Biografia di Frà Paolo Sarpi/Vol. I/Capo II
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CAPO SECONDO.
Scrivendo io la vita di un famoso frate mi voglio permettere una digressione sull’origine e gli statuti de’ monaci segnatamente de’ Serviti. L’episodio non dovrebbe essere affatto estraneo al mio argomento; ma quando pur fosse, io mi spero che giovi alla curiosità di quelli che non hanno una precisa notizia di una gerarchia, a sterminio di cui congiurano le opinioni del secolo e i mutati costumi.
L’origine del monachismo sale al III secolo quando il celebre Sant’Antonio abate lo mise di moda nell’Egitto e nella Siria, donde poi rapidamente si diffuse in tutto il mondo romano. Allora i monaci erano una soldatesca tumultuaria come i palicari della Grecia, e anticamente i venturieri in Italia; ma al principiare del IV secolo Pacomio egiziano, prima soldato, poi monaco, avvezzo agli usi della milizia, gl’introdusse a un dipresso nel suo monastero. Divise i suoi monaci (dicono che fossero 10,000) in compagnie, ciascuna subordinata al suo capo, e questo a un capo supremo che era l’abate: uniformità di vestire, dormitorio, e refettorio comune, regolata distribuzione di cibi, d’incumbenze e di lavori, la stessa ora pel pranzo, per la preghiera e pel riposo. E a far gradire le sue leggi a popolo indocile, le finse portate a lui da un angelo. Piacque l’innovazione, ed ebbe imitatori; e in breve vi furono tante regole quanti gli abati, finchè tutte alla metà circa di quel secolo furono soverchiate da quella di San Basilio vescovo di Cesarea in Capadocia che fu poi quasi universalmente seguitata dai Levantini.
Chi introducesse il monachismo in Occidente, non è ben noto; ma è certo esservi stati monaci in Italia a’ primi decenni del IV secolo, donde si sparsero nelle Gallie e più specialmente nella Scozia ed Irlanda: ma senza regole fisse, o ad arbitrio, finchè nel VI secolo San Benedetto fondatore di Montecassino dettò la sua; la quale, quantunque non portata da un angelo, è, per un codice monastico, abbastanza ragionevole. E come in Oriente quella di Basilio, così in Occidente quella di Benedetto prevalse. Ma corrotti i monaci nei susseguenti tempi dalle ricchezze, dall’ozio e dalle lascivie, verso l’XI e XII secolo alcuni uomini pii volendo ritrarli ai loro principii, introdussero riforme e fondarono congregazioni con discipline varie, ma derivate in sostanza da quelle di Benedetto; per cui al nome del fondatore antico aggiunsero quello del riformatore moderno.
Nel XIII secolo cominciarono i Mendicanti detti propriamente Frati; in ciò diversi dai monaci che questi vivevano coi proventi dei loro beni, laddove i frati ebbero per istituto di vivere pitoccando: cattivo metodo, perchè col crescere del loro numero bisognò inventare superstizioni ed artifizi nuovi da spandere nel vulgo per cavarne danari.
Il mal costume de’ monaci, il discredito in cui erano i preti, l’entusiasmo religioso che menava i popoli a tumulto nelle crociate di Terra Santa e in Provenza contro gli Albigesi, lo spirito religionario de’ tempi, la smania di far conversioni, mossero Francesco d’Assisi, giovane di sì calda fantasia che molti lo credevano un pazzo, a instituire una società che libera d’impacci, vivendo alla busca, spregiatrice di tutti gli usi civili, porgesse le apparenze di vita penitente e intendesse alla predicazione della fede. Assai giovani d’indole entusiastica e venturiera si unirono a lui, così che nel giro di pochi anni l’ordine serafico di San Francesco contava più migliaia di militi. Fu approvato da Innocenzo III nel 1210, e confermato da Onorio III nel 1223.
Quasi nel medesimo tempo Domenico di Gusman, spagnuolo, canonico di Osma, fondava l’ordine dei frati predicatori, così chiamati perchè dovevano predicare la fede agli eretici, e se non si convertivano, abbruciarli. Approvati da Onorio III nel 1216, fu loro affidato dappoi il filantropico tribunale del Santo Offizio, glorioso per mille religiosissime stragi.
Domenico essendo nobile, e, per que’ tempi, dotto, il suo ordine si compose se non di nobili, almeno di persone istrutte; ma Francesco di bassa nazione ed idiota attrasse a sè tutta la plebaglia, e tanta che 4000 deputati si trovarono al Capitolo generale del 1219; il che vuol dire che sommavano a 40,000 almeno. L’abito istesso mostra il diverso pensare de’ patriarchi: quello de’ domenicani, quantunque bizzarro, non senza eleganza; ma veri cinici i francescani: un grosso saione goffamente fazionato, non camicia, non calze, raso il capo, barba sucida, nissuna mondizia del corpo, una corda per cintura, una bisaccia sulle spalle, una sporta di giunchi sul braccio, un cappuccione in testa ricordano l’immagine dell’antico Diogene.
Ogni età ha le sue pazzie, e il medio evo era per i monaci e frati, i quali sommavano a tanto numero che il concilio di Lione nel 1274 proibì che nuovi Ordini s’istituissero: legge non nuova, perchè già prodotta da Innocenzo III nel concilio di Laterano nel 1215. Ma perchè i papi che le fanno sono poi sempre i primi, quando è utile, a violarle, se Innocenzo III nel 1215 statuiva la legge anzidetta, Onorio III suo successore la violava il seguente anno, approvando l’Ordine dei domenicani e poi nel 1223 confermando quello di San Francesco. Nè i papi seguenti furono più scrupolosi, tranne Innocenzo V che nel 1276 pretese di abolire l’Ordine de’ Servi.
Il quale, quasi contemporaneo agli anzidetti, vanta per suo fondatore San Filippo Benizzi; ma per vero deve l’origine a sette mercatanti fiorentini che si adunavano ad una cappella a salmeggiare in lode della Madonna, e verso il 1230 decisero di formare una vera società di frati, approvata nel 1248 dal cardinale Rainesio legato di papa Innocenzo IV, e sette anni dopo formalmente confermata da Alessandro IV.
Tre miracoli, perchè senza miracoli non viverebbono frati, concorsero alla instituzione di quell’Ordine: il primo, che quei mercanti furono avvisati da una celeste voce a formare una società di Regolari; — il secondo, che entrando, essi in Firenze imbaccuccati di saione cinericcio e i ragazzi dando loro la baia, forse perchè gli credevano maschere, San Filippo Benizzi, bambino di cinque mesi che poppava dalla balia, ruppe lo scilinguagnolo e gridò: Ecco i Servi di Maria; — il terzo, che la Madonna fece da sartora tagliando il modello dell’abito cui dovevano vestire, non più cinericcio, ma nero; e da legislatrice, portando loro dal paradiso la regola di Sant’Agostino. Così raccontano gli annali dell’Ordine.
San Filippo Benizzi quinto generale lo ampliò; raccolse le prime costituzioni, ma ebbe a patire disturbi dal papa Innocenzo V e da molti prelati che volevano abolire il suo Ordine. Onorio IV nel 1286 lo prese sotto la sua protezione, e i successori gli concedettero assai privilegi. Si dilatò da poi fino a contare 27 provincie e 70 monasteri, primo per lusso e ricchezze quello dell’Annunziata di Firenze. A Venezia lo introdusse nel 1316 Frà Pietro da Todi ottavo generale.
Ma perchè la concordia tra i frati non può esser lunga, i Serviti sotto pretesto di riforma si divisero, gli antichi chiamandosi Conventuali, e i riformati dandosi nome di Congregazione de’ Servi. La principale, e che durò più lungamente, fu quella di Venezia a cui erano congiunti i conventi di Mantova, Verona, Cremona, Brescia, Bergamo, Udine e qualche altro. Eleggeva un vicario generale, che in compagnia di un commissario interveniva ai comizi dell’Ordine; ma indipendente dal prior generale. I Serviti di Firenze fieri delle loro ricchezze, del numero e della protezione che godevano dai gran duchi di Toscana, e che si consideravano come il ceppo della famiglia, vedevano di mal occhio questa scisma, ed essendo cadute a poco a poco le congregazioni di Ferrara, di Milano e di altrove, brigarono finchè anco quella di Venezia per bolla di Pio V nel 1570 fu riunita al corpo antico. Ciò fu cagione di molti sdegni e di una quasi continua animosità de’ frati veneziani e lombardi e fiorentini, cui accusavano d’ambizione e tirannide; e Giovan Maria Capella, il maestro di Frà Paolo, stato più volte vicario generale, cercò di far rivocare l’ordine, ma indarno: ottenne ciò nondimeno di essere socio perpetuo del prior generale. Ciò spiacque agli altri frati che si vedevano impedita la via, finchè egli vivesse, a quella dignità: sì che fu deliberato nel 1572 che la già Congregazione sarebbe divisa in due Provincie, di Venezia e di Mantova; e per un concordato stabilito in Roma a’ 12 maggio 1574 e approvato da Gregorio XIII, convennero che le due nuove Provincie conserverebbono i loro statuti, semprechè non fossero contrari alle costituzioni dell’Ordine. Ma ciascuno essendo geloso de’ suoi privilegi, fu necessario di conformare quelle a questi: opera difficile (trattandosi di contentar frati) nella quale ebbe molta parte Frà Paolo, come dirò.
L’Ordine de’ Servi abbondava allora d’uomini dottissimi non pure nelle facoltà teologiche, ma nelle lingue, nell’eloquenza, nelle matematiche, nell’architettura, nelle scienze di ogni genere, massime tra i Veneziani che andavano di puntiglio con quei di Firenze; e ricco non poco nè molto, pareva destinato a tenere un posto luminoso tra gli Ordini mendicanti: ma il poco accordo e la rivalità che durava tra le due fazioni, sopita alcuna volta, non mai spenta, era un verme che lo rodeva in secreto e ne preparava la decadenza. E benchè si dilatasse alquanto in Germania e Spagna, erano getti della radice che non davano forza al tronco. A ciò si aggiungeva l’incertezza de’ statuti, mutati quasi ogni triennio, non per una vista profonda come nei gesuiti, ma per bizzaria e smania di novità; sì che ogni Capitolo generale partoriva nuove leggi che contradicevano le antiche, rompevano l’uniformità, e rendevano disuguale e vacillante il governo della famiglia. Accresceva il disordine l’arbitrio de’ papi i quali pure violavano le leggi a pro’ di loro favoriti, convocavano Capitoli e sceglievano irregolarmente i generali; e la parzialità de’ gran duchi di Toscana pei loro Fiorentini e Bolognesi, due provincie strettamente unite come in lega, il che metteva invidia nelle altre dell’alta Italia. E quasi non bastassero alimenti alla discordia, gli accrebbe a cento doppi il dispotismo del cardinale Santorio che, per 22 anni protettore dell’Ordine, disponeva imperiosamente delle cariche, massime del generalato, usando violenza ed atti arbitrari contro chiunque non piegava al suo volere.
Come la Chiesa, così gli Ordini monastici usarono di prendere in prestito le forme del governo civile. Quando incominciarono, essendo l’impero romano un governo militare con capo dispotico e soldatesca indisciplinata, norme consimili s’introdussero tra i monaci. Ma poichè il dispotismo imperiale sotto i Costantini si avviò alle forme civili, e la milizia fu depressa, così anco il monachismo ebbe regole più concrete: i monaci dapprima laici, cominciarono ad essere ammessi al sacerdozio, e alle speciali discipline loro furono aggiunte le comuni al corpo ecclesiastico.
A’ tempi di San Benedetto l’imperio occidentale era a terra: regnavano i Goti in Italia, altri Goti e Svevi in Spagna, Vandali in Africa, Franchi e Borgognoni nelle Gallie, Avari e Langobardi nella Pannonia e nella Dacia. Le città di conquista avevano propie leggi, ma sotto il beneplacito del conquistatore. Le nuove monarchie avevano faccia di aristocrazia militare, e i sudditi essendo Romani e Barbari, il re era dispotico sui primi, frenato da leggi e consuetudini verso i secondi. Questa mistura si sente appunto nella regola benedettina. L’abate elettivo, ma a vita; eletto nelle assemblee dei monaci, come i re barbari, ma confermato dal principe, come i re dal tacito consenso degli imperatori, o i magistrati delle città da quello del re; l’autorità limitata da un consiglio di monaci, gli affari trattati in comune, il comandare assoluto, l’obbedire pronto; ma l’uno e l’altro ammisurati dal sentimento dell’eguaglianza. Un’abazìa presentava in piccolo ciò che era un regno barbaro in grande.
I monaci si distinsero in due ordini: professi e conversi, o meglio sacerdoti e laici: solo i primi avevano voto nelle assemblee, e rappresentavano i conquistatori; i conversi potevano intervenirvi, ma senza suffragio, ed erano come i Romani a petto ai Barbari. Per ciò che i monaci ricevevano i loro allievi quasi sempre in tenera età, chiamavano conversi gli uomini di età matura che lasciando il mondo si convertivano a quel nuovo genere di vita; ma poi significò i laici solamente.
Inclinando i regni di Occidente alle forme feudali, il monachismo subì la stessa vicenda. Ogni monastero indipendente, ciascuno governato dal suo abate che n’era come il signore feudatario; gli abati già dipendenti dai vescovi, se ne emanciparono col favore de’ papi, come i baroni dai magistrati regii; al contrario si assoggettarono a’ papi, come i vassalli all’Imperio.
Quando poi incominciarono i Mendicanti, la Provenza e la Catalogna, teatro delle gesta eroiche di San Domenico, avevano molte libertà municipali e le città si governavano quasi a repubblica. Più ampia libertà era in Italia dove fiorì San Francesco, e però i Mendicanti seguitarono le norme della democrazia.
Gli Ordini frateschi costituiscono dunque altrettante repubbliche democratiche, e si potrebbe anco dir militari, perchè loro officio è difendere con la lingua, con le penne, e, se il caso importa, anco con le mani il papa di cui sono la guardia pretoria. E come i Comuni d’Italia nel medio evo si reggevano da sè, pur riconoscendo la suprema potestà ed alto dominio degli imperatori; anco i frati hanno governo proprio, e intanto riconoscono la potestà suprema del papa. Accadde nondimeno una notabile differenza nelle specialità di queste due sorti di repubbliche e nei loro alti sovrani: ed è che gl’imperatori intendendo a piantare in Italia il dispotismo obbligarono i Comuni a rubellarsi, e scaddero a poco a poco dalla loro supremazia, o piuttosto conservarono il nome e perdettero la cosa. Laddove i papi fautori allora di repubblica, nemici acerrimi della potestà regia ed imperiale, alla testa della fazione guelfa che oggi con mutato nome si chiama de’ Liberali, promovendo astutamente le libertà fratesche acquistarono su di loro il più imperioso ascendente, e riuscirono a farne la più fedele e più attiva e più coraggiosa loro milizia. Ma fa meraviglia come la stessa prudenza non abbiano usata inverso i Comuni, e che a quel modo che si fecero centro e capo delle fraterìe, non abbiano fatto anco delle società politiche. Che se questo si operava, sorgeva una monarchia di nuovo genere e forse la più meravigliosa di quante mai furono; nè forse il papato sarebbe ora in quei mali termini che fanno il persistere ne’ vecchi errori e il riformarli ugualmente nocivo: edifizio decrepito che si regge a stento, e non cade, perchè nissuno lo urta.
Le costituzioni fratesche sono sostanzialmente conformi in quasi tutti gli Ordini, benchè diverse nelle particolarità relative all’istituto di ciascuno. A me giovi soltanto dire de’ Serviti quali erano ai tempi di Frà Paolo, quando egli stesso ebbe mano nella compilazione delle leggi loro. Alcune modificazioni subìte da poi non variano il mio discorso.
L’Ordine de’ Servi era allora diviso in 13 Provincie di cui 8 soltanto avevano ingresso nei comizi generali, ed erano, seguendo l’antichità loro e i titoli di precedenza: Toscana o Firenze, Patrimonio di San Pietro o Roma, Lombardia o Milano colla vice-provincia di Reggio, Marca Trivigiana o Padova, Venezia, Mantova, Genova, e Napoli. Le Provincie di Barcellona, Marsiglia, Sardegna, Corsica e Inspruk per essere piccole o lontane non mandavano deputati, ovvero un solo tra due. La facoltà di farsi rappresentare ne’ comizi non la ebbero se non che più anni dopo.
Capo a tutto l’Ordine, il priore generale siedente in Roma; della provincia, il priore provinciale; di ogni convento, il priore conventuale, detto semplicemente priore o guardiano. I conventi distinti in collegiati, cioè che avevano un dato numero di frati col diritto di suffragio e corpo di magistrati e scuola: i non collegiati erano frazioni degli antecedenti.
I Serviti, come i Domenicani ed altri, seguivano la regola attribuita dopo l’XI secolo a Sant’Agostino, e comprende sette capi: del custodire l’unione e la pace; dell’orazione e del digiuno; del conservare l’onestà nel vestire, andare, conversare, nei costumi e nel correggere altrui; della custodia dei vestimenti e della pietà da conservarsi cogli infermi; dell’amore fraterno; della obbedienza e riverenza a’ prelati; e dell’osservare i precetti della regola. E sono discorsetti morali sugli argomenti indicati, per norma di chi vuole dedicarsi a ritirata vita. Ma queste leggi, o piuttosto massime generiche, ottime per una società di poche persone, sarebbono insufficienti ad una più numerosa e sparsa in varii paesi. Convenne dunque statuirne altre più precise per servire di codice comune, ed altre ancora più speciali al governo di ciascuna provincia. Le prime sono le costituzioni, in 43 articoli, cui nessuno può abrogare mutare tranne il comizio generale; le seconde sono gli statuti particolari, cui il generale d’accordo col provinciale può riformare o abolire: tranne quelli di Firenze e di Mantova e Venezia, cui loro guarentiva la costituzione medesima.
I frati professano tre voti, che sono per così dire l’essenza della società fratesca: povertà, castità ed obbedienza. Non già che vogliano essere poveri, sì solamente che nissun frate possieda cosa in privato, tutto dovendo essere comune: uguaglianza utilissima, ma solo praticabile in una repubblica dove per matrimoni o parentele od altri vincoli e vicende non succedono le consuete transazioni sociali, donde proviene l’inegualità. A mantenere questa massima fu necessaria l’altra che i frati non avessero moglie e figliuoli, almeno in convento. L’opinione che lo stato celibe sia più perfetto di quello a cui Dio e la natura hanno destinato gli uomini, nata dai Gnostici ed altri visionari antichi, fu poi sempre sostenuta dalla Corte romana, non perchè vera, ma perchè utile, considerandola come la più salda base di sua potenza. Nè senza ragione; perchè ove il clero fosse legato dagli affetti di marito e di padre, questi inferendo altra serie di vincoli e di amori e medesimità cogli interessi del corpo civile, non sarebbe più così estranio allo Stato e così fedele al capo ecclesiatico. Ma questo vantaggio hanno i frati sopra i preti, che vivono in comune con discipline più strette, più subordinate. L’obbedienza ne’ soldati costituisce la forza morale degli eserciti, ma in nissuna milizia fu portata a un così alto grado come nelle legioni fratesche; e le moderne società secrete, deboli, discordi, ciarliere, senza leggi, dovrebbono in loro specchiarsi e prenderle a norma. I frati sono altrettante società secrete, ma infralite dal tempo e dalle mutate opinioni: ed io ho sentito un gesuita dire, la religione essere vecchia; ma chi saprà ritrarla a un principio nuovo, e conformarla ai pensieri del secolo, e adattarvi una setta, qualunque sia il suo scopo, avrà in pochi anni centomila fanatici capaci a rovesciare tutti i regni del mondo. Il pensiero di quel gesuita non è una chimera, e gli eventi del passato sono garanti per le probabilità dell’avvenire. Sta a vedersi chi scoprirà un così prezioso o pericoloso secreto.
Essendo l’obbedienza tra i frati cieca, passiva, il comandare sarebbe dispotico, l’obbedire da schiavo, se non fosse temperato dallo spirito democratico e dalla massima, diventata religione, di subordinare gli orgogli personali alla disciplina e agli interessi della setta. Nella quale il superiore comanda all’individuo di mettersi in ginocchio, di baciare o scrivere colla lingua lunghe croci sulla terra, di chieder venia de’ suoi falli, ed egli, senza premetter scusa o discolpe, obbedisce di corto: gli comanda di uscire in viaggio senza dargli tempo di salutare l’amico, ed egli senza obbiettar risposta, senza danari, a piedi, sotto stagione inclemente, obbedisce e parte. Allo stesso rigore di disciplina sono subordinati i gradi minori verso il maggiore; e il generale de’ frati, nelle cui mani vanno ad unirsi tutte le fila del comando, comechè riconosca il suo grado dalla fratrìa, è dal solo pontefice che riceve la facoltà di esercitarlo, ed è a lui che presta il giuramento di fedeltà.
E qui ricordo di nuovo la differenza tra i frati e i monaci. I quali ultimi rappresentando il governo feudale, un monastero indipendente dall’altro, ciascuno il suo abate, dispotico, a vita, nissun capo in comune che risiedesse a Roma, ricchi per lo più e col solo pensiero d’amministrare e di godere le loro ricchezze, apparivano tante picciole monarchie soggette solamente a’ papi per rapporti di religione, per affinità d’interessi e pei loro privilegi. Del resto poco avendo bisogno di loro, li servivano anco freddamente: oltre di che dopo le riformazioni degli Ordini loro, doviziosi, più moderati, chiusi nei cenobii, attenti agli studii, nè si curando più tanto di frammettersi nelle cose del mondo, diventarono meno intrigatori e direi quasi un po’ più utili.
Invece i frati, in qualunque parte del mondo dispersi fossero, ubbidivano a un reggimento uniforme che riceveva le prime mosse da Roma. Poveri, avevano bisogno dei papi per privilegi, indulgenze, reliquie, miracoli ed altre pie merci, per le quali attiravano avventori e beatamente campavano; e poichè parte delle limosine versavano a Roma, tornava ivi utile una società che sapeva coll’arte tenere in credito la mercanzia, e colla industria moltiplicarla in pari tempo che ne faceva un così lucroso spaccio. Indipendenti dai vescovi, si buttavano in tutte le chiese, predicavano, confessavano, tenevano scuola dove inculcavano ai ragazzi i loro principii, insegnavano nelle Università, s’inframettevano in tutti gli affari, spiavano tutti i secreti, dirigevano tutte le coscienze, andavano a lontane missioni, conquistatori operosi di nuove provincie cui sottomettevano al papa, inventavano divozioni nuove, ingrandivano le vecchie, subodoravano e perseguitavano eretici, erano inquisitori, teologi, politici, faccendieri, accattoni, freno ai prelati, spavento a’ governi, mignatte de’ popoli; e ciò che torna più degno di lode è che una soldatesca così numerosa e terribile, anzichè costasse alla corte di Roma, pagava ella alla Camera apostolica censi e decime.
Un’altra non lieve influenza esercitavano i frati con quelli ch’e’ chiamavano Terziari; ed erano laici d’ambi i sessi, che, senza lasciare il secolo o i loro affari o i legami di matrimonio, si obbligavano a vivere secondo le regole di un tal Ordine, quanto la condizione loro poteva comportarlo, e a seconda dei consigli che ricevevano dal frate direttore di coscienza; il quale non ometteva mai di smungerne piamente roba e danari ed anco legati e donazioni per testamento. A tal che oltre al lucro, questi terziari erano altrettanti partigiani su cui i frati esercitavano un potere occulto, e per la monarchia papale della massima importanza. Stromento ne era il confessionario.
Quanto la instituzione de’ Mendicanti fu utile ai papi, altrettanto fu fatale ai veri interessi della Chiesa. Imperocchè i frati usando dei loro privilegi s’intromettevano in tutte le diocesi e in tutte le parocchie, usurpando ai diritti dei vescovi e dei curati, donde nacquero contese lunghissime tra il clero regolare e secolare, massime in Francia. Altre contese furono suscitate dalle rivalità reciproche fra Ordine ed Ordine, e dalle discordie fra quelli del medesimo Ordine, quando sulla foggia dell’abito o del cappuccio, quando sull’arguzia se ciò che un frate mangiava poteva dirlo suo, e quando sulla osservanza delle regole: quindi scisme e riforme continue. I frati, per lo più gente plebea, trascurarono gli studii, divennero arroganti, oziosi, turbolenti, superbi, fanatici, persecutori; le scienze teologiche abbandonate al loro idiotismo furono tramutate in puerilità e logomachie, o in quella minuziosa casuistica tanto funesta alla morale; peggiorò la scolastica, già guasta dalle suttilità degli aristotelici; la dialettica fu ridotta ad un gergo barbaro, e l’eloquenza sacra a gonfie declamazioni; furono intenebrate la filosofia e la storia; alle Sacre Scritture e ai Padri della Chiesa furono sostituite le decisioni dei moderni capi-scuola, e Scoto fu l’oracolo dei francescani come Tommaso di Aquino lo fu dei domenicani.
A vece moltiplicarono in infinito le superstizioni, le pratiche esterne, le feste, i santi, i miracoli, e quindi l’ozio e la ignoranza nel popolo allettato alle chiese fratesche e divertito con pompe e solennità, in solo profitto dei conventi. Pei frati ebbero voga la devozione agli scapolari, alle reliquie di cera o di carta, agli agnusdei; per loro si accreditarono fuor misura le indulgenze e le finzioni intorno al purgatorio; e il diavolo diventò, per così dire, la macchina loco-motiva di tutte le loro furberie: fomentarono essi i pregiudizi intorno alle stregonerie, inventarono scongiuri contro la gragnuola cui attribuivano a malignità d’incantatori; inventarono l’usanza di benedire in certi tempi dell’anno, e sotto gli auspicii di un tal santo, le case, le stalle, i bestiami, o i campi, onde preservarli dal fuoco, dalle epidemie, o dalla grandine o da altro diabolico insulto; e ridussero a sistema l’arte degli esorcismi, arte sacrilega, ingiuriosa alla Divinità, avviluppata di fraudi, ma così potente sul volgo, che ancora vi crede. Per essa i frati cagionando a malìa le infermità subitanee o singolari, la fatuità, i delirii mentali, la impotenza virile, od anco imposturando ossessioni, s’infingevano di saper cacciare i demoni ricorrendo ad arcane formole, a suffumigi, ad acque lustrali, o invocando Dio e la Madonna con nomi barbari ed epiteti ridicoli e talvolta osceni. Inoltre manipolavano con riti benedizioni polveri od unguenti o scritture misteriose e di magico effetto cui distribuivano alla plebe quai preservativi contro l’inferno.
Ma il peggior danno fu l’uffizio della Santa Inquisizione che i frati portarono in quasi tutti i regni cristiani. Per lui la religione del Vangelo diventò un sistema di violenza, per lui alla persuasiva fu sostituita la forza, e alla carità il fanatismo. Ed ovunque tale flagello ebbe norma, sparirono le lettere, ogni industria fu spenta, caddero i costumi, le convinzioni della coscienza diventarono ipocrisia, la libertà del conversare fu atterrita dallo spionaggio, alle usanze civili successero gli spettacoli atroci, la moralità delle leggi fu distrutta dalla ferocia dei supplizi; crudele il culto, incrudelì colla sua influenza i popoli, e il cristianesimo patì la vergogna di avere per più secoli sacrificato vittime umane.
Setta fomentatrice di monarchia papale, i frati avevano statuti da repubblica; e come in queste si distinguono i cittadini col diritto di suffragio dai forestieri o di origine aliena, così ancora tra i frati vi erano i professi o sacerdoti, e conversi o laici: a’ soli primi era riservata voce in Capitolo. E come nelle repubbliche i cittadini sono ascritti a tribù o comuni dove solo possono dare il voto, nè possono trasportare il domicilio attivo se non a certe condizioni stabilite dalle leggi; così del paro ogni Servita era considerato figlio del convento che lo prese a novizio e lo educò, nè poteva rinunciarvi per affigliarsi ad un altro senza il consentimento scritto de’ suoi confratelli, e senza i più voti di un Capitolo conventuale; e se il convento a cui voleva affigliarsi era fuori della provincia, erano necessari anco i più voti di un Capitolo provinciale: le stesse formalità nel convento che lo accettava. Quanto ai novizi, nissuno era ricevuto se non nativo del luogo, o almeno col consentimento del monastero (se v’era) posto nel luogo di sua nascita. Sa ognuno che subivano poi un anno di prova prima di essere ammessi alla professione.
Il governo de’ Serviti era democratico, ma ristretto in forma che diventava aristocrazia.
Il priore del convento durava in carica due anni, nè poteva essere rieletto se non dopo due anni di vacanze. Era il capo della sua comunità sì nel temporale e sì nello spirituale: aveva facoltà di adunarla a Capitolo, ed ove non vi fosse uno superiore di grado a lui, di presiederla; correggeva o puniva le picciole colpe, informava per le più gravi trasmettendo i processi al provinciale o al generale; poteva spendere o in riparazioni o a lustro o a comodo del convento sino a una data somma: assistito e consigliato in ogni cosa da un consesso di cinque frati almeno, chiamati Padri Discreti, ed erano i maestri di teologia, detti nel linguaggio fratesco Padri Maestri, il procuratore del convento e i maggiori di 40 anni.
Amministravano il temporale il procuratore del convento e il sindaco, i quali ogni mese rendevano i conti al Capitolo. Il sacrista aveva cura delle cose sacre o attinenti al culto; il depositario, delle masserizie e suppellettili: e vi era il custode del pane e del vino, il dispensatore della companatica, l’ospitaliere che aveva cura degli ospiti, l’infermiere e il portinaio, i quali ultimi servili offizi erano dei laici. E si aggiungano i maestri dei novizi, de’ giovani professi, e di teologia, e il reggente degli studi che presiedeva al corpo accademico della provincia e alla instruzione dei frati.
Amministrava la provincia il provinciale che durava in carica un triennio, nè poteva essere rieletto nella medesima provincia se non dopo sei anni di contumacia, e in un’altra, se non dopo tre anni di non interrotto soggiorno in quella. Aveva per consiglieri alcuni chiamati i Padri Soci cui doveva consultare nelle cose di momento, ed uno di loro lo accompagnava nelle visite che doveva fare ogni anno nei conventi subalterni. Aveva voce nei Capitoli di tutta la provincia, con facoltà di eleggere ad interim gli ufficiali dei conventi, e decidere, nei casi che il Capitolo proponendo partiti diversi non lasciassse via d’accordi; di trasferire i frati di uno in altro convento, di riprenderli, correggerli, castigarli anco col carcere, ma determinata la natura delle colpe spettanti al suo giudizio; per le altre formava i processi e la sentenza, e li mandava al generale per esssere approvati. Se un frate appellava da lui al generale, ei poteva sostenere la sua sentenza rimettendola al giudizio di un altro provinciale, ed era valida se questi giudicava conforme a lui. Abitava quel convento della provincia che più gli piacesse; ne’ viaggi, spesato dal comune; da alcune tasse percepiva anco una specie di emolumento. Uscito di carica godeva di varii privilegi, come di essere definitore per diritto; di non essere corretto, tranne il caso d’insulti o provocazioni personali, dal priore; di precedere tutti gli altri magistrati inferiori al grado di provinciale; e di essere servito da un converso a sua scelta, non però al tutto esente dal ministerio pubblico.
Anco il generale durava in carica tre anni, con una contumacia di sei anni prima di essere rieletto. Per altro queste contumacie fratesche, introdotte la maggior parte da Frà Paolo ad esempio degli altri Mendicanti, non si osservavano mai. V’erano mille intrighi per deluderle, e sempre pronta una dispensa di papa per violarle. A rigor di legge il generale doveva essere eletto dal gran Capitolo, o dieta o comizi, come lo chiamavano, e ogni provincia proponeva i suoi candidati. Ma tra i Serviti troppo frequenti erano le elezioni forzate; perocchè i gran duchi di Toscana, il papa o il cardinal protettore, quelli per favore, questi per danari intrudevano chi a loro piaceva, e obbligavano il Capitolo a riconoscerlo. La sua autorità, comechè ampia, era tutta costituzionale; presiedeva o per sè o pe’ suoi vicari a tutti i Capitoli provinciali, a lui si aspettava il pronunciar sentenza su tutti i casi gravi o cause in appello, rimuovere, deporre, scomunicare non solo i frati, ma i priori di convento ed altri ufficiali subalterni; giudicare in un Capitolo, coll’assistenza de’ definitori, i provinciali; vedere i conti di ogni comunità; approvare gli atti de’ Capitoli di provincia, o generali; insomma fare tutto quello che riguarda l’esecuzione delle leggi, l’amministrazione economica e la disciplina. Visitava, per obbligo, una volta almeno i conventi dell’Ordine, spesato ne’ viaggi; oltre agli emolumenti che traeva da tasse in suo favore.
Il generalato era scala a più alte dignità della Chiesa e perciò ricerco dagli ambiziosi; godeva di molti privilegi in Roma, e tra gli altri di sedere nella cappella del papa. L’uscito di carica poteva abitare un convento a scelta, non dipendeva che dal generale, aveva la precedenza sulle altre magistrature, e la prima voce in Capitolo.
Ogni Ordine ha il suo protettore, che è sempre un cardinale, che lo tiene raccomandato al papa, ne conserva i privilegi, procura promozioni a’ suoi individui, approva e tutela le costituzioni, giudica in appello contro il generale, ed esercita sulla fraterìa una ingerenza che si confonde con l’imperio.
Una carica importantissima dopo il generale, e per certi lati forse anco più influente e lucrosa, era quella di procuratore dell’Ordine. Eletto dalla Dieta durava tre anni in carica, nè poteva esser rieletto se non dopo 12 anni di vacanza, e sei per essere generale. Era l’avvocato fiscale per tutte le cause dell’Ordine, private o pubbliche, che si trattavano in corte di Roma; e conservatore degli archivi: al solo generale soggetto, da cui riceveva 60 scudi annui oltre alle spese di lettere od altro, cui rimborsavano i litiganti. Abitava il convento di San Marcello a Roma, dal quale riceveva vitto, medico, medicinali ed ogni altro bisognevole: libero non pertanto dagli obblighi monastici. A quest’ufficio volevansi uomini provetti, maestri in teologia, versati nella giurisprudenza, di buona fama e atti alla predicazione, avendo per privilegio di predicare due volte all’anno, l’Epifania e la domenica di Passione, nella cappella del papa. In carica, aveva voto in tutti i Capitoli come il generale. Uscito di carica, godeva le istesse prerogative del provinciale, ma più ampie: il primo vocale nel convento, indipendente dal priore, precedeva ogni altro, financo i provinciali se fuori della loro provincia, ed aveva diritto di assegnarsi per esclusivo suo servigio, anco contro voglia del provinciale, un frate converso.
I definitori erano come i giuristi e giudici relatori nelle materie che si trattavano nei Capitoli: ogni provincia aveva i suoi. I procuratori dell’Ordine e i provinciali usciti di carica erano per diritto definitori perpetui; ma nelle assemblee dovevano intervenire a proprie spese: gli altri duravano in carica da un Capitolo all’altro.
Tra i monaci antichi il Capitolo era una camera apposita, così chiamata perchè vi si adunavano ogni giorno a leggere e a spiegare un capitolo della regola; e come ivi pure si trattavano gli affari domestici e si eleggevano gli ufficiali e gli abati, i frati diedero egual nome alle loro assemblee.
Le quali erano o conventuali, o provinciali o generali. Convocava le prime il priore ad ogni bisogno, o nelle visite il provinciale o il generale. Vi avevano voce attiva i soli professi, purchè sottodiaconi, figli o dimoranti nel convento; e voce passiva, cioè di proporre per ciò che toccava a loro particolarmente, ma non di deliberare, i conversi e i novizi. L’iniziativa, cioè il diritto di far proposte era in tutti; ma per scala di gradi dal supremo all’infimo, di forma che quantunque gli squittini fossero secreti, le deliberazioni erano sempre ad arbitrio dei preminenti.
Il Capitolo provinciale si adunava ogni anno nel luogo scelto dal provinciale e nel tempo prescritto dal generale, il quale non potendo presiederlo in persona, nominava un suo vicario: in forma però che tutti i Capitoli dovevano essere celebrati entro lo spazio di due mesi dopo la Pasqua, e i vocali avvisati tre mesi prima. Ogni convento mandava suoi deputati quattro padri-discreti, o più o meno, onde queste assemblee avevano apparenza più aristocratica delle antecedenti; imperocchè i suffragi erano ristretti al generale o suo vicario, provinciali, soci, padri-discreti, definitori, priori, maestri, baccellieri, 50 o 60 individui su quattro o cinque volte tanto che poteva contarne la provincia. Si eleggevano i definitori del Capitolo, i quali definivano le cose poste in trattazione, ne davano un preavviso; ed anco, col consenso del generale, le decidevano. I definitori nominavano i sindaci, i depositari e i procuratori del convento. Nel capitolo poi si giudicavano sommariamente le cause pendenti; si faceva il sindacato del provinciale; si eleggeva il nuovo se quello scadeva, o se, per mal governo, deposto; si verificavano i conti della provincia e della comunità; si esaminavano quelli da promoversi al baccellierato, si eleggevano i priori, i lettori di casi di coscienza, i maestri de’ novizi; e se era inditto un comizio generale, eleggevano il definitore deputato e i candidati da proporre a generale e a procuratore dell’Ordine: infine, ogni provvisione bisognevole alla provincia.
I grandi Capitoli o diete o comizi a’ tempi del Sarpi dovevano essere convocati ogni tre anni; ma in seguito, a risparmio di spese e di brighe furono dai pontefici statuiti a sei anni. Il generale dieci mesi innanzi avvisava del luogo le provincie acciò deputassero ciascuna il suo definitore generale. Ivi la rappresentanza era ancora più ristretta, perchè votavano solamente il generale, gli ex-generali, il procuratore dell’Ordine, i definitori deputati, i provinciali coi loro soci, 30 o 35 al più. Durava per solito quattro giorni. Nel primo il generale e il procuratore scadenti rassegnavano l’ufficio, si scrutiniavano le qualità dei candidati proposti per essere surrogati a loro, e si eleggeva il nuovo generale. Nel secondo e terzo era il sindacato del generale scaduto, e si terminavano le cause ivi prodotte da giudicarsi. Nell’ultimo si rivedevano le costituzioni, se avevano bisogno di chiarimenti o riforma, e si eleggeva il procuratore generale. I definitori avevano anco qui la stessa ingerenza, per non dire la principale.
In tutti i Capitoli, secreti sempre gli squittini; i più voti sopra la metà decidevano: come in tutte le repubbliche, proibito il broglio e praticato.
I Serviti vestono di lana nera: una tonaca con maniche strette, chiusa sino al petto e serrata alle reni con una correggia a fibbia; una pazienza, drappo quadrangolare nel cui mezzo è un’apertura per passarvi la testa, e che scende egualmente davanti e di dietro a foggia di una pianeta; uno scapolare o cappuccio ed una cappa. Il cappello a tre angoli come quello dei preti.
Partendo dal principio che i monaci sono una milizia spirituale, la divisione delle ore monastiche e del canto corale fu stabilita dai primi istitutori sul piede delle fazioni di sentinella dei Romani; i quali dividevano il giorno in dodici ore, e la notte in quattro parti che chiamavano vigilie. I monaci cantavano sei volte nel giorno, e quattro alla notte, onde restano ancora nei breviari i nomi del salmeggio di prima, terza, sesta, nona, vespero e compieta; e di primo notturno, secondo notturno e simili. I monaci diventati un po’ grassi, cominciarono ad avvedersi che sturbare il sonno, massime d’inverno, per levarsi a cantare, era incomodo, e diminuirono le vigilie; e i frati instituiti per brigarsi negli affari del mondo, fecero del canto corale una specie di esercizio diurno e direi quasi di passatempo, quando non hanno di meglio.