Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. II/Capo XXVI

Capo XXVI.

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CAPO VIGESIMOSESTO.


L’anno 1619 apparve colle stampe di Londra un libro scritto in lingua italiana, che per la fama di chi n’era l’editore, e per la dignità di quelli cui era dedicato, e pel misterioso velo in cui l’autore si nascondeva, e infine per la novità dell’argomento e lo stile austero, sobrio e profondo, eccitò una curiosità generale e segnò un’epoca nei fasti della letteratura; a tal che l’anno appresso ne apparvero quasi contemporaneamente quattro traduzioni, una in latino, una in francese, una in tedesco ed una in inglese. Il suo titolo era: Istoria del Concilio Tridentino nella quale si scoprono tutti gli artifizi della corte di Roma per impedire che nè la verità dei dogmi si palesasse, nè la riforma del papato e della Chiesa si trattasse, di Pietro Soave Polano. L’Editore era Marco Antonio de Dominis già arcivescovo di Spalatro, e dedicata da lui a Giacopo re d’Inghilterra. Il nome dell’autore si vedeva che era fittizio, ma nella dedicatoria il de Dominis lo indicava persona da lui conosciuta in Italia «di molta erudizione, di gran giudizio e integrità e di rettissima intenzione. E sebbene non udiva volontieri le soverchie depressioni della Chiesa romana, nondimeno abborriva anco quelli che gli abusi di essa come sante instituzioni difendessero. Questa sua fatica (aggiungeva), a me e a pochissimi di [p. 239 modifica]lui molto confidenti nota, reputai io degna di essere guidata alla luce, onde mi affaticai non poco per cavargliene copia dalle mani; e avuta questa preziosa gioia, da lui poco stimata, non ho giudicato doversi ella più tenere occulta quantunque io non sappia quello fosse per sentire esso autore, o come avesse ad interpretare questa mia risoluzione di pubblicarla».

Prima di andare avanti conviene ch’io dica per quali avventure il de Dominis, che i lettori hanno già veduto figurare come vescovo di Segna, fosse pervenuto in Inghilterra.

Nato in Arbe, isola della Dalmazia veneta, da nobili parenti, Marc’Antonio de Dominis fu educato a Loreto nel Collegio Illirico diretto dai gesuiti, di cui vestì l’abito. Ma si sgesuitò per seguire la carriera delle dignità ecclesiastiche e fu vescovo di Segna, poi arcivescovo di Spalatro. Perspicacissimo, di molta erudizione, di varia letteratura, perito nelle lingue, nella matematica e nella fisica, autore di un trattato in cui spiegava il fenomeno dell’iride e provava molte cognizioni di ottica, versatissimo nelle scienze ecclesiastiche, era altresì cortese, affabile, sincero, di bei modi, ma in pari tempo ambizioso, vanaglorioso, leggiero e inquieto. Di onesti costumi e zelante, si era fatto distinguere a Segna per le sue cure onde stabilire la quiete turbata dagli Uscocchi; poi nell’arcivescovato di Spalatro introdusse una severa disciplina che gli meritò l’ira del licenzioso suo clero, che lo accusò di parteggiare pei protestanti, accusa che a Roma manca di rado il suo effetto, molto più che vigevano altri [p. 240 modifica]aggravi in danno dell’arcivescovo. Durante l’interdetto fu tra i prelati che si chiarirono per la Repubblica, e quantunque nulla scrivesse, parlò con tanta libertà che spiacque a Roma e gli fu preclusa la via a più alto salire. Le querele del suo clero fomentando i risentimenti della Corte, e’ venne ad aperta rottura con entrambi; talchè temendo un processo col Sant’Offizio passò a Venezia nel 1615, vi rimase circa un anno, indi scomparve all’improvviso. Andò nei Grigioni, e da Coira scrisse al doge scusando i motivi della subitanea sua partenza, e poco appresso da Eidelberga in Germania pubblicò a stampa un’epistola a’ vescovi della Chiesa cristiana, dove giustificava i motivi di avere abbandonata la sua sede e prometteva che fra poco avrebbe dato a luce altre opere nell’interesse della Chiesa. A’ principii del 1617 arrivò a Londra, ed ivi fece pubblica professione di calvinismo; e per maggior dispregio della corte di Roma, abiurò la fede cattolica nella cattedrale di San Paolo vestito degli abiti episcopali e parodiando le formalità che in simili congiunture si usano a Roma. Quasi in quel torno pubblicò il suo libro De Repubblica Cristiana, dove con scelta e giudiciosa erudizione svolge il sistema antico del governo ecclesiastico: libro stimato dai dotti e fulminato dalla Sacra Congregazione dell’Indice.

In tempi ancora fanatici questa apostasia, congiunta alla qualità dell’uomo, fece molto fracasso in Europa e contribuì sui diversi giudizi portati in seguito alla prefata Istoria del Concilio Tridentino. [p. 241 modifica]

Un libro di questa natura e pubblicato colle circostanze che ho detto non doveva mancare di molti lettori fra le persone di qualunque partito. Il concilio di Trento terminato coll’anno 1563 era dalla Curia romana considerato come la pietra angolare della sua nuova esistenza. Ma ella meglio di ogni altri sapendo quanta fatica le fosse costato, e quanti intrighi e tesori, ne occultava colla più gelosa sollecitudine gli atti e i documenti istorici, e lo presentava ai popoli puro e semplice ne’ suoi canoni e decreti come una legge infallibile o un mistero di religione cui bisogna riverire, ma non indagare. Le controversie surte in Francia per rispetto alla accettazione di esso avevano risvegliato lo zelo di alcuni giureconsulti; tra i quali Giacomo Gillot, amicò del Sarpi, pubblicò una collezione di documenti relativi all’istoria di quel concilio, aumentata molti anni dopo dai fratelli Dupuy; ma erano pezzi di interesse locale e troppo scuciti per poter appagare la curiosità dei lettori, massime dei protestanti avidissimi sopramodo di penetrare i secreti di quella sinodo a loro nemica. Esistevano qua e colà negli archivi e biblioteche private non poche memorie, e lettere e diari di persone che furono testimoni oculari, ma i gesuiti furono così diligenti a farne sparire le copie ovunque le trovassero, o l’Inquisizione a impedire che fossero pubblicate, che il concilio tridentino, avvenimento di fresca data, era per gli uomini di quel tempo un arcano diplomatico come può esserlo a’ dì nostri uno fra i tanti oscuri congressi che a flagello dei popoli sono tenuti dai principi; abbenchè importasse un altissimo interesse per [p. 242 modifica]avere deciso uno de’ più gravi negozi della società, la sua religione. I cattolici, docili agli insegnamenti dei frati, non si curavano gran cosa di sapere come fosse andata la faccenda, persuasissimi che doveva essere andata bene posciachè favoriva tutto quello ch’e’ credevano; ma i protestanti che ne erano stati condannati, e che formavano una minorità imponente nella famiglia europea, erano vogliosissimi di colpire quella sinodo in fallo onde poter mostrare al mondo che non era legittima. Per tradizione si sapevano le opposizioni incontrate da una parte, le brighe fatte dall’altra, le contradizioni dei teologi, i raggiri de’ diplomatici, e gli scandali più d’uno che n’erano derivati; ma erano particolarità incerte, voci vaghe, sfornite di appoggio e dei documenti irrefragabili dell’istoria. La stampa in Germania aveva prodotti alcuni episodi, come gli atti raccolti da Melantone, da Calvino, da Vergerio, da Flacco Illirico, e alcuni anco uscirono coi torchi di Venezia; ma oltrechè gli inquisitori se ne erano tosto impadroniti e fattene scarseggiare le copie, non versavano che sopra fatti isolati, per lo più superficiali, che anco a riunirli tutti insieme erano ben lungi di presentare un pieno racconto di quel famoso avvenimento. Nè meglio soddisfaceva un’istoria del concilio di Trento, di Crabre, pubblicata a Parigi nel 1612.

Fu dunque fra tali ansietà che Marco Antonio de Dominis pubblicava quella Istoria del concilio Tridentino; e la moltitudine delle edizioni fatte nel corso di dieci anni, cioè due in lingua italiana, quattro o cinque in latino, una in francese, una [p. 243 modifica]in inglese, ed una in tedesco provano l’avidità con cui fu letta e l’entusiasmo che aveva destato. Tutti ammiravano la gravità dello stile, l’esatta economia del disegno, la pienezza e l’ordine de’ racconti, l’acutezza nello indagare i più secreti pensieri dei principi, e l’erudizione singolare nello svolgere le materie di dogma o di disciplina; indi spiaceva che un libro così eccellente fosse stato pubblicato da persona tanto esosa al partito cattolico, e deturpato da un titolo troppo indecente e da una dedicatoria satirica e spirante livore contro la Sede romana e offensiva alla comunione cattolica. Alcuni ne credettero autore lo stesso de Dominis, ma i più s’accorsero benissimo che non poteva essere suo lavoro; e che quel prelato vanaglorioso, che aveva già apposto il suo nome ad altre opere di minor conto, non avrebbe voluto osservare il pseudonimo in questa, e si voltarono verso l’Italia curiosando qual uomo potesse esserne capace, nè andò molto che la fama ne fece onore a Frà Paolo. I suoi numerosi amici oltremonte sapevano come egli già da più anni si affaticasse a raccoglier materiali sopra l’istoria del Tridentino; ed era vezzo di quei tempi di nascondere il proprio nome sfigurandolo con un anagramma, quindi i curiosi bibliofili molta pena si davano per indovinare cotesti anagrammi e cavarne il nome vero dell’autore: e o che il de Dominis l’avesse manifestato ad alcuno, cosa assai probabile; o che il Sarpi si fosse lagnato con qualche altro della imprudenza di lui e massime per rispetto al titolo ed alla dedica, il che si potrebbe sostenere per assai verosimili congetture; o infine che la fama istessa [p. 244 modifica]del Sarpi lo facesse riguardare come il solo atto a lavoro di tanto momento: fatto è che non andò guari a scoprirsi che il pseudonimo Pietro Soave Polano era niente altro che l’anagramma di Paolo Sarpi Veneto. La corte di Roma restò sbalordita a colpo così nuovo e terribile, e in mancanza di altro riparo, fece staggire dall’Inquisizione quanti esemplari le cadevano in mano, e metter l’opera all’Indice de’ libri proibiti con decreto del 22 novembre 1619.

Fu molta controversia tra i letterati se Frà Paolo abbia avuto mano alla stampa del suo libro, o se sia stata eseguita alla sua insaputa e per un abuso di confidenza dal de Dominis. Una lettera fra quelle di Traiano Boccalini pubblicate da Gregorio Leti (la terza) afferma pel primo parere, e molti aderirono alla testimonianza di un contemporaneo ed amico del Sarpi. Ma a patto niuno quella lettera può essere del Boccalini, perchè contiene un minuto ragguaglio della vita e costumi del de Dominis, della sua fuga in Inghilterra, del suo ritorno a Roma e della sua morte: de Dominis passò in Inghilterra nel 1617 e morì a Roma nel 1624, laddove il Boccalini era già morto in Venezia nel 1613. Non può essere neppure di persona bene informata e contemporanea, perchè quella vita dello Spalatro è un pretto romanzo, e un romanzo, siccome io credo, tutto d’invenzione di Gregorio Leti scritto al proposito di stafilare i costumi della corte di Roma, senza farsi scrupolo delle falsità e degli anacronismi. [p. 245 modifica]

Per converso il Grisellini ci ha conservato altra lettera di Frà Fulgenzio che reciterò fra poco, da cui si ricava tutto l’opposto; il che è conforme appieno ad altre lettere di Frà Paolo e con ciò che dice lo stesso de Dominis: ecco il vero come sta. Convien sapere che lo Spalatro ebbe alcune contese con Greci sudditi della Turchia, ma che dimoravano sul territorio veneto, i quali pretendeva di assoggettare alle pratiche disciplinari della sua diocesi. La causa portata al governo, fu rimessa per la consulta a Frà Paolo che la decise in contrario. Da qui, e dalla parte che aveva preso l’arcivescovo nell’affare dell’interdetto, appare che esso e il Consultore si conoscessero almeno per relazione epistolare. Venuto poi l’arcivescovo a Venezia nel 1615, gli si fece amico ed intrinseco al segno che il frate gli confidò la sua storia per leggerla e darne giudizio. Ma lo Spalatro, che probabilmente pensava già a disertare la comunione romana, si adoperò con diligenza a cavarne una copia che portò seco nella sua fuga. Di ciò fu affatto ignaro il Sarpi, e quando apparve il manifesto del de Dominis stampato ad Eidelberga, esso mandandolo al consigliere Gillot con una lettera in data del 24 novembre 1616 usa queste parole: «Ti mando il manifesto del prelato che io stimava dotto e pio, e se avrò ancora la medesima opinione, non lo so, finché non veggo dove sia per giungere e che contengono di buono o di male i libri che promette. Intanto a Roma hanno condannato tutte le sue opere stampate e da stamparsi colla clausola a loro solita di eretiche, erronee, scandalose, offensive alle orecchie [p. 246 modifica]pie rispettivamente. Questo suo Manifesto fece egli stampare ad Eildelberga; ma che sia dopo accaduto di lui, mi è ignoto». Udito poi della sua apostasia in Londra la disapprovò, e in seguito si recò ad offesa personale perchè lo avesse quasi mescolato in quella causa stampando alla sua insaputa l’istoria del Tridentino; e molto più per avervi apposta una dedica scandalosa, ed un titolo oltre quello che era nell’originale Istoria del Concilio Tridentino semplicissimo, per il che gli fece scrivere da Frà Fulgenzio agli 11 novembre 1619 la seguente:

«Reverendissimo Signore

«Io do a V.S. Reverendissima questo titolo, poichè sebbene si è messo nel numero de’ protestanti, però sempre le resta nell’anima il carattere sacerdotale ed episcopale, di cui non temè voler ispogliarsene. Il mio Padre Maestro Paolo molto si lagna di tal eccesso, e moltissimo pure che avendo a V.S.R. prestato da leggere il suo MS. dell’istoria del Concilio Tridentino che guardava con tanta gelosia ne abbia tirata di essa una copia e siasene abusato non solo facendola stampare senza di lui beneplacito, ma ponendole anco quel titolo impropriissimo e quella dedica terribile e scandalosa; e ciò, come siamo bene informati, per motivo d’interesse, non già di onorare l’autore modesto. Le dico pertanto, Monsignore, che queste non sono le vie per acquistarsi credito; e che il P.M. Paolo ed io non la credevamo tale nè meno nel momento che circa due anni fa venne intesa la diserzione sua dalla chiesa di Spalatro da lei governata, e fu letto [p. 247 modifica]successivamente il manifesto che sparse per l’Europa della sua condotta ed erronea maniera di pensare. Pregando poi il Signore che la illumini, mi dichiaro ecc.»

Questa lettera porta tutti i caratteri di autenticità: in primo luogo per la semplicità della locuzione e dei modi, poi perchè la minuta originale di Frà Fulgenzio fu veduta dal cavaliere Trifone Wrachien consultore di Stato della repubblica veneta che la comunicò al Grisellini, e altra copia ve n’ha pure, benchè con qualche variazione, fra le carte del doge Foscarini; infine si accorda a punto con quanto Frà Paolo scriveva al Gillot, e con ciò che ne dice lo stesso de Dominis nella sua epistola dedicatoria: cioè che l’autore conservava gelosamente quell’opera e non la faceva vedere che a’ suoi più fidati amici, che a fatica era riuscito a cavargliene copia, che non sapeva come esso fosse per interpretare la sua risoluzione di darla a luce; aggiungendo che l’autore medesimo la destinava probabilmente a perire, e che ei la presentava al re come un Mosè salvato dalle acque. Tutte queste espressioni che sembrano promosse dallo Spalatro a bel proposito di scusarsi col Sarpi, nelle cui mani sarebbe indubitatamente caduta l’opera, indicano apertamente che il Sarpi non ebbe alcuna parte nella stampa del suo libro.

Ciò nondimeno noi dobbiamo sapere buon grado al de Dominis di questo abuso di confidenza, senza di cui non avremmo forse l’Istoria del Concilio Tridentino. Nè quel prelato si limitò all’uffizio di editore, che si assunse quello ancora di traduttore. [p. 248 modifica]Essendo a quei tempi poco diffusa la lingua italiana, a rendere il libro di un uso generale Adamo Newton ne imprese la versione latina; ma poco fondato nell’idioma originale, e non bene intendendo quello stile serrato e laconico e a volta a volta vestito d’idiotismi veneziani, il suo lavoro riuscì difettoso e si fermò ai due primi libri; i quattro seguenti è fama che siano stati tradotti dal de Dominis, e infatti la versione è più netta e fedele, e mostra nell’autore molta pratica della lingua italiana; i due ultimi il furono da Guglielmo Bedell. Natanaele Brent che aveva conosciuto Frà Paolo a Venezia, la trasdusse in inglese; il celebre Giovanni Diodati, ministro di Ginevra, la voltò in francese; ed un anonimo in tedesco. È mirabile che tutte queste versioni fossero imprese ed eseguite contemporaneamente e tutte uscissero a stampa nel 1620.

La corte di Roma non fu certamente l’ultima a sapere chi ne fosse il vero autore, ma Paolo V non si sentiva più voglia d’impicciarsi in molestie con un frate tanto caparbio e formidabile; molto più che il nome anagrammatico e il silenzio di esso lui non lasciavano via di poterlo attaccare, e temeva ancora che ove lo obbligassero a giustificare il suo libro non fosse per rivelar cose ancora più pericolose al decoro della Curia e al credito di santità del Concilio. Quindi il Santo Padre si contentò di querelarsene indirettamente coll’ambasciatore veneto dicendo, che il Consultore teneva strette relazioni col refrattario arcivescovo; ma l’ambasciatore negò il fatto e tagliò così ogni ulteriore questione. Maggior scalpore suscitarono i gesuiti in Francia, e [p. 249 modifica]fecero un gran dimenare per venire in chiaro se Frà Paolo fosse veramente l’autore del famoso libro, e mossero il principe di Condè a parlarne in corte come di cosa indubitata; di forma che l’ambasciatore veneto a quella corte fu obbligato a scriverne al Senato, che per altro non ne fece alcuna rimostranza.

Le congetture immaginate allora dagli uni e dagli altri, e ciascuno nel modo più conforme alle sue passioni, intorno alla stampa di quest’opera, e al suo autore ed editore, e il curioso mistero che la inviluppava, diedero luogo alle numerose istorielle onde poi furono imbottiti i libelli contro il Consultore, e le mal digeste biografie di lui.

La citata lettera attribuita al Boccalini narra a dilungo gli accordi tra il Sarpi e il de Dominis per la futura stampa dell’Istoria, cita il carteggio passato fra loro e come l’arcivescovo si ebbe in dono dal re 300 giacobi d’oro equivalenti dipresso ad altrettante ghinee, e che il Sarpi sì per l’aggiunta apposta al titolo e per la impertinente dedicatoria, come per non avere percepito parte di quel denaro, la ruppe con lui. Altri raccontano che Guglielmo Bedell prima, Natanaele Brent poi, ne portassero copia a penna in Inghilterra; altri che Frà Paolo ne spedisse i fogli al re Giacomo mano mano che gli componeva, e infinite altre assurdità e contradizioni che la narrativa qui sopra esposta mi dispensa dal confutare.

Quello che megio può interessare è di sapere se come il de Dominis fece una pessima aggiunta al titolo, così abbia ancora adulterato il corpo [p. 250 modifica]dell’opera. Il Padre Bergantini, provinciale de’ Serviti, lo suppose con ingegnosissime congetture; ma essendosi scoperto l’autografo di Frà Paolo, scritto da Frà Franzano suo amanuense e postillato di mano dell’autore, il doge Foscarini che lo vide e lo confrontò colla edizione di Londra trovò che tranne il titolo, che nel MS. sta puro e semplice Istoria del Concilio Tridentino, in tutto il resto cammina onninamente d’accordo. A questa sentenza non si acquetò il Grisellini, che essendo ricorso a nuovo esame ci dice che le interpolazioni fattevi dal de Dominis, massime nel primo libro, sono innumerevoli; e che non vi è luogo di tutta l’opera dov’egli non abbia posto l’ardita e temeraria mano. Eppure questa affermativa è pienamente contraria alla lettera di Frà Fulgenzio scritta al de Dominis e prodotta dal Grisellini, dove si vede che Frà Paolo bene si lagnava della aggiunta al titolo e della dedicatoria, ma non fa parola alcune di adulterazioni nel testo.

Ora quell’autografo si trova nella Biblioteca di San Marco a Venezia, e il chiarissimo signor Bartolomeo Gamba che n’è conservatore, noto per fatiche letterarie, sana critica e buon gusto, ha avuto la cortesia di assumersi la noiosa impresa di fare un nuovo confronto tra quello e le edizioni a stampa; e ha spinto lo scrupolo fino a notare le più minute e più insignificanti variazioni nella ortografia delle parole. Avendomi tramesso il risultato delle sue indagini, rilevo che il de Dominis ha stampato fedelmente il suo testo: le varianti tra esso e lo scritto non essendo che pentimenti dell’autore, una [p. 251 modifica]parola sostituita ad altra analoga, una frase ad altra frase, senza che importi danno al sentimento.

Lo sbaglio del Grisellini poi derivò dalla sua fretta, o meglio dalla sua imperizia nello esaminar MSS. Quell’autografo è di un cattivo carattere, in parte sbiadato dal tempo, pieno di cancellature e di richiami. Grisellini non badò a questi ultimi, o non ebbe occhi abbastanza desti per leggerli; che pure il signor Gamba, e prima di lui il doge Foscarini incontrarono riferiti ciascuno a suo luogo.

A soddisfare la curiosità de’ critici e bibliofili porterò qui le varianti al proemio del libro I, acciocchè per le cure del signor Gamba resti chiarita al fine la questione sulla genuinità di questa Istoria:

Edizione di Londra. Autografo.
perchè quantunque molti celebri istorici
imperocchè quantunque molti celebri istorici
non sarebbero bastanti ad una intiera narrazione
non si componerebbe un’intiera narrazione
Io subito ch’ebbi gusto Io immediate ch’ebbi gusto
dopo aver letto con diligenza et oltre l’aver letto con diligenza
onde ho avuto grazia di vedere sino qualche registro intiero di note
onde ho avuto grazia di veder sino qualche registri intieri di note
per la narrazione del progresso per narrazione del progresso
ha sortita forma e compimento ha sortito forma e compimento
di rassegnare li pensieri in Dio per rasignare li pensieri in Dio
ha così stabilito lo scisma
per contrario ha così stabilito lo scisma
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ha causato la maggior deformazione che sia mai stata da che vive il nome cristiano; e dalli vescovi sperato per racquistar l’autorità episcopale, passata in gran parte nel solo pontefice romano, l’ha fatta loro perdere tutta intieramente riducendoli a maggior servitù: nel contrario temuto e sfuggito dalla corte di Roma ecc.
ha causato la maggior disformazione che sia mai stata da che il nome cristiano si ode; e dalli vescovi adoperato per racquistar l’autorità episcopale, passata in gran parte nel solo pontefice romano, l’ha fatta loro perdere tutta intieramente, et interessati loro stessi nella propria servitù: ma temuto e sfuggito dalla corte di Roma ecc.