Attilio Regolo/Atto terzo

Atto terzo

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Atto secondo
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ATTO TERZO

SCENA I

Sala terrena corrispondente a’ giardini.

Regolo, guardie africane, poi Manlio.

Regolo. Ma che si fa? Non seppe

forse ancor del senato
Amilcare il voler? Dov’è? Si trovi:
partir convien. Qui che sperar per lui,
per me non v’è piú che bramar. Diventa
colpa ad entrambi or la dimora.
(vedendo venir Manlio) Ah! vieni
vieni, amico, al mio seno. Era in periglio
senza te la mia gloria: i ceppi miei
per te conservo; a te si deve il frutto
della mia schiavitú.
Manlio.   Sí, ma tu parti;
sí, ma noi ti perdiam.
Regolo.   Mi perdereste,
s’io non partissi.
Manlio.   Ah! perché mai sí tardi
incomincio ad amarti? Altri finora,
Regolo, non avesti
pegni dell’amor mio, se non funesti.
Regolo. Pretenderne maggiori
da un vero amico io non potea; ma pure,

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se il generoso Manlio altri vuol darne,

altri ne chiederò.
Manlio.   Parla.
Regolo.   Compíto
ogni dover di cittadino, alfine
mi sovvien che son padre. Io lascio in Roma
due figli, il sai: Publio ed Attilia; e questi
son del mio cor, dopo la patria, il primo,
il piú tenero affetto. In lor traluce
indole non volgar; ma sono ancora
piante immature, e di cultor prudente
abbisognano entrambi. Il ciel non volle
che l’opera io compissi. Ah! tu ne prendi
per me pietosa cura;
tu di lor con usura
la perdita compensa. Al tuo bel core
debbano e a’ tuoi consigli
la gloria il padre, e l’assistenza i figli.
Manlio. Sí, tel prometto: i preziosi germi
custodirò geloso. Avranno un padre,
se non degno cosí, tenero almeno
al par di te. Della virtú romana
io lor le tracce additerò. Né molto
sudor mi costerá. Basta a quell’alme,
di bel desio giá per natura accese,
l’istoria udir delle paterne imprese.
Regolo. Or sí piú non mi resta...

SCENA II

Publio e detti.

Publio. Manlio! padre!

Regolo.   Che avvenne?
Publio. Roma tutta è in tumulto; il popol freme;
non si vuol che tu parta.

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Regolo.   E sará vero

che un vergognoso cambio
possa Roma bramar?
Publio.   No: cambio o pace
Roma non vuol; vuol che tu resti.
Regolo.   Io! come?
E la promessa? e il giuramento?
Publio.   Ognuno
grida che fé non déssi
a perfidi serbar.
Regolo.   Dunque un delitto
scusa è dell’altro. E chi sará piú reo,
se l’esempio è discolpa?
Publio.   Or si raduna
degli áuguri il collegio: ivi deciso
il gran dubbio esser deve.
Regolo.   Uopo di questo
oracolo io non ho. So che promisi:
voglio partir. Potea
della pace o del cambio
Roma deliberar: del mio ritorno
a me tocca il pensier. Pubblico quello,
questo è privato affar. Non son qual fui;
né Roma ha dritto alcun sui servi altrui.
Publio. Degli áuguri il decreto
s’attenda almen.
Regolo.   No: se l’attendo, approvo
la loro autoritá. Custodi, al porto. (agli africani)
Amico, addio. (a Manlio, partendo)
Manlio.   No, Regolo: se vai
fra la plebe commossa, a viva forza
può trattenerti; e tu, se ciò succede,
tutta Roma fai rea di poca fede.
Regolo. Dunque mancar degg’io?...
Manlio.   No, andrai; ma lascia
che quest’impeto io vada

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prima a calmar. Ne sederá l’ardore

la consolare autoritá.
Regolo.   Rimango,
Manlio, su la tua fé; ma...
Manlio.   Basta: intendo.
La tua gloria desio,
e conosco il tuo cor: fidati al mio.
               Fidati pur: rammento
          che nacqui anch’io romano;
          al par di te mi sento
          fiamme di gloria in sen.
               Mi niega, è ver, la sorte
          le illustri tue ritorte;
          ma, se le bramo invano,
          so meritarle almen. (parte)

SCENA III

Regolo, Publio.

Regolo. E tanto or costa in Roma,

tanto or si suda a conservar la fede!
Dunque... Ah! Publio, e tu resti? e sí tranquillo
tutto lasci all’amico
d’assistermi l’onor? Corri, proccura
tu ancor la mia partenza. Esser vorrei
di sí gran benefizio
debitore ad un figlio.
Publio.   Ah! padre amato,
ubbidirò; ma...
Regolo.   Che? sospiri! Un segno
quel sospiro saría d’animo oppresso?
Publio.   Sí, lo confesso,
          morir mi sento;
          ma questo istesso
          crudel tormento

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          è il piú bel merito

          del mio valor.
               Qual sacrifizio,
          padre, farei,
          se fosse il vincere
          gli affetti miei
          opra sí facile
          per questo cor? (parte)

SCENA IV

Regolo ed Amilcare.

Amilcare. Regolo, alfin...

Regolo.   Senza che parli, intendo
giá le querele tue. Non ti sgomenti
il moto popolar: Regolo in Roma
vivo non resterá.
Amilcare.   Non so di quali
moti mi vai parlando. Io querelarmi
teco non voglio. A sostenerti io venni
che solo al Tebro in riva
non nascono gli eroi;
che vi sono alme grandi anche fra noi.
Regolo. Sia. Non è questo il tempo
d’inutili contese. I tuoi raccogli,
t’appresta alla partenza.
Amilcare. No. Pria m’odi, e rispondi.
Regolo.   (Oh sofferenza!)
Amilcare. È gloria l’esser grato?
Regolo. L’esser grato è dover; ma giá sí poco
questo dover s’adempie,
ch’oggi è gloria il compirlo.
Amilcare.   E se il compirlo
costasse un gran periglio?

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Regolo.   Ha il merto allora

d’un’illustre virtú.
Amilcare.   Dunque non puoi
questo merto negarmi. Odi. Mi rende,
del proprio onor geloso,
la mia Barce il tuo figlio, e pur l’adora:
io, generoso ancora,
vengo il padre a salvargli, e pur m’espongo
di Cartago al furor.
Regolo.   Tu vuoi salvarmi!
Amilcare. Io.
Regolo.   Come?
Amilcare.   A te lasciando
agio a fuggir. Questi custodi ad arte
allontanar farò. Tu cauto in Roma
célati sol fin tanto
che senza te con simulato sdegno
quindi l’ancore io sciolga.
Regolo. (Barbaro!)
Amilcare.   E ben, che dici?
ti sorprende l’offerta?
Regolo.   Assai.
Amilcare.   L’avresti
aspettata da me?
Regolo.   No.
Amilcare.   Pur la sorte
non ho d’esser roman.
Regolo.   Si vede.
Amilcare.   Andate,
custodi... (agli africani)
Regolo.   Alcun non parta! (a’ medesimi)
Amilcare. Perché?
Regolo.   Grato io ti sono
del buon voler; ma verrò teco.
Amilcare.   E sprezzi
la mia pietá?

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Regolo.   No: ti compiango. Ignori

che sia virtú. Mostrar virtú pretendi;
e me, la patria tua, te stesso offendi.
Amilcare. Io!
Regolo.   Sí. Come disponi
della mia libertá? Servo son io
di Cartago o di te?
Amilcare.   Non è tuo peso
l’esaminar se il benefizio...
Regolo.   È grande
il benefizio in ver! Rendermi reo,
profugo, mentitor...
Amilcare.   Ma qui si tratta
del viver tuo. Sai che supplizi atroci
Cartago t’apprestò? sai quale scempio
lá si fará di te?
Regolo.   Ma tu conosci,
Amilcare, i romani?
sai che vivon d’onor? che questo solo
è sprone all’opre lor, misura, oggetto?
Senza cangiar d’aspetto,
qui s’impara a morir; qui si deride,
pur che gloria produca, ogni tormento;
e la sola viltá qui fa spavento.
Amilcare. Magnifiche parole,
belle ad udir; ma inopportuno è meco
quel fastoso linguaggio. Io so che a tutti
la vita è cara, e che tu stesso...
Regolo.   Ah! troppo
di mia pazienza abusi. I legni appresta,
raduna i tuoi seguaci,
compisci il tuo dover, barbaro, e taci.
Amilcare.   Fa’ pur l’intrepido,
          m’insulta audace,
          chiama pur barbara
          la mia pietá.

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               Sul Tebro Amilcare

          t’ascolta e tace;
          ma presto in Africa
          risponderá. (parte)

SCENA V

Regolo ed Attilia.

Regolo. E Publio non ritorna!

E Manlio... Aimè! Che rechi mai sí lieta,
sí frettolosa, Attilia?
Attilia.   Il nostro fato
giá dipende da te. Giá cambio o pace,
fida a’ consigli tuoi,
Roma non vuol; ma rimaner tu puoi.
Regolo. Sí, col rossor...
Attilia.   No: su tal punto il sacro
senato pronunciò. L’arbitro sei
di partir, di restar. «Giurasti in ceppi;
né obbligar può se stesso
chi libero non è».
Regolo.   Libero è sempre
chi sa morir. La sua viltá confessa
chi l’altrui forza accusa.
Io giurai, perché volli;
voglio partir, perché giurai.

SCENA VI

Publio e detti.

Publio.   Ma invano,

signor, lo speri.
Regolo.   E chi potrá vietarlo?
Publio. Tutto il popolo, o padre: è affatto ormai

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incapace di fren. Per impedirti

il passaggio alle navi, ognun s’affretta
precipitando al porto; e son di Roma
giá l’altre vie deserte.
Regolo.   E Manlio?
Publio.   È il solo
che ardisca opporsi ancora
al voto universal. Prega, minaccia;
ma tutto inutilmente. Alcun non l’ode,
non l’ubbidisce alcun. Cresce a momenti
la furia popolar. Giá su le destre
ai pallidi littori
treman le scuri, e non ritrova ormai
in tumulto sí fiero
esecutori il consolare impero.
Regolo. Attilia, addio: Publio, mi siegui. (in atto di partire)
Attilia.   E dove?
Regolo. A soccorrer l’amico; il suo delitto
a rinfacciare a Roma; a conservarmi
l’onor di mie catene;
a partire o a spirar su queste arene. (partendo)
Attilia. Ah, padre! ah, no! Se tu mi lasci... (piangendo)
Regolo. (serio, ma senza sdegno) Attilia,
molto al nome di figlia,
al sesso ed all’etá finor donai:
basta; si pianse assai. Per involarmi
d’un gran trionfo il vanto,
non congiuri con Roma anche il tuo pianto.
Attilia. Ah! tal pena è per me... (piangendo)
Regolo.   Per te gran pena
è il perdermi, lo so. Ma tanto costa
l’onor d’esser romana.
Attilia.   Ogni altra prova
son pronta...
Regolo.   E qual? Co’ tuoi consigli andrai
forse fra i padri a regolar di Roma

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in senato il destin? con l’elmo in fronte

forse i nemici a debellar pugnando
fra l’armi suderai? Qualche disastro
se a soffrir per la patria atta non sei
senza viltá, di’: che farai per lei?
Attilia. È ver; ma tal costanza...
Regolo. È difficil virtú; ma Attilia alfine
è mia figlia e l’avrá. (partendo)
Attilia.   Sí, quanto io possa,
gran genitor, t’imiterò. Ma... oh Dio!
tu mi lasci sdegnato:
io perdei l’amor tuo.
Regolo.   No, figlia: io t’amo,
io sdegnato non son. Prendine in pegno
questo amplesso da me. Ma questo amplesso
costanza, onor, non debolezza inspiri.
Attilia. Ah! sei padre, mi lasci, e non sospiri!
Regolo.   Io son padre, e nol sarei,
          se lasciassi a’ figli miei
          un esempio di viltá.
               Come ogni altro, ho core in petto;
          ma vassallo è in me l’affetto;
          ma tiranno in voi si fa. (parte con Publio)

SCENA VII

Attilia, poi Barce.

Attilia. Su! costanza, o mio cor. Deboli affetti,

sgombrate da quest’alma; inaridite
ormai su queste ciglia,
lagrime imbelli. Assai si pianse; assai
si palpitò. La mia virtú natia
sorga al paterno sdegno;

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ed Attilia non sia

il ramo sol di sí gran pianta indegno.
Barce. Attilia, è dunque ver? Dunque a dispetto
del popol, del senato,
degli áuguri, di noi, del mondo intero
Regolo vuol partir?
Attilia. (con fermezza) Sí.
Barce.   Ma che insano
furor?
Attilia. (come sopra) Piú di rispetto,
Barce, agli eroi.
Barge.   Come! del padre approvi
l’ostinato pensier?
Attilia.   Del padre adoro
la costante virtú.
Barce.   Virtú che a’ ceppi,
che all’ire altrui, che a vergognosa morte
certamente dovrá...
Attilia. (s’intenerisce di nuovo) Taci. Quei ceppi,
quell’ire, quel morir del padre mio
saran trionfi.
Barce.   E tu n’esulti?
Attilia. (piange) (Oh Dio!)
Barce. Capir non so...
Attilia.   Non può capir chi nacque
in barbaro terren per sua sventura
come al paterno vanto
goda una figlia.
Barce.   E perché piangi intanto?
Attilia.   Vuol tornar la calma in seno,
     quando in lagrime si scioglie
     quel dolor che la turbò;
          come torna il ciel sereno,
     quel vapor, che i rai ci toglie,
     quando in pioggia si cangiò. (parte)

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SCENA VIII

Barce sola.

Che strane idee questa produce in Roma

aviditá di lode! Invidia i ceppi
Manlio del suo rival; Regolo abborre
la pubblica pietá; la figlia esulta
nello scempio del padre! E Publio... Ah! questo
è caso inver che ogni credenza eccede:
e Publio, ebro d’onor, m’ama e mi cede!
               Ceder l’amato oggetto,
          né spargere un sospiro,
          sará virtú, l’ammiro;
          ma non la curo in me.
               Di gloria un’ombra vana
          in Roma è il solo affetto;
          ma l’alma mia romana,
          lode agli dèi, non è. (parte)

SCENA IX

Portici magnifici su le rive del Tevere. Navi pronte nel fiume per l’imbarco di Regolo. Ponte che conduce alla piú vicina di quelle. Popolo numeroso che impedisce il passaggio alle navi. Africani su le medesime. Littori col console.

Manlio e Licinio.

Licinio. No, che Regolo parta

Roma non vuole.
Manlio.   Ed il senato ed io
non siam parte di Roma?

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Licinio.   Il popol tutto

è la maggior!
Manlio.   Non la piú sana.
Licinio.   Almeno
la men crudel. Noi conservar vogliamo,
pieni di gratitudine e d’amore,
a Regolo la vita.
Manlio.   E noi l’onore.
Licinio. L’onor...
Manlio.   Basta: io non venni
a garrir teco. Olá! libero il varco
lasci ciascuno. (al popolo)
Licinio. (al medesimo) Olá! nessun si parta.
Manlio. Io l’impongo.
Licinio.   Io lo vieto.
Manlio.   Osa Licinio
al console d’opporsi?
Licinio.   Osa al tribuno
d’opporsi Manlio?
Manlio.   Or si vedrá. Littori,
sgombrate il passo!
  (i littori, innalzando le scuri, tentano avanzarsi)
Licinio.   Il passo
difendete, o romani! (al popolo, che si mette in difesa)
Manlio.   Oh dèi! con l’armi
si resiste al mio cenno? In questa guisa
la maestá...
Licinio.   La maestade in Roma
nel popolo risiede; e tu l’oltraggi,
contrastando con lui.
Popolo. Regolo resti!
Manlio. (al popolo)Udite:
lasciate che l’inganno io manifesti.
Popolo. Resti Regolo!
Manlio.   Ah! voi...
Popolo.   Regolo resti!

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SCENA ULTIMA

Regolo, e seco tutti.

Regolo. «Regolo resti»! Ed io l’ascolto! ed io

creder deggio a me stesso! Una perfidia
si vuol! si vuole in Roma!
si vuol da me! Quai popoli or produce
questo terren! Sí vergognosi voti
chi formò? chi nudrilli?
dove sono i nepoti
de’ Bruti, de’ Fabrizi e de’ Camilli?
«Regolo resti»! Ah! per qual colpa e quando
meritai l’odio vostro?
Licinio.   È il nostro amore,
signor, quel che pretende
franger le tue catene.
Regolo.   E senza queste
Regolo che sará? Queste mi fanno
de’ posteri l’esempio,
il rossor de’ nemici,
lo splendor della patria; e piú non sono,
se di queste mi privo,
che uno schiavo spergiuro e fuggitivo.
Licinio. A perfidi giurasti,
giurasti in ceppi; e gli áuguri...
Regolo.   Eh! lasciamo
all’Arabo ed al Moro
questi d’infedeltá pretesti indegni.
Roma a’ mortali a serbar fede insegni.
Licinio. Ma che sará di Roma,
se perde il padre suo?
Regolo.   Roma rammenti
che il suo padre è mortal, che alfin vacilla

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anch’ei sotto l’acciar, che sente alfine

anch’ei le vene inaridir, che ormai
non può versar per lei
né sangue né sudor, che non gli resta
che finir da romano. Ah! m’apre il cielo
una splendida via: de’ giorni miei
posso l’annoso stame
troncar con lode, e mi volete infame!
No, possibil non è: de’ miei romani
conosco il cor. Da Regolo diverso
pensar non può chi respirò, nascendo,
l’aure del Campidoglio. Ognun di voi
so che nel cor m’applaude;
so che m’invidia, e che, fra’ moti ancora
di quel, che l’ingannò, tenero eccesso,
fa voti al ciel di poter far l’istesso.
Ah! non piú debolezza. A terra, a terra
quell’armi inopportune! Al mio trionfo
piú non tardate il corso,
o amici, o figli, o cittadini. Amico,
favor da voi domando;
esorto, cittadin; padre, comando.
Attilia. (Oh Dio! ciascun giá l’ubbidisce.)
Publio.   (Oh Dio!
ecco ogni destra inerme.)
Licinio. Ecco sgombro il sentier.
Regolo.   Grazie vi rendo,
propizi dèi: libero è il passo. Ascendi,
Amilcare, alle navi;
io sieguo i passi tui.
Amilcare. (Alfin comincio ad invidiar costui.) (sale sulla nave)
Regolo. Romani, addio. Siano i congedi estremi
degni di noi. Lode agli dèi, vi lascio,
e vi lascio romani. Ah! conservate
illibato il gran nome; e voi sarete
gli arbitri della terra, e il mondo intero

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roman diventerá. Numi custodi

di quest’almo terren, dèe protettrici
della stirpe d’Enea, confido a voi
questo popol d’eroi: sian vostra cura
questo suol, questi tetti e queste mura.
Fate che sempre in esse
la costanza, la fé, la gloria alberghi,
la giustizia, il valore. E, se giammai
minaccia al Campidoglio
alcun astro maligno influssi rei,
ecco Regolo, o dèi: Regolo solo
sia la vittima vostra, e si consumi
tutta l’ira del ciel sul capo mio.
Ma Roma illesa... Ah! qui si piange: addio!
Romani.   Onor di questa sponda,
          padre di Roma, addio.
          Degli anni e dell’obblio
          noi trionfiam per te.
               Ma troppo costa il vanto;
          Roma ti perde intanto;
          ed ogni etá feconda
          di Regoli non è.