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266 capo xxvii.

i fini politici e il carattere de’ personaggi sono penetrati acutamente e con profondità; erudito in ogni cosa, quanto poteva esserlo Frà Paolo, mai fa mostra di esserlo. Non eleganza di lingua, non facondia, ma la natura parla per lui, sì che senza artifizi o ricercatezza alletta, persuade e convince. Storico e pittore, ti appresenta gli oggetti che ti pare vederli; eppure non descrizioni poetiche, non figure retoriche che ingrandiscono l’eloquenza, anzi una somma povertà persino di epiteti: tre o quattro parole nude e schiette, ma scelte a proposito, ti danno l’imagine viva di ciò che vuole presentarti. Conciso e severo come Tacito, ma di lui più chiaro e più spontaneo. La lingua italiana sotto la sua penna acquista una robustezza, una espressione, un colorito nella prosa, quale Dante l’ha nel verso. La locuzione non è classica, ma tutta nazionale, e più ritrae della maestà latina che della morbidezza toscana: l’anima repubblicana di Frà Paolo tutta si mostra nel suo modo di scrivere. A torto gli fu negata la cognizione del bel dire, ch’egli aveva appreso, come il dissi altrove, dai più robusti istorici toscani del Cinquecento; ed è facile lo scorgere come egli conoscesse l’uso e la propietà de’ vocaboli molto meglio che gli smidollati linguisti, affastellatori di parole e non di pensieri. Se non che sdegnando le pedantesche e malcerte regole a cui i grammatici toscani assoggettarono il materno idioma, egli volle ritrarlo alla natìa sua origine, applicando alla lingua italiana, fin dove era possibile, le regole generali della lingua latina; quindi molte maniere sue che sembrano dure o insolite, sono