussate al Concilio.
Altro materiale, e del massimo interesse, di cui fu quasi al tutto mancante il Pallavicino e abbondantemente provvisto il Consultore, furono i dispacci e le relazioni ambasciatoriali. Da Gillot, da Groslot, da Mornay e più di tutto dai fratelli Dupuy, che poi lo pubblicarono a stampa, si ebbe il carteggio della corte di Francia co’ suoi ambasciatori a Roma e a Trento; Wotton gli procacciò documenti diplomatici della camera imperiale e degli altri principi di Germania e della Spagna; Bedell lo fornì per quanto credo, di notizie per quei tempi peregrine sugli affari d’Inghilterra; i suoi numerosi corrispondenti gliene mandarono da tutte le parti d’Europa: quindi potè egli vedere il diario di Francesco Chieregato nunzio di Adriano VI, gli atti della legazione del cardinale Gaspare Contarini, le lettere dei cardinale del Monte primo legato del Concilio sotto Paolo III, quelle di monsignor Visconti agente di Pio IV a Trento, le memorie del cardinale Amulio, e moltissime altre per lo più ignote al Pallavicino; ma il maggior sussidio lo trasse dalla immensa suppellettile d’istoria arcana e diplomatica che offrivano gli archivi segreti della repubblica veneta.
«Quantunque volte, dice Leopoldo Ranke, ebbi occasione di mettere a confronto i dispacci veneziani con quelli di agenti di altre nazioni ho creduto di trovarvi una tal quale diversità. Troppo leggermente, pare a me, si occupano questi delle faccende del giorno, e sono assai meno liberi di riguardi appunto perchè invecchiano nella loro residenza; ma i Veneziani sapendo che i loro messaggi sariano letti da chi gli precedette o da altro che stava per succedergli, si davano cura di osservare ogni cosa con assoluta libertà. Con assai circospezione tenevano fissi gli occhi sulle relazioni degli Stati dove risiedevano, e il loro pratico acume era sempre diretto al vantaggio della patria. Lasciamo pure, se si vuole che non si cerchi il principio di questa perspicacia in un ingegno naturale o forse natio, ma se veramente il Senato adoperava tanta forza di mente nel ponderare le faccende esteriori, quando ogni 15 giorni udiva tanti dispacci di ambasciatori, residenti e consoli, bisogna confessare che per questo continuo esercizio di politica, e fondandosi non su vociferazioni od apparenze ma su argomenti di fatto, penetrasse nel vero senso delle cose e sviluppandole in quel modo che giustamente conveniva fermasse per esaminarle in ciascuna sua parte l’opportuno e retto punto di vista». Infatti quegli ambasciatori, muti ma vigili personaggi, seguivano senza farsi scorgere i più tortuosi andirivieni della diplomazia, nè vi era arcano di corte o missione segreta d’inviato ch’essi non penetrassero; e perchè i moti della politica de’ gabinetti riflettono per contracolpi, l’ambasciatore in Spagna o in Germania scopriva i maneggi di Roma, e quello in Roma vedeva le pratiche che si facevano in corte di Francia o di Spagna.
Così per esempio fu dalle relazioni di Antonio Suriano ambasciatore a Roma, di cui il Pallavicino non vide che una copia informe e Frà Paolo ebbe sott’occhio gli autografi, che quest’ultimo cavò le trattazioni occulte passate a Bologna tra l’imperatore Carlo V e papa Clemente VII. Pure negli archivi trovò l’istoria scritta da Antonio Milledonne e il diario di Bernardo Ottobuon segretari dell’ambasciata veneta al Concilio, e le carte di Nicolò da Ponte e di Matteo Dandolo ambasciatori veneti al Concilio medesimo; e come frugando là entro si ebbe in mano le lettere dei cardinali veneziani Luigi Lippomano, Gian Francesco Commendone e Zaccaria Delfino, così non debbe avere ignorate quelle de’ cardinali Morone, Seripando, Borromeo che ebbero parte principalissima negli affari tridentini, e più altre collettanee di atti conciliari, controversie de’ Padri o questioni de’ dottori di cui molti codici veneti furono veduti o rammentati dal doge Foscarini. Di forma che Frà Paolo, e per essere quasi contemporaneo, e per avere conosciuto e parlato con molti fra i principali attori, e per il posto che occupava sulla scena politica, e per le moltiplici sue cognizioni e le numerose relazioni che aveva, è tale storico cui è forza credere profondamente informato dell’argomento ch’e’ prese a trattare.
Vedemmo che già da gran tempo nutriva il pensiero di fare qualche cosa sul Concilio, ma che la povertà di un frate non gli dava agio ai dispendi necessari per la sua impresa. Fatto consultore e padrone delle ricchezze istoriche occultate negli archivi della Repubblica, in corrispondenza con principi, ministri, ambasciatori, giureconsulti e dotti di quasi tutta l’Europa, oltre a quanto potè ottenere dalla officiosità degli amici che facevano a gara in compiacerlo, potè anco spendere generosamente il denaro con cui era provvisionato dal suo governo; egli stesso parlando delle spese letterarie che faceva, diceva essere pagato dalla Repubblica appunto perchè spendesse in servizio di lei. Veduta la collezione degli atti conciliari di Feiner, indi quella di Gillot, gli venne in mente nel 1608, di farne una più ampia; ma crescendogli ogni giorno per propria ed altrui diligenza i materiali in mano, pare che pensasse qualche commentario istorico-critico; e tale debbe essere stato quello spedito al Foscarini, e l’altro di cui parla nelle lettere al Groslot e di cui fa anco un cenno oscuro, chiamandolo appunto Commentario, in una al Leschassier; e tal pure debbe essere stata l’istoria del concilio tridentino portata in Inghilterra da Guglielmo Bedell nel 1611, seppure è vero che ne portasse una. Infine o per pensiero nato in lui o suggeritogli dagli amici, avendo tante cose raccolte, come egli dice, da potergli somministrare abbondante materia per una piena narrazione, fece risolvimento di ordinarla; e ciò, ripeto, non potè essere prima del 1612.
E poichè dovette essere compiuta nel 1615 quando giunse a Venezia il de Dominis, pare a prima vista difficile come un’istoria di tanta lena e che esigeva tante ricerche e serie così svariata di cognizioni potesse essere incominciata e finita nel corto spazio di tre o quattro anni; ma conviene ricordarsi che quantunque distesa in così breve giro, era nondimeno il frutto di quaranta e più anni di meditazioni. Come abbiamo veduto, Frà Paolo leggeva moltissimo, e quasi diffidasse della sua memoria, comechè prodigiosa, teneva nota di tutto. Altronde essendo egli già profondo nell’istoria ed antichità ecclesiastica, nella teologia e nella giurisprudenza canonica, dopo avere bene digesto l’argomento su cui già da sì lungo tempo meditava, e concetto il disegno dell’opera, non era più arduo ad una mente quale era la sua, di stilizzarla. Egli non faceva che deporre sulla carta le cognizioni già ricettate nell’intelletto. Tale infatti era il suo metodo: metodo cui doveva alla mirabile sua memoria e alla facoltà preziosa di saper ben concepire un argomento e dividerlo in parti. Leggendo quell’istoria, vi si trova una economia così regolare e sempre distribuita con giuste dimensioni, uno stile così conforme dal principio sino al fine, una pienezza e facilità così costante, e le cose così ben digeste che ben mostra essere stata concetta nella mente da una riflessione lunga e matura, e deposta sulla carta tutta di seguito. Nelle istorie lunghe e dettate pezzo a pezzo e dove l’autore sia obbligato a sospendere la penna per affaticarsi in ricerche sull’origine di un fatto o verificarne la natura, per quanta sia l’arte, sempre appariscono membri sconnessi, irregolarità nella narrazione, abbondanza in un luogo, aridezza in un altro e nell’ultimo stanchezza e tedio. Nulla di tanto in quella di Frà Paolo: tu la scorri dal principio al fine sempre con ugual diletto, e malgrado l’uniformità dell’argomento e le materie ispide o noiose, e l’apparente austerità dello stile, il suo libro ha luogo tra i più interessanti che siano stati mai scritti. Le materie dottrinali, le disputazioni de’ teologi, oscure, intricate, fastidiose, sono da lui sviluppate con una lucidezza, piacevolezza e brevità ammirabili; l’origine, il progresso, le vicende, o la corruttela di varie instituzioni ecclesiastiche o della disciplina, come che narrate con concisione, lasciano nulla a desiderare; i fini politici e il carattere de’ personaggi sono penetrati acutamente e con profondità; erudito in ogni cosa, quanto poteva esserlo Frà Paolo, mai fa mostra di esserlo. Non eleganza di lingua, non facondia, ma la natura parla per lui, sì che senza artifizi o ricercatezza alletta, persuade e convince. Storico e pittore, ti appresenta gli oggetti che ti pare vederli; eppure non descrizioni poetiche, non figure retoriche che ingrandiscono l’eloquenza, anzi una somma povertà persino di epiteti: tre o quattro parole nude e schiette, ma scelte a proposito, ti danno l’imagine viva di ciò che vuole presentarti. Conciso e severo come Tacito, ma di lui più chiaro e più spontaneo. La lingua italiana sotto la sua penna acquista una robustezza, una espressione, un colorito nella prosa, quale Dante l’ha nel verso. La locuzione non è classica, ma tutta nazionale, e più ritrae della maestà latina che della morbidezza toscana: l’anima repubblicana di Frà Paolo tutta si mostra nel suo modo di scrivere. A torto gli fu negata la cognizione del bel dire, ch’egli aveva appreso, come il dissi altrove, dai più robusti istorici toscani del Cinquecento; ed è facile lo scorgere come egli conoscesse l’uso e la propietà de’ vocaboli molto meglio che gli smidollati linguisti, affastellatori di parole e non di pensieri. Se non che sdegnando le pedantesche e malcerte regole a cui i grammatici toscani assoggettarono il materno idioma, egli volle ritrarlo alla natìa sua origine, applicando alla lingua italiana, fin dove era possibile, le regole generali della lingua latina; quindi molte maniere sue che sembrano dure o insolite, sono maniere latine italianizzate. Nella scelta dei vocaboli dei modi segue quella lingua italiana universale cui Dante chiamava lingua cortigianesca; ma dove ivi non ne trova che si conformino alle sue idee, ricorre ai dialetti parziali, e specialmente al veneziano e lombardo, talchè potrebbe egli arricchire il vocabolario di non poche espressioni molto più degne di essere imitate che non le sdolcinature di certi scrittori che pure sono citati a testo di lingua. Se come Dante creò la lingua italiana, così Frà Paolo avesse dovuta perfezionarla, non certo avrebbe acquistato quella donnesca leggiadria e quella fluidità musicale che le impressero Petrarca e Boccaccio, ma sarebbe riuscito il più maschio idioma fra i moderni. È vero che una lingua porta seco il carattere del popolo che la parla. Lingua da comando fu la romana sintanto che i Romani vollero comandare; ma decadde e si avvilì all’avvenante che essi pure si avvilirono; e così pure la lingua italiana variò d’indole e di energia, secondo l’indole dei tempi o l’energia degli scrittori. Lo stile è l’uomo, disse Buffon.
Io distinguo la locuzione o dicitura dallo stile: la prima riguarda le parole e il modo di disporle, l’altro il pensiero e il modo di vestirlo colle parole; talchè bella locuzione non è punto sinonimo di bello stile potendo benissimo taluno conoscere perfettamente la grammatica e le eleganze più ricercate ed essere in pari tempo uno scrittore stucchevole; ed altro mancare di quelle cognizioni, e contuttociò sapere esprimere squisitamente i suoi pensieri, e farsi piacere persino colla stessa sua indisciplina grammaticale. I Francesi ne hanno un esempio nell’amenissimo loro Montaigne, che con quel suo linguaggio tra guascone, latino, italiano e spagnuolo, procedendo da una natura spontanea ha l’arte di affascinare chi legge e diletta colla stessa barbarie; e gli Italiani lo hanno in Frà Paolo. Fa maraviglia come il suo antagonista Pallavicino, con tutta la sua squisitezza ed eleganza toscana, riesca a far sbadigliare e fastidire il lettore sì che pochi sono donati della cappuccinesca pazienza per leggere quel suo libro senza noiarsi; laddove quello di Frà Paolo, comechè in apparenza sterile, sfrondato, ignudo di ogni benchè modesta pompa, e talvolta ribelle a tutte le grazie del dire, incanta sì dal principiò al fine che incresce quantunque volte sia forza interromperne la lettura. Ciò proviene che il primo, tutto intento alle parole, manca nell’arte principalissima di sapere esprimere con chiarezza e semplicità e con quella forma che è più naturale i propri concetti. Affogandoli in un labirinto affettato e mal scelto di parole, quante più ne spende per farsi capire altrettanto diventa imbarazzato e noioso. Ma quell’arte è così eminente in Frà Paolo, che pochi lo pareggiano nel dare a’ suoi pensieri quella forma che più gli piace, e sembra che la da lui scelta sia la migliore, la più naturale, e quella che il lettore istesso avrebbe preferito. Tutto lo studio di Frà Paolo è rivolto a spiegarsi nettamente e con brevità. Afferrando ed esprimendo con maestria le idee principali, lascia al lettore la soddisfazione di dedurre le subalterne; e così lo obbliga, senza che se ne avveda, a pensare; sa fissarne l’attenzione ove più gli piace, o divagarlo con distrazioni opportune ove possa nascere fastidio, e la monotonia di una gravità continua è a volta a volta interrotta da laconismi frizzanti, tanto più notabili in quanto che escono all’improvviso e fanno una specie di piacevole sorpresa. Le sue riflessioni sono brevi e derivate dalla conseguenza naturale dei fatti; concise e nondimeno profonde le sue sentenze.
Tanta perfezione di stile non è però stata senza fatica; ma come i versi dell’Ariosto che sembrano così facili, e costarono all’autore una lunga lima, così le cancellature e i pentimenti di Frà Paolo che ancora si osservano nel suo autografo, e le varianti che passano tra esse e le edizioni stampate, sono prova quanta diligenza ponesse egli a castigare lo stile e la locuzione e con quanto raffinamento procedesse a limare il suo lavoro, a togliervi tutte le parole inutili, a rotondare la sua frase e renderla più breve ed espressiva, a scegliere i modi più idonei a dar forza al concetto; e infine si può avere un’idea della sua cognizione e buon gusto anco nella lingua italiana, dalle moltissime e minuziosissime emende grammaticali fatte sulle forme e i modi di dire, cancellando le più comuni per sostituirne altre più eleganti, ed avvicinare la locuzione a quella de’ più forbiti scrittori. Ma il suo pregio maggiore si è di avere saputo occultare agli altri la fatica che spese, sì che, come dice il poeta,
L’arte che tutto fa nulla si scopre.
Comechè il soggetto sia arido, Frà Paolo ha saputo renderlo vario e dilettevole. Con rara facilità, e senza mai perdere di vista il filo principale, egli ci trasporta dalle gravi discussioni teologiche del concilio agli avvenimenti della guerra, o dai maneggi politici ai rivolgimenti degli Stati: i desideri dei popoli, gli umori dei principi, i fini delle corti, gl’intrighi diplomatici, insomma tutta la compagine di azioni e passioni de’ grandi e piccioli, dei corpi ed individui, onde era agitata l’Europa, sono da lui tratteggiate con pennellate vigorose e maestrevoli. Gli abusi che opprimevano i popoli non sono descritti con declamazioni retoriche, ma facendo parlare quasi ad un processo dinanzi a’ giudici gli aggravati e gli aggravanti, e producendo ciascuno le prove di accusa o difesa. E perchè il lettore possa essere meglio al fatto e pronunciare un più sicuro giudizio sulle cose seguenti, ed anco a sollevarlo dal tedio di accidenti uniformi, l’autore si ferma di quando in quando con digressioni istoriche dove narra l’origine e il progresso di certe instituzioni, determina le epoche de’ loro mutamenti e le ragioni onde si alterarono e corruppero; ed è in questi compendi dove meravigliosamente spicca la vasta erudizione e l’ingegno del Sarpi, sapendo egli raccogliere in poche pagine ciò che altri appena saprebbe esporre in ampio volume. L’arte di dir molto in poco è da tutti lodata, da pochi possieduta, perocchè esige un assoluto predominio della materia, un esercizio continuo della mente, facilità di astrarre le idee e di saper colpire l’oggetto sotto quel punto di vista che è precisamente l’essenziale. Ma Frà Paolo avvezzo sino dalla infanzia alle scienze di calcolo che somministrano la logica più severa e più giusta, ricca la memoria di quanto possono insegnare i libri e la pratica, uomo di Stato, politico, erudito, filosofo, aveva tutte le qualità necessarie per scrivere una storia di così complicato genere come è quella del concilio di Trento. Ond’è che muteranno forse coi secoli le opinioni, ma finchè gli uomini avranno gusto per ciò che è bello e profondo, sempre sarà tenuta in pregio l’opera di Frà Paolo. Voglio però far osservare che l’ultimo libro non porta quel grado di finimento che si ravvisa negli altri sette, e sembra nemmanco terminato, accennandosi nel corpo di esso alcuni fatti che dovrebbono seguire e di cui non si trova indizio. Ignoro se lo stesso difetto esista nel codice autografo.
Ora mi resta a dire quali motivi possono avere indotto il Consultore a scrivere quell’Istoria. Dal momento in cui si trovò in opposizione diretta colla Curia romana, egli procede grado grado a stabilire un piano regolare di guerra. Prima fu di spuntare quelle armi spirituali che avevano per tanto tempo resi formidabili i pontefici: dopo l’interdetto, le scomuniche perdettero assai del loro prestigio. In pari tempo restituì alla potestà civile il diritto d’intervenire nella amministrazione dei così detti beni ecclesiastici, e di dare il suo assenso alle fondazioni pie, e di assoggettare alle comuni leggi le persone della Chiesa. Fu un passo importantissimo su quello che chiamavano privilegi ed immunità ecclesiastiche.
L’Inquisizione dava alla corte di Roma una autorità per così dire assoluta in tutti quei paesi dove aveva potuto stabilirla; e i frati col mezzo della confessione e colle scaltrezze loro proprie signoreggiavano e dirigevano a modo loro le coscienze, e all’esame degli Inquisitori dovendo essere portati tutti i libri prima di vedere la luce, potevano essi coll’ignoranza influire eminentemente sullo spirito dei popoli e illuderli con que’ principii che a loro soli giovavano. La Curia infatti col mezzo del Sant’Offizio intimidiva gli scrittori, paralizzava il genio, e vietava la circolazione di ogni idea che non conferisse a’ suoi fini: per esso impedì che in Italia si scrivesse contro gli annali del Baronio, uno fra gli antesignani delle esorbitanze papali; per esso sequestrò ed arse infiniti libri, in cui quelle esorbitanze erano impugnate; per esso altri libri di autori d’intemerata fama furono adulterati nei luoghi non favorevoli a Roma, ritirati gli esemplari genuini e sparsi a vece i manomessi; per esso caddero le officine tipografiche già così illustri in Italia, l’arte libraria venne meno, e si guastò il buon gusto nelle lettere; per esso infine fu istituito quel monopolio intellettuale per cui le scienze, le arti, l’industria, le accademie, le università dell’Italia si risentirono in quel secolo di tutta la meschina influenza fratesca. Ma Frà Paolo volle liberarne la sua patria, e a lui si deve se l’Inquisizione trovò ostacoli nelle sue usurpazioni, e se il commercio librario nello Stato Veneto si mantenne tuttavia in fiore e contribuì ai progressi della civiltà.
L’arbitrio che si arrogava la Corte nella collazione dei beneficii ecclesiastici, oltrechè le fruttava un’immensa ricchezza, era cagione che i beneficiati si mostrassero più teneri del papato che della patria; e Roma aveva perciò mezzi potenti per ricompensare i fedeli, tenere in riga i vacillanti e castigare gli avversi. Frà Paolo concepì il gran disegno di togliere di mano a’ pontefici questo importante sussidio: non riuscì pel suo tempo, ma giovò a’ posteri.
Egli era solito dire che Scipione volendo vincere Annibale lo andò ad assalire in casa propria; traendone la conseguenza che per domare l’imperio papale bisognava attaccarlo alle radici della sua potenza. Nel sistema del cattolicismo romano di quei tempi, i papi si erano assunta una potestà politico-religiosa, che, sotto pretesto d’interessi della Chiesa, s’ingeriva, dove in più dove in meno ma sempre scaltra e invadente, nella amministrazione interiore degli Stati cattolici. Questa potestà che troppo spesso riusciva molesta, a cui i papi davano una origine divina o per lo meno rimota, era ciò non pertanto recentissima, nata dagli errori de’ popoli e dalla debolezza dei governi e ridotta ad un dogmatismo di fede dal concilio di Trento. Benchè fosse costume antico, pubblicando i canoni de’ sinodi, di aggiugervi anco gli atti, o vogliam dire i documenti istorici e le discussioni de’ Padri; per quello di Trento i pontefici romani erano interessati, troppo più che non avrebbono voluto far credere, a nasconderli al mondo, ed usarono ogni arte per farne sparire fino le ultime tracce. Adoperando lo zelo della Inquisizione e de’ gesuiti, distrussero quante memorie inedite caddero loro nelle mani, e incettarono quelle a stampa e persino le uscite in paese cattolico con approvazione del concilio medesimo o de’ superiori ecclesiastici; a tal che non ancora decorso un mezzo secolo i canoni e decreti di quella portentosa adunanza, senza origine, senza istoria, avviluppati di un religioso mistero, preceduti dagli epiteti reverendi di sacri e santi, venivano appresentati a’ cristiani come le tavole della legge scritte sul Sinai dalla mano di Dio, e assai più autorevoli dell’Evangelio. E perchè nissuno potesse interpretarne i luoghi equivoci e contraditorii in senso non favorevole agli interessi romani, «papa Pio IV, scriveva il Consultore, proibì a ciascuno d’interpretarli, e riservò quest’ufficio ad una apposita Congregazione; ed essa Congregazione con quel pretesto trasse tutto il reggimento ecclesiastico a Roma, non solo d’Italia, ma di Spagna; di forma che un vescovo non può neppure ammettere alla professione una monaca senza averne licenza da Roma. Aggiunto che la dichiarazione fatta in un dato caso non vogliono che sia applicata ad un caso identico, affine di recuperare tutti gli affari in mano loro».
Se adunque il concilio tridentino era il cardine della potenza romana, e il magico prestigio con cui aveva saputo di nuovo incatenare le opinioni che già cominciavano a vacillare in suo sfavore, a compiere il suo sistema di opposizione conveniva al Consultore di dare un’istoria altrettanto veritiera quanto circostanziata e profonda di esso concilio: bene apponendosi che ove fossero conosciuti gli intrighi della Curia per conservare od accrescere la sua potenza, i motivi subdoli opposti alla riforma degli abusi, l’incertezza de’ teologi nel discutere le materie dottrinali, le decisioni inopportune o mal digeste o contradditorie, le scandalose discordie de’ Padri, i maneggi, gli artifizi, le astuzie, le violenze, la niuna libertà da una parte, le querele e la resistenza dall’altra, i partiti di mezzo o i sotterfugi usati per cansare o vincere le difficoltà, era certo che quella sinodo doveva perdere assai della pretesa sua celeste origine. «Questo concilio, dice ancora Frà Paolo, desiderato dagli uomini pii per riunire la Chiesa che cominciava a dividersi, ha così stabilito lo scisma e ostinate le parti che ha fatte le discordie irreconciliabili; e maneggiato dai principi per riforma dell’ordine ecclesiastico, ha causato la maggior disformazione che sia mai stata da che il nome cristiano si ode, e dalli vescovi adoperato per racquistar l’autorità episcopale, passata in gran parte nel solo pontefice romano, l’ha fatta loro perdere tutta intieramente, ed interessati loro stessi nella propria servitù. Ma temuto e sfuggito dalla corte di Roma, come mezzo efficace per moderare la esorbitante potenza, dai piccioli principii pervenuta con varii progressi ad un’eccesso illimitato, gliel’ha talmente stabilita e confermata sopra la parte restatale soggetta, che non fu mai tanta, nè così ben radicata». Le quali verità primordiali sono poi abbondevolmente dimostrate da’ fatti; e si legga l’Istoria di Frà Paolo o quella del suo avversario, sempre risulta che i Padri di Trento col ridurre a forma dogmatica alcuni principii incerti o disputabili, e su cui gli stessi teologi tridentini non erano bene di accordo, anzichè conciliare i dispareri surti fra cristiani stabilirono una linea di perpetua separazione fra i papali e i dissidenti; che invece di riformare gli abusi introdotti nell’ordine ecclesiastico, hanno deformato il governo della Chiesa assoggettandola a leggi sconosciute a tutta l’antichità; e se il Concilio emendò alcuni abusi, altri e in maggior numero ne sancì, i quali se dapprima erano considerati come abusi, furono poi come usanze legittime giustificati. Perocchè l’autorità dei vescovi già scemata per le usurpazioni pontificie, fu intieramente subissata dai decreti di quella sinodo: la quale convertendo le usurpazioni in diritti, e riducendo l’episcopato nel solo papa, trasformò i vescovi di liberi direttori delle loro chiese in delegati della Santa Sede. E infine nel maneggio del concilio di Trento la corte romana non ebbe tanto a cuore gl’interessi della Chiesa e la riunione del popolo cristiano quanto la conservazione delle sue ricchezze e la esaltazione della propria grandezza. Dalle quali cose risultava che la sinodo tridentina, forza nuova e nuovo arcano del papato, era una statuizione umana, diretta a fini umani, e per molti lati viziosa alle società politiche.