Attilio Regolo/Atto secondo

Atto secondo

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ATTO SECONDO

SCENA I

Logge a vista di Roma nel palazzo suburbano destinato agli ambasciadori cartaginesi.

Regolo e Publio.

Regolo. Publio, tu qui! Si tratta

della gloria di Roma,
dell’onor mio, del pubblico riposo,
e in senato non sei?
Publio.   Raccolto ancora,
signor, non è.
Regolo.   Va’, non tardar; sostieni
fra i padri il voto mio; mostrati degno
dell’origine tua.
Publio.   Come! e m’imponi
che a fabbricar m’adopri
io stesso il danno tuo?
Regolo.   Non è mio danno
quel che giova alla patria.
Publio.   Ah, di te stesso,
signore, abbi pietá!
Regolo.   Publio, tu stimi
dunque un furore il mio? Credi ch’io solo,
fra ciò che vive, odii me stesso? Oh, quanto
t’inganni! Al par d’ogni altro,

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bramo il mio ben, fuggo il mio mal. Ma questo

trovo sol nella colpa, e quello io trovo
nella sola virtú. Colpa sarebbe
della patria col danno
ricuperar la libertá smarrita;
ond’è mio mal la libertá, la vita:
virtú col proprio sangue
è della patria assicurar la sorte;
ond’è mio ben la servitú, la morte.
Publio. Pur la patria non è...
Regolo.   La patria è un tutto,
di cui siam parti. Al cittadino è fallo
considerar se stesso
separato da lei. L’utile o il danno,
ch’ei conoscer dee solo, è ciò che giova
o nuoce alla sua patria, a cui di tutto
è debitor. Quando i sudori e il sangue
sparge per lei, nulla del proprio ei dona:
rende sol ciò che n’ebbe. Essa il produsse,
l’educò, lo nudrí. Con le sue leggi
dagl’insulti domestici il difende,
dagli esterni con l’armi. Ella gli presta
nome, grado ed onor; ne premia il merto;
ne vendica le offese; e, madre amante,
a fabbricar s’affanna
la sua felicitá, per quanto lice
al destin de’ mortali esser felice.
Han tanti doni, è vero,
il peso lor. Chi ne ricusa il peso,
rinunci al benefizio; a far si vada
d’inospite foreste
mendico abitatore; e lá, di poche
misere ghiande e d’un covil contento,
viva libero e solo a suo talento.
Publio. Adoro i detti tuoi. L’alma convinci,
ma il cor non persuadi. Ad ubbidirti

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la natura repugna. Alfin son figlio:

non lo posso obbliar.
Regolo.   Scusa infelice
per chi nacque romano. Erano padri
Bruto, Manlio, Virginio...
Publio.   È ver; ma questa
troppo eroica costanza
sol fra’ padri restò. Figlio non vanta
Roma finor, che a proccurar giungesse
del genitor lo scempio.
Regolo. Dunque aspira all’onor del primo esempio.
Va’.
Publio.   Deh!...
Regolo.   Non piú. Della mia sorte attendo
la notizia da te.
Publio.   Troppo pretendi,
troppo, o signor.
Regolo.   Mi vuoi straniero o padre?
Se stranier, non posporre
l’util di Roma al mio; se padre, il cenno
rispetta e parti.
Publio.   Ah! se mirar potessi
i moti del cor mio, rigido meno
forse con me saresti.
Regolo.   Or dal tuo core
prove io vo’ di costanza e non d’amore.
Publio.   Ah! se provar mi vuoi,
     chiedimi, o padre, il sangue;
     e tutto a’ piedi tuoi,
     padre, lo verserò.
          Ma che un tuo figlio istesso
     debba volerti oppresso?
     gran genitor, perdona,
     tanta virtú non ho. (parte)

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SCENA II

Regolo, poi Manlio.

Regolo. Il gran punto s’appressa, ed io pavento

che vacillino i padri. Ah! voi, di Roma
deitá protettrici, a lor piú degni
sensi inspirate.
Manlio.   A custodir l’ingresso
rimangano i littori, e alcun non osi
qui penetrar.
Regolo.   (Manlio! a che viene?)
Manlio.   Ah! lascia
che al sen ti stringa, invitto eroe.
Regolo.   Che tenti!
Un console...
Manlio.   Io nol sono,
Regolo, adesso: un uom son io, che adora
la tua virtú, la tua costanza; un grande
emulo tuo, che a dichiarar si viene
vinto da te; che, confessando ingiusto
l’avverso genio antico,
chiede l’onor di diventarti amico.
Regolo. Dell’alme generose
solito stil. Piú le abbattute piante
non urta il vento o le solleva. Io deggio
cosí nobile acquisto
alla mia servitú.
Manlio.   Sí, questa appieno
qual tu sei mi scoperse, e mai sí grande,
com’or fra’ ceppi, io non ti vidi. A Roma
vincitor de’ nemici
spesso tornasti: or vincitor ritorni
di te, della fortuna. I lauri tuoi

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mossero invidia in me; le tue catene

destan rispetto. Allora
un eroe, lo confesso,
Regolo mi parea; ma un nume adesso.
Regolo. Basta, basta, signor: la piú severa
misurata virtú tentan le lodi
in un labbro sí degno. Io ti son grato,
che d’illustrar con l’amor tuo ti piaccia
gli ultimi giorni miei.
Manlio.   Gli ultimi giorni!
Conservarti io pretendo
lungamente alla patria; e, affinché sia
in tuo favor l’offerto cambio ammesso,
tutto in uso porrò.
Regolo. (turbandosi) Cosí cominci,
Manlio, ad essermi amico? E che faresti,
se ancor m’odiassi? In questa guisa il frutto
del mio rossor tu mi defraudi. A Roma
io non venni a mostrar le mie catene
per destarla a pietá: venni a salvarla
dal rischio d’un’offerta
che accettar non si dee. Se non puoi darmi
altri pegni d’amor, torna ad odiarmi.
Manlio. Ma il ricusato cambio
produrria la tua morte.
Regolo.   E questo nome
sí terribil risuona
nell’orecchie di Manlio! Io non imparo
oggi che son mortale. Altro il nemico
non mi torrá che quel che tôrmi in breve
dee la natura; e volontario dono
sará cosí quel che saría fra poco
necessario tributo. Il mondo apprenda
ch’io vissi sol per la mia patria; e, quando
viver piú non potei,
resi almen la mia morte utile a lei.

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Manlio. Oh detti! oh sensi! oh fortunato suolo,

che tai figli produci! E chi potrebbe
non amarti, signor?
Regolo.   Se amar mi vuoi,
amami da romano. Eccoti i patti
della nostra amistá. Facciamo entrambi
un sacrifizio a Roma: io della vita,
tu dell’amico. È ben ragion che costi
della patria il vantaggio
qualche pena anche a te. Va’; ma prometti
che de’ consigli miei tu nel senato
ti farai difensore. A questa legge
sola, di Manlio io l’amicizia accetto.
Che rispondi, signor?
Manlio. (pensa prima di rispondere) Sí, lo prometto.
Regolo. Or de’ propizi numi
in Manlio amico io riconosco un dono.
Manlio. Ah! perché fra que’ ceppi anch’io non sono?
Regolo. Non perdiamo i momenti. Ormai raccolti
forse saranno i padri. Alla tua fede
della patria il decoro,
la mia pace abbandono e l’onor mio.
Manlio. Addio, gloria del Tebro.
Regolo.   Amico, addio. (abbracciandosi)
Manlio.   Oh qual fiamma di gloria, d’onore
     scorrer sento per tutte le vene,
     alma grande, parlando con te!
          No; non vive sí timido core,
     che, in udirti, con quelle catene
     non cambiasse la sorte d’un re. (parte)

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SCENA III

Regolo e Licinio.

Regolo. A respirar comincio: i miei disegni

il fausto ciel seconda.
Licinio. (molto lieto) Alfin ritorno
con piú contento a rivederti.
Regolo.   E donde
tanta gioia, o Licinio?
Licinio.   Ho il cor ripieno
di felici speranze. Infino ad ora
per te sudai.
Regolo.   Per me!
Licinio.   Sí. Mi credesti
forse ingrato cosí, ch’io mi scordassi
gli obblighi miei nel maggior uopo? Ah! tutto
mi rammento, signor. Tu sol mi fosti
duce, maestro e padre. I primi passi
mossi, te condottiero,
per le strade d’onor; tu mi rendesti...
Regolo. Alfine, in mio favor, di’, che facesti? (impaziente)
Licinio. Difesi la tua vita
e la tua libertá.
Regolo. (turbato) Come?
Licinio.   All’ingresso
del tempio, ove il senato or si raccoglie,
attesi i padri, e ad uno ad un li trassi
nel desio di salvarti.
Regolo.   (Oh dèi, che sento!)
E tu...
Licinio.   Solo io non fui. Non si defraudi
la lode al merto. Io feci assai; ma fece
Attilia piú di me.

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Regolo.   Chi?

Licinio.   Attilia. In Roma
figlia non v’è d’un genitor piú amante.
Come parlò! che disse!
quanti affetti destò! Come compose
il dolor col decoro! in quanti modi
rimproveri mischiò, preghiere e lodi!
Regolo. E i padri?
Licinio.   E chi resiste
agli assalti d’Attilia? Eccola: osserva
come ride in quel volto
la novella speranza.

SCENA IV

Attilia e detti.

Attilia.   Amato padre,

pure una volta...
Regolo. (serio e torbido) E ardisci
ancor venirmi innanzi? Ah! non contai
te fin ad or fra’ miei nemici.
Attilia.   Io, padre,
io tua nemica!
Regolo. (come sopra) E tal non è chi folle
s’oppone a’ miei consigli?
Attilia.   Ah! di giovarti
dunque il desio d’inimicizia è prova?
Regolo. Che sai tu quel che nuoce o quel che giova?
  (con isdegno)
Delle pubbliche cure
chi a parte ti chiamò? Della mia sorte
chi ti fe’ protettrice? Onde...
Licinio.   Ah! signore,
troppo...

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Regolo. (come sopra) Parla Licinio! Assai, tacendo,

meglio si difendea: pareva almeno
pentimento il silenzio. Eterni dèi!
una figlia!... un roman!
Attilia.   Perché son figlia...
Licinio. Perché roman son io, credei che oppormi
al tuo fato inumano...
Regolo.   Taci: non è romano (a Licinio)
     chi una viltá consiglia.
     Taci: non è mia figlia (ad Attilia)
     chi piú virtú non ha.
          Or sí de’ lacci il peso
     per vostra colpa io sento,
     or sí la mia rammento
     perduta libertá. (parte)

SCENA V

Attilia e Licinio.

Attilia. Ma di’: credi, o Licinio,

che mai di me nascesse
piú sfortunata donna? Amare un padre,
affannarsi a suo pro, mostrar per lui
di tenera pietade il cor trafitto
saría merito ad altri: è a me delitto.
Licinio. No, consolati, Attilia, e non pentirti
dell’opera pietosa. Altro richiede
il dover nostro, ed altro
di Regolo il dover. Se gloria è a lui
della vita il disprezzo, a noi sarebbe
empietá non salvarlo. Alfin vedrai
che grato ei ci sará. Non ti spaventi
lo sdegno suo. Spesso l’infermo accusa
di crudel, d’inumana
quella medica man che lo risana.

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Attilia. Que’ rimproveri acerbi

mi trafiggono il cor: non ho costanza
per soffrir l’ire sue.
Licinio.   Ma di’: vorresti
pria d’un tal genitor vederti priva?
Attilia. Ah! questo no: mi sia sdegnato, e viva.
Licinio. Vivrá. Cessi quel pianto:
tornatevi di nuovo,
begli occhi, a serenar. Se veggo, oh Dio!
mestizia in voi, perdo coraggio anch’io.
               Da voi, cari lumi,
          dipende il mio stato:
          voi siete i miei numi:
          voi siete il mio fato:
          a vostro talento
          mi sento — cangiar.
               Ardir m’inspirate,
          se lieti splendete;
          se torbidi siete,
          mi fate — tremar. (parte)

SCENA VI

Attilia sola.

Ah! che pur troppo è ver: non han misura

della cieca fortuna
i favori e gli sdegni. O de’ suoi doni
è prodiga all’eccesso,
o affligge un cor fin che nol vegga oppresso.
Or l’infelice oggetto
son io dell’ire sue. Mi veggo intorno
di nembi il ciel ripieno;
e chi sa quanti strali avranno in seno.

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          Se piú fulmini vi sono,

     ecco il petto, avversi dèi.
     Me ferite, io vi perdono;
     ma salvate il genitor.
          Un’immagine di voi
     in quell’alma rispettate:
     un esempio a noi lasciate
     di costanza e di valor. (parte)

SCENA VII

Galleria nel palazzo medesimo.

Regolo solo.

Tu palpiti, o mio cor! Qual nuovo è questo

moto incognito a te? Sfidasti ardito
le tempeste del mar, l’ire di Marte,
d’Africa i mostri orrendi,
ed or tremando il tuo destino attendi!
Ah! n’hai ragion: mai non si vide ancora
in periglio sí grande
la gloria mia. Ma questa gloria, oh dèi!
non è dell’alme nostre
un affetto tiranno? Al par d’ogni altro,
domar non si dovrebbe? Ah! no. De’ vili
questo è il linguaggio. Inutilmente nacque
chi sol vive a se stesso; e sol da questo
nobile affetto ad obbliar s’impara
sé per altrui. Quanto ha di ben la terra,
alla gloria si dee. Vendica questa
l’umanitá del vergognoso stato,
in cui saría senza il desio d’onore;
toglie il senso al dolore,
lo spavento a’ perigli,

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alla morte il terror; dilata i regni;

le cittá custodisce; alletta, aduna
seguaci alla virtú; cangia in soavi
i feroci costumi,
e rende l’uomo imitator de’ numi.
Per questa... Aimè! Publio ritorna, e parmi
che timido s’avanzi. E ben, che rechi?
Ha deciso il senato?
qual è la sorte mia?

SCENA VIII

Publio e detto.

Publio.   Signor... (Che pena

per un figlio è mai questa!)
Regolo.   E taci?
Publio.   Oh dèi!
Esser muto vorrei.
Regolo.   Parla.
Publio.   Ogni offerta
il senato ricusa.
Regolo.   Ah! dunque ha vinto
il fortunato alfin genio romano.
Grazie agli dèi! non ho vissuto invano.
Amilcare si cerchi. Altro non resta
che far su queste arene.
La grand’opra compii: partir conviene.
Publio. Padre infelice!
Regolo.   Ed infelice appelli
chi poté, fin che visse,
alla patria giovar?
Publio.   La patria adoro:
piango i tuoi lacci.
Regolo.   È servitú la vita:

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ciascuno ha i lacci suoi. Chi pianger vuole,

pianger, Publio, dovria
la sorte di chi nasce, e non la mia.
Publio. Di quei barbari, o padre,
l’empio furor ti priverá di vita.
Regolo. E la mia servitú sará finita.
Addio. Non mi seguir.
Publio.   Da me ricusi
gli ultimi ancor pietosi uffizi?
Regolo.   Io voglio
altro da te. Mentre a partir m’affretto,
a trattener rimanti
la sconsolata Attilia. Il suo dolore
funesterebbe il mio trionfo. Assai
tenera fu per me. Se forse eccede,
compatiscila, o Publio. Alfin da lei
una viril costanza
pretender non si può. Tu la consiglia;
d’inspirarle proccura
con l’esempio fortezza;
la reggi, la consola; e seco adempi
ogni uffizio di padre. A te la figlia,
te confido a te stesso; e spero... Ah! veggo
che indebolir ti vuoi. Maggior costanza
in te credei: l’avrò creduto invano?
Publio, ah! no: sei mio figlio e sei romano.
          Non tradir la bella speme,
     che di te donasti a noi;
     sul cammin de’ grandi eroi
     incomincia a comparir.
          Fa’ ch’io lasci un degno erede
     degli affetti del mio core,
     che di te senza rossore
     io mi possa sovvenir. (parte)

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SCENA IX

Publio, poi Attilia e Barce, indi Licinio ed Amilcare,
l’uno dopo l’altro e da diverse parti.

Publio. Ah! sí, Publio, coraggio: il passo è forte;

ma vincerti convien. Lo chiede il sangue,
che hai nelle vene; il grand’esempio il chiede,
che sugli occhi ti sta. Cedesti a’ primi
impeti di natura; or meglio eleggi:
il padre imita, e l’error tuo correggi.
Attilia. Ed è vero, o german? (con spavento)
Barce. (come sopra) Publio, ed è vero?
Publio. Sí: decise il senato;
Regolo partirá.
Attilia.   Come!
Barce.   Che dici!
Attilia. Dunque ognun mi tradi?
Barce.   Dunque...
Publio.   Or non giova...
Barce. Amilcare, pietá. (vedendolo da lontano)
Attilia. (come sopra) Licinio, aiuto.
Amilcare. Piú speranza non v’è. (a Barce)
Licinio. (ad Attilia) Tutto è perduto.
Attilia. Dov’è Regolo? Io voglio
almen seco partir.
Publio.   Ferma: l’eccesso
del tuo dolor l’offenderebbe.
Attilia.   E speri
impedirmi cosí?
Publio.   Spero che Attilia
torni alfine in se stessa, e si rammenti
che a lei non è permesso...

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Attilia. Sol che son figlia io mi rammento adesso.

Lasciami.
Publio.   Non sperarlo.
Attilia.   Ah! parte intanto
il genitor.
Barce.   Non dubitar ch’ei parta,
finché Amilcare è qui.
Attilia.   Chi mi consiglia?
chi mi soccorre? Amilcare!
Amilcare.   Io mi perdo
fra l’ira e lo stupor.
Attilia.   Licinio!
Licinio.   Ancora
dal colpo inaspettato
respirar non poss’io.
Attilia.   Publio!
Publio.   Ah! germana,
piú valor, piú costanza. Il fato avverso
come si soffra, il genitor ci addita:
non è degno di lui chi non l’imíta.
Attilia. E tu parli cosí? tu, che dovresti
i miei trasporti accompagnar gemendo!
Io non t’intendo, o Publio.
Amilcare.   Ed io l’intendo.
Barce è la fiamma sua; Barce non parte,
se Regolo non resta: ecco la vera
cagion del suo coraggio.
Publio. (Questo pensar di me! Stelle, che oltraggio!)
Amilcare. Forse, affinché il senato
non accettasse il cambio, ei pose in opra
tutta l’arte e l’ingegno.
Publio. Il dubbio inver d’un africano è degno.
Amilcare. E pur...
Publio.   Taci, e m’ascolta.
Sai che l’arbitro io sono
della sorte di Barce?

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Amilcare.   Il so. L’ottenne

giá dal senato in dono
la madre tua; questa cedendo al fato,
signor di lei tu rimanesti.
Publio.   Or odi
qual uso io fo del mio dominio. Amai
Barce piú della vita,
ma non quanto l’onor. So che un tuo pari
creder nol può; ma toglierò ben io
di sí vili sospetti
ogni pretesto alla calunnia altrui.
Barce, libera sei: parti con lui.
Barce. Numi! ed è ver?
Amilcare.   D’una virtú sí rara...
Publio. Come s’ama fra noi, barbaro, impara. (parte)

SCENA X

Licinio, Attilia, Barce ed Amilcare.

Attilia. Vedi il crudel come mi lascia!

  (a Licinio, che non l’ode)
Barce.   Udisti
come Publio parlò? (ad Amilcare, come sopra)
Attilia. (a Licinio) Tu non rispondi!
Barce. Tu non m’odi, idol mio! (ad Amilcare)
Amilcare. Addio, Barce: m’attendi.
  (risoluto, incamminandosi per partire)
Licinio. (come sopra) Attilia, addio.

Attilia. Dove?
Barce.
Licinio. (ad Attilia) A salvarti il padre.

Amilcare. Regolo a conservar. (a Barce)
Attilia. (a Licinio) Ma per qual via?
Barce. Ma come? (ad Amilcare)

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Licinio. (ad Attilia) A’ mali estremi

diasi estremo rimedio.
Amilcare. (a Barce) Abbia rivali
nella virtú questo romano orgoglio.
Attilia. Esser teco vogl’io. (a Licinio)
Barge. (ad Amilcare) Seguirti io voglio.
Licinio. No: per te tremerei. (ad Attilia)
Amilcare. No: rimaner tu déi. (a Barce)
Barce. (ad Amilcare) Né vuoi spiegarti?
Attilia. Né vuoi ch’io sappia almen... (a Licinio)
Licinio. (ad Attilia) Tutto fra poco
saprai.
Amilcare.   Fidati a me. (a Barce)
Licinio.   Regolo in Roma
si trattenga, o si mora. (parte)
Amilcare. Faccia pompa d’eroi l’Africa ancora.
  (s’incammina, e poi si rivolge)
          Se minore è in noi l’orgoglio,
     la virtú non è minore;
     né per noi la via d’onore
     è un incognito sentier.
          Lungi ancor dal Campidoglio
     vi son alme a queste uguali;
     pur del resto de’ mortali
     han gli dèi qualche pensier. (parte)

SCENA XI

Attilia e Barce.

Attilia. Barce!

Barce.   Attilia!
Attilia.   Che dici?
Barce. Che possiamo sperar?
Attilia.   Non so. Tumulti
certo a destar corre Licinio; e questi

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esser ponno funesti

alla patria ed a lui, senza che il padre
per ciò si salvi.
Barce.   Amilcare, sorpreso
dal grand’atto di Publio e punto insieme
da’ rimproveri suoi, men generoso
esser non vuol di lui. Chi sa che tenta
e a qual rischio s’espone?
Attilia.   Il mio Licinio
deh! secondate, o dèi.
Barce.   Lo sposo mio,
numi, assistete!
Attilia.   Io non ho fibra in seno
che non mi tremi.
Barce.   Attilia,
non dobbiamo avvilirci. Alfin piú chiaro
è adesso il ciel di quel che fu: si vede
pur di speranza un raggio.
Attilia. Ah! Barce, è ver: ma non mi dá coraggio.
          Non è la mia speranza
     luce di ciel sereno;
     di torbido baleno
     è languido splendor:
          splendor, che in lontananza
     nel comparir si cela;
     che il rischio, oh Dio! mi svela,
     ma non lo fa minor. (parte)

SCENA XII

Barce sola.

Rassicurar proccuro

l’alma d’Attilia oppressa:
ardir vo consigliando, e tremo io stessa.

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Ebbi assai piú coraggio,

quando meno sperai. La téma incerta
solo allor m’affliggea d’un mal futuro:
or di perder pavento un ben sicuro.
               S’espone a perdersi
          nel mare infido
          chi l’onde instabili
          solcando va.
               Ma quel sommergersi
          vicino al lido
          è troppo barbara
          fatalitá.