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atto secondo 155


          Se piú fulmini vi sono,

     ecco il petto, avversi dèi.
     Me ferite, io vi perdono;
     ma salvate il genitor.
          Un’immagine di voi
     in quell’alma rispettate:
     un esempio a noi lasciate
     di costanza e di valor. (parte)

SCENA VII

Galleria nel palazzo medesimo.

Regolo solo.

Tu palpiti, o mio cor! Qual nuovo è questo

moto incognito a te? Sfidasti ardito
le tempeste del mar, l’ire di Marte,
d’Africa i mostri orrendi,
ed or tremando il tuo destino attendi!
Ah! n’hai ragion: mai non si vide ancora
in periglio sí grande
la gloria mia. Ma questa gloria, oh dèi!
non è dell’alme nostre
un affetto tiranno? Al par d’ogni altro,
domar non si dovrebbe? Ah! no. De’ vili
questo è il linguaggio. Inutilmente nacque
chi sol vive a se stesso; e sol da questo
nobile affetto ad obbliar s’impara
sé per altrui. Quanto ha di ben la terra,
alla gloria si dee. Vendica questa
l’umanitá del vergognoso stato,
in cui saría senza il desio d’onore;
toglie il senso al dolore,
lo spavento a’ perigli,