Atti del parlamento italiano (1861)/9
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TORNATA DEL 17 APRILE 1861
PRESIDENZA DEL COMMENDATORE RATTAZZI.
La seduta è aperta all’una e mezzo pomeridiane.
mischi, segretario, dà lettura del processo verbale della tornata precedente.
massari, segretario, espone il seguente sunto di petizioni:
6982. Il sindaco del comune di Monticelli d’Ongina trasmette una petizione dei segretari comunali delle provincie di Parma e di Piacenza, ad oggetto loro siano conservati i diritti già acquistati come impiegati governativi.
6983. Payer-Galletti Ernesto, Ferrari Vittorio e Gelati Pietro, scrivani del tribunale del circondario di Parma, rassegnano un’istanza conforme a quella registrata al n° 6878, sporta dagli scrivani dei tribunali di Torino, di Genova e di Novara.
6984. Solera cavaliere Francesco accenna i suoi servizi militari principiati nel 1804 sotto il primo impero, le fatte campagne, la parte da lui sostenuta nella difesa di Venezia contro gli Austriaci, i gradi conseguiti, e domanda che l’articolo 2° del regio decreto 4 marzo 1860 sia modificato nel senso che gli sia tenuto conto per la giubilazione del grado di luogotenente generale ottenuto da quel Governo provvisorio.
omaggi.
presidente. È stato fatto omaggio alla Camera di 300 esemplari di una memoria: Polonia, ultimi casi di Varsavia.
L’abate Mauro Ferranti, di Ravenna, fa omaggio di dieci copie di un suo scritto al Clero delle Romagne.
Il signor ministro dell’interno fa omaggio alla Camera di 450 esemplari di una Statistica amministrativa del regno d’Italia.
I deputati Piroli e Cantelli fanno omaggio di 370 copie di un estratto degli Atti del Consiglio provinciale di Parma intorno ai beni già patrimoniali dello Stato.
L’avvocato Manucci, in nome dei soci promotori, fa omaggio di 400 esemplari di un progetto di monumento nazionale.
presidente. Ho l’onore di comunicare alla Camera che il signor deputato Mirabelli ha deposto al banco della Presidenza un progetto di legge relativo all’ordinamento giudiziario delle provincie napoletane.
Questo progetto sarà trasmesso agli uffici perchè ne autorizzino la lettura.
minghetti, ministro per l’interno. Ho l’onore di presentare, a nome del mio collega ministro della guerra, un disegno di legge, mercè il quale i sott’ufficiali e soldati del corpo dei carabinieri reali in ritiro possano, riassumendo il servizio, cumulare la pensione di ritiro e la paga di attività.
Debbo anche pregare la Camera di dichiarare l’urgenza di questa legge.
Quando si trattò la questione delle provincie meridionali, fu espresso da quasi tutti i deputati di quelle provincie il desiderio che fosse mandato colà quanto numero si poteva di carabinieri reali. Il ministro, come era suo dovere, si preoccupò grandemente di questo desiderio, che rispondeva ai bisogni di quelle provincie; e, fra gli altri espedienti che gli parvero doversi adottare, vi è quello di richiamare in servizio molti sott’ufficiali e soldati che già servirono nel corpo dei carabinieri reali, e che ne sono usciti o per fine di ferma, o perchè avevano diritto alla giubilazione. Ve ne ha molti, specialmente nelle antiche provincie, che sono perfettamente atti a prestare di nuovo il servizio; e così, senza perdita di tempo, si avrebbe un aumento nel corpo dei carabinieri che permetterà mandarne nelle nuove provincie, dove n’è maggiore il bisogno. Ma, affinchè la chiamata del Governo abbia buon effetto, è necessario modificare un articolo di legge relativo al reclutamento, e un altro sulle pensioni; queste modificazioni tendono ad offrire a quelli che s’arrolarono di nuovo migliori condizioni delle ordinarie; e ciò sembrami giusto.
Ho poi ragione di credere che, in vista dei vantaggi che loro si offrono, non sarà piccolo il numero di quelli che ripiglieranno servizio.
Per questi motivi, e per l’importanza dell’argomento, io spero che la Camera vorrà, come ebbi l’onore di pregarnela, dichiarare d’urgenza il presente progetto di legge.
presidente. La Camera dà atto al signor ministro della presentazione di questo progetto di legge, il quale s’intenderà dichiarato d’urgenza, se nessuno vi si oppone.
(È dichiarato d’urgenza.)
presidente. L’ordine del giorno è il seguito della discussione generale sul progetto di legge concernente l’intestazione degli atti del Governo.
La parola è al deputato Carutti, che è inscritto per discorrere in favore.
carutti. Signori, se la mia volta di parlare mi fosse toccata ieri, avrei rinunziato alla parola, perchè mi era paruto che la Camera desiderasse che questa discussione avesse a terminare prestamente. Ma giacchè oggi continua, mi valgo della facoltà che mi è data, e chiedo di esprimere la mia opinione intorno alla presente legge.
Essa è brevissima; porta in fronte il nome del Re, rende un omaggio alla Divinità, contiene l’affermazione del fatto della volontà nazionale.
Sopra l’ultima parte non ho udita obbiezione alcuna; tutti gli oratori erano d’accordo nel riconoscere che la formazione del nuovo regno, l’avvenimento nel mondo della nuova Italia era il portato, era l’espressione universale della volontà dei popoli italiani.
E, se in cotesta questione potesse esservi alcuna sfumatura, direi, d’impressioni, parmi che questa potrebbe trovarsi in noi, dico, in noi abitatori del vecchio Stato; in noi che non abbiamo potuto, come voi, cittadini delle altre provincie, compiere quella formalità, quel rito, deporre cioè noi pure nell’urna il voto nostro per acclamare il nuovo Re d’Italia.
Ma a questa dolce invidia sottentra la riflessione, e, colla riflessione, nasce, permettete che io lo dica, un giusto orgoglio. Imperocchè a noi non era d’uopo nè di suffragio, nè di urna, nè di rito; noi da lungo tempo avevamo acclamato il Re, per noi la Dinastia era ed è una domestica gloria, un domestico vanto. Nove secoli di storia ci hanno uniti, compenetrati con essa; nove secoli di comunanza nella buona e nella rea fortuna ci hanno fatto comprendere, ci hanno fatto sentire che nel Re e col Re sta la vita nazionale, stanno i destini nostri avvenire, come stettero i destini nostri passati.
Ma questa nostra particolar condizione c’impone un dovere particolare, quello di essere più guardinghi, più gelosi nel conservare, nel custodire le dinastiche tradizioni, e, fin d’ora, quello di mantenere l’integrità del nome del Principe nostro.
L’omaggio alla Divinità, la grazia di Dio incontrò moltiplici oppositori, incontrò grande varietà di appunti e di accuse.
L’onorevole deputato Ferrari, in questa invocazione, ravvisò un’Italia diversa da quella che egli aveva vagheggiata ne’ suoi sogni, ne’ suoi studi; ed io lo credo. Un altro deputato vi scorgeva un pericolo per la libertà di coscienza, per l’indipendenza dello Stato, e, vinto dalla fantasia ardente, gli balenavano già quasi dinanzi agli occhi i roghi dell’inquisizione, le stragi degli Albigesi, l’ecatombe del giorno di San Bartolommeo; vedeva, debbo dirlo? vedeva possibile nel Re d’Italia l’abbiezione imperiale di Canossa. Un terzo ci scopriva un segno di conquista. Il deputato Brofferio, che mi duole di non vedere presente, che ieri non ha parlato, ma che aveva espresso anteriormente il suo sentimento, il deputato Brofferio diceva questa invocazione un pleonasmo.
Infine un altro oratore dubitava che essa fosse indizio d’ipocrisia. Permettete che su quest’ultima accusa io mi fermi anzi tutto; no, permettete anzi che non mi ci fermi, e dica semplicemente che essa non può convenire al Parlamento, non può convenire a nessuno di noi; in quanto che le nostre opinioni noi sappiam apertamente manifestarle e difenderle, nè abbiamo bisogno di coperte o di veli per dissimularle.
Però, l’onorevole guardasigilli ed il signor relatore avevano nei loro scritti già dichiarato il vero significato di questa formola.
Il guardasigilli aveva notato che essa è comune a tutte le monarchie, e che, siccome noi siamo in una monarchia, e nient’altro che in una monarchia, noi dobbiamo accoglierla come quella che ne esprime i principii.
Egli osservò inoltre che essa è un’affermazione d’indipendenza, mercè la quale il capo dello Stato dichiara che non tiene la Corona come vassallo di potentato alcuno, ma che delle sue opere deve render conto soltanto a Dio nel cielo ed alla nazione quaggiù.
L’onorevole relatore spiegava che dal suo canto questa formola, tutta cristiana nella sua origine, significa appunto il ripudio della conquista e della forza, e la proclamazione del diritto e della giustizia nel reggimento dei popoli. Ed io soggiungo che essa è il riconoscimento del sovrumano intervento negli avvenimenti mortali, è l’omaggio che l’umanità lieta o dolorante innalza al suo Creatore.
A me pare che questo superiore intervento si debba talvolta proclamare, e parmi che lo debbano maggiormente coloro i quali sono fautori delle dottrine così dette democratiche, quei dessi cioè i quali pretendono di essere gl’interpreti più diretti, più sinceri delle idee e delle credenze del popolo; giacchè il popolo, o signori, crede fortemente, altamente nella Provvidenza divina, e il riconoscerla, l’invocarla non giudica essere un pleonasmo.
Più di tutti poi parmi avrebbe dovuto ammetterla l’onorevole deputato Ferrari, perocchè, mi sia lecito il dirlo, egli si deve trovare quasi straniero nell’Italia del giorno d’oggi; egli vide sempre le cose in un color tetro; egli fu pertinace, instancabile, inflessibile contraddittore delle idee, le quali hanno trionfato e ci furono guida e lume insino al giorno presente; egli, disdegnoso e fremente, talvolta ironico, esclamò continuamente come voce nel deserto; e quando il Parlamento, e la stampa, e la Lombardia, e tutta l’Italia lo contraddicevano crudelmente, egli protestava contro il Parlamento, la stampa, la Lombardia, l’Italia tutta: «Orazio sol contro Toscana tutta.» (Ilarità) Or bene, ora che i fatti in modo così solenne hanno smentite tutte le sue previsioni, ora che la patria è, si può dire, compita, niuno meglio di lui dovrebbe chinar gli occhi e dire: il mondo si muove, Dio lo conduce, e noi siamo i ciechi suoi stromenti!
Ma l’onorevole Ferrari forse non si briga di tutto ciò; egli non teme nè i roghi, nè le conquiste, nè la legittimità, e non paventa, io lo spero, non paventa che il Re d’Italia abbia a rinnovare gli esempi di Arrigo IV imperatore. Egli non combatte le ombre, combatte la realtà; non combatte le nuvole, combatte le cose salde.
E qui confesso che mi trovo in una specie d’impiccio verso di lui, nè so bene in qual modo debba esprimermi; mi ci proverò, assicurandolo anticipatamente che le mie parole non hanno alcun senso di offesa.
Fu detto che gl’Italiani sono, per loro natura, diplomatici. Voi sapete che i nunzi pontificii, a voler giudicare le cose spassionatamente, ebbero sempre grande rinomanza nei negoziati, nelle ambascierie; uguale riputazione ebbero i ministri di Casa Savoia. E chi giudichi gli avvenimenti di questi ultimi anni nella Penisola, potrebbe dire che la diplomazia non istette tutta chiusa nei gabinetti, ma che il popolo italiano intero fu un vero, un abile diplomatico in tutta la sua condotta.
Non è dunque maraviglia se anche il deputato Ferrari arieggi il diplomatico; posso ingannarmi, ma gli ultimi suoi discorsi mi hanno lasciato supporre questo nuovo indirizzo del suo ingegno o, per meglio dire, del suo modo di argomentare.
Nella discussione sopra le cose di Roma, egli diceva che alla città eterna bisogna andare colle idee degli enciclopedisti, colle idee della rivoluzione francese. Se ho ben letto il rendiconto negli atti parlamentari, non avendo io in quel giorno ancora l’onore di sedere in questa Assemblea, parve che questa proposizione destasse un lieve mormorio, un lieve susurro, come di chi non approva, come di chi sente una di quelle frasi che si amerebbe meglio di non udire. Allora un altro deputato sorse e spiegò molto lucidamente il significato di quella espressione di lui, dichiarando che essa accennava alla libertà del pensiero, alla libertà di coscienza, e simili. Il deputato Ferrari confermò la spiegazione del nostro collega. Quando io ciò lessi, sclamai fra me che in vero l’onorevole Ferrari ci rubava il mestiere e quasi già ci lasciava di un buon tratto di via indietro.
presidente. Pregherei l’onorevole Carutti di andare più direttamente alla questione, perchè, frammettendovi le discussioni che ebbero luogo in altre circostanze, si condurrà troppo in lungo questa. Naturalmente il deputato Ferrari vorrà rispondere su quest’oggetto, ed allora tornerà in campo una discussione che è già terminata. Quindi, ripeto, se egli si compiacesse di venire un po’ più presto alla questione, questo dibattimento forse non correrebbe rischio di essere protratto di troppo. (Bravo! a sinistra)
carutti. Rientro subito nella questione.
Ieri egli parlò press’a poco nello stesso senso, e disse che per far guerra al vicario di Dio ci volevano idee dotate di nuova virtù. E non ci fu più alcuno che desse spiegazione soddisfacente, anzi un altro deputato si alzò e, procedendo più oltre, portò la questione più in là, e disse, volgendosi a noi: qual è il vostro Dio? di qual Dio parlate? E soggiunse altre parole che io non ripeto.
Ebbene, o signori, io dichiaro altamente che non temo la libera discussione, io l’amo anzi, ma alla condizione che tutti abbiano facoltà di replicare, tutti abbiano facoltà di rispondere ai concetti degli avversari, a condizione che si abbia il coraggio della propria opinione. E, siccome questo coraggio io sento d’averlo, rispondo oggi ad una parola che forse non dovea suonare in questa Camera.
Io dico a chi c’interroga quale è il Dio che invoca questa legge, quale è il Dio di cui parlano gli Italiani, io dico, molto ricisamente, che il nostro Dio è il Dio del catechismo, il Dio il cui nome abbiamo imparato dalle labbra delle madri nostre, il Dio che la nazione riconosce unanime nella sua religione. (A destra e al centro: Bravo! Bene!)
Signori, voi volete andare a Roma con idee dotate di una nuova virtù contro il vicario di Dio (Con calore); ebbene io vi rispondo: a Roma con queste idee potrete andarci forse, ma a Roma non ci rimarrete mai. No, signori, perchè l’Italia senza la sua religione non può concepirsi da chiunque abbia e veduto e studiato la patria nostra; l’Italia e la religione sua sono due termini inseparabili, inscindibili. Comprenderei forse l’Italia senza il raggio di quel sole che la riscalda, non comprenderei l’Italia senza il cattolicismo. Cercate l’Italia nella poesia, nella filosofia, nelle arti, nelle scienze, in tutto quanto rese ammiranda questa gran madre degli ingegni e delle opere magnanime (A destra e al centro Bravo! Bene!); interrogate i poeti dall’Alighieri ad Alessandro Manzoni, e udirete i loro canti più nobili, più sublimi, più grandi, dettati, inspirati da quella religione che ha riscattato l’umanità, che da flagellati schiavi ci ha fatti liberi cittadini. (Viva approvazione ed applausi dalle tribune) Guardate le tele, i marmi, le moli, le cupole erette al cielo; perscrutate le scienze razionali da san Tommaso d’Acquino a Vincenzo Gioberti, le fisiche da Galileo Galilei ad Alessandro Volta, e in tutti i miracoli dell’immaginazione e del sapere troverete Italia e religione congiunte. E se, per avventura, v’imbattete in qualche eccezione, per quanto grande ella sia, la solitudine che la circonda, rafferma viemmeglio l’universalità del fatto. E voi, o signori, volete andare a Roma con altre idee? Ebbene io vi dico che, disfacendo le credenze italiane, voi disfate l’Italia. (Bravo! a destra — Bisbigli a sinistra)
Aprite quelle porte, volgete lo sguardo a ponente: vi sta dinanzi la mole delle Alpi torreggianti; ebbene, colle vostre deboli mani schianterete questi giganti di macigno, anzichè svellere dai cuori italiani la fede dei loro padri. (Applausi a destra)
Passo alla terza questione, la quale riguarda le obbiezioni che si fanno al nome del Re.
Queste obbiezioni si fondano tutte sulla logica, sono tirate dai precedenti.
Un secondo suppone un primo; ma dov’è il primo Re d’Italia il quale porti il nome di Vittorio Emanuele? I precedenti ci provano che cambiasi il titolo, quando un sovrano da uno Stato minore passa ad uno Stato maggiore; che il sovrano nol cambia quando da uno maggiore discende ad uno minore. Forse che il Re di Sardegna, assumendo il titolo di Re d’Italia, si trova in questo secondo caso?
Io confesso che il ragionamento è invincibile, e non mi attenterò di confutarlo. Il secondo suppone un primo. Ora il primo non c’è. Sarebbe inutile il negarlo. Pure la maggior parte di noi non si acqueta, sente una ripugnanza istintiva ad alterare quel nome. La mente si raccoglie, medita, e conchiude per rigettare ogni alterazione.
E perchè, o signori? Perchè vi è qualche cosa più potente della logica, perchè qui si deve ragionare con altro metodo.
Più potente della logica è il sentimento; la nostra logica in questo caso debb’essere la ragione di Stato.
I Principi di Casa Savoia non ebbero mai usanza di mutare il nome loro, anche mutando Stato. Amedeo VIII assume il titolo di Duca, e continua a nominarsi Amedeo VIII. Vittorio Amedeo II, il primo Re della sua stirpe, si chiama secondo, e questo nome glorioso non è alterato, nè dalla storia, nè dalla genealogia. Consultate qualunque tavola genealogica, aprite le storie, e voi troverete questo nome e nelle nostrane e nelle straniere, perchè Vittorio Amedeo II come gli antecessori e i successori suoi prese sempre ingerimento vivo, e talvolta principale, nei maggiori avvenimenti del suo tempo. Ebbene, vi sfido a trovarlo distinto con due diversi numeri. Il fatto non patisce contraddizione. Per ciò appunto Carlo Emanuele III, che fu il primo Re di tal nome, non prese il titolo di primo che apparteneva al tritavo suo. Gli succede Vittorio Amedeo III; e finalmente occupa il trono l’infelicissimo Carlo Emanuele IV; e la serie continua, e non s’immuta la primitiva numerazione mai.
Non sarebbe nè degno, nè opportuno l’imporre la rinunzia di una domestica tradizione, che è bella di nobile fierezza.
Ma c’è di più. Io dico che questo nome è inciso nella storia italiana, e l’alterarlo sarebbe non solo un anacronismo, ma, lasciatemelo dire, sarebbe una profanazione. Questa nome è scolpito nel cuore di tutti gl’Italiani; il volerlo ora mutare sarebbe quasi un offendere il senso morale.
Oggi che l’Italia ha restituita la corona all’antica stirpe dei Berengari e degli Adalberti, conserviamo al loro pronipote intatto quel nome ch’ei rese glorioso e venerato nel mondo.
Sono gravi queste considerazioni; ma avvene un’altra che ad esse parmi sovrastare ancora.
Per me qui non vi è la sola questione del Principe; per quanto grande egli sia, avvi qualche cosa più grande ancora: al disopra dell’uomo, al disopra del capo dello Stato vi è il principio monarchico.
E qui non sarà inopportuno di chiarire un punto che contiene il segreto di molte diversità di opinioni. (Segni di attenzione)
Vi hanno di quelli che si accostano alla monarchia, e, direi quasi, la tollerano in grazia del Re Vittorio Emanuele; ve ne hanno degli altri i quali sono ossequenti alla monarchia non solo per l’uomo che la rappresenta, ma come ad un’istituzione che fu utile all’Italia per riscattarsi e costituirsi in unità, e che è necessaria ancora per conservare la patria nostra nel presente stato, per redimerla tutta intera, per ritornarla e mantenerla nazione potente e sicura.
Ciò posto, qualunque atto il quale possa debilitare questa istituzione debbe essere da noi sollecitamente evitato. Il voler interrompere il corso regolare della dinastia, il separarla quasi dalle sue radici, produrrebbe un somigliante effetto al cospetto dell’Europa e presso i popoli della Penisola.
Imperocchè l’Europa da lungo tempo è avvezza a conoscere e riverire la Casa di Savoia, e l’Europa poco bene augurerebbe della nuova Italia, quando la vedesse costringere il suo Principe ad abdicare il suo passato, perchè i destini della sua schiatta si sono compiuti.
La monarchia poi scemerebbe di prestigio presso i popoli, perchè i popoli riveriscono istintivamente la tradizione storica, ed accolgono più facilmente, più sinceramente i grandi mutamenti, quando li veggano iniziati, condotti e, vorrei dire, consacrati da un’autorità riconosciuta, preesistente, non fabbricata nel fervor della lotta, posta fuori delle discussioni delle parti e delle fazioni stesse.
Questa considerazione mi conduce verso il termine del mio discorso.
L’onorevole deputato Ferrari ha recati molti fatti, molti precedenti, nella tornata di ieri, in sostegno della sua tesi. Ebbene, io dichiaro francamente che quei fatti, quei precedenti sono esattissimi per la maggior parte. Potrei aggiungerne forse degli altri e rettificare qualche nome da lui errato,ma vi ci sarebbe poco merito in me, perchè nello spazio di ventiquattro ore avendo avuto agio di consultare libri e tavole geneaologiche, farei pompa di un’erudizione acquistata a troppo buon mercato.
Un solo fatto da lui asserito non posso ammettere. Fu detto che Casa di Savoia non alterò il nome de’ suoi Principi nelle varie sue fasi, ed egli cercò di provare il contrario, e ricordò editti, medaglie, monete da lui recentemente esaminate.
Mi restringo ai soli editti. Egli forse non ha esaminate le diverse serie, cioè gli editti dei vari regni, ha guardato solo una parte, e, solitamente, quando si bada a una parte sola è facile ingannarsi. Egli non ha tenuto conto che nella nostra monarchia non usavasi di apporre il numero dopo il nome di principe (Segni affermativi del deputato Ferrari); non ha badato che Carlo Emanuele II, per esempio, non ha mai messo il II dopo il suo nome; non ha osservato che Vittorio Amedeo III e Carlo Emanuele IV non hanno mai intestati gli atti del loro regno col loro numero dinastico. Non avvi che un esempio in contrario, quello di Vittorio Amedeo, il quale, finchè fu duca, apponeva quasi sempre al suo nome il numero II, e che lo intralasciò quando divenne re.
Ma, o signori, tutti questi precedenti che vi furono citati, il precedente stesso di Vittorio Amedeo, ed ho già notato che esso non prova, perchè la posterità gli ha conservato il titolo di secondo, tutti questi fatti che cosa significano! Significano che quando un principe, non insignito di corona reale, acquista dignità e titolo di re, questo principe suole allora, per lo più, cambiare il nome; ma non prova punto che quando un principe possiede già questo titolo, debba necessariamente alterare la numerazione dinastica allorchè viene ampliato lo Stato suo.
Ed i fatti dai vari oratori ricordati sono quasi tutti la conseguenza di trattati pubblici, e talvolta di stipulazioni dirette tra i popoli ed i principi. In questi trattati, in queste stipulazioni, era serbato espressamente, in favore del regno aggregato, il diritto di conservare le proprie leggi, il diritto pubblico interno dello Stato; dimodochè il principe non dava che la sola sua persona, se pur la dava sempre. Ma invece, nel caso nostro, non avvi duca, non avvi principe che assuma la corona di re; vi è un monarca il quale continua la tradizione della sua monarchia; non è un re il quale dia all’Italia la sola sua persona; vi ha un re il quale diede all’Italia le leggi della sua monarchia, la legge della libertà costituzionale, lo Statuto. Queste leggi l’Italia accettò con gioia; esse hanno ricevuto in Vittorio Emanuele, non solo la persona, ma tutto quanto egli rappresenta, ed egli rappresenta la monarchia e rappresenta la libertà dello Statuto. E questi due concetti sarebbero profondamente alterati quando si cambiasse il nome del Re; imperocchè potrebbe credersi che, trasformando uno dei poteri dello Stato, la legge fondamentale stessa ne venisse vulnerata.
Pensiamo, o signori, a questo pericolo: ed in ultimo non ci sfugga la seguente avvertenza.
Quando noi adottassimo la formola di Vittorio Emanuele I, dovremmo aggiungere un altro articolo alla nostra legge. E sapete quale articolo noi dovremmo aggiungere? Noi dovremmo aggiungere, che la data delle leggi, la quale indica non solamente il millesimo, ma eziandio l’anno del regno, fosse mutata, il Re non direbbe più l’anno 1861 del regno nostro il duodecimo, ma del regno nostro il primo. E quale sarebbe di ciò la conseguenza? Noi verremmo a cancellare dodici anni di quel regno che ci ha qui condotti, che ha fatta l’Italia e che l’ha costituita in nazione. (Sensazione) Signori, chi di voi ha il coraggio di cancellare questi dodici anni, voti per la mutazione del nome; io, francamente lo dico, questo coraggio non l’ho.
presidente. La parola spetterebbe al deputato Ferrari per un fatto personale; però, siccome il suo turno d’iscrizione non è lontano, se intende di entrare nel merito della discussione, potrebbe aspettare a rispondere.....
ferrari. Potrò rispondere oggi stesso?
presidente. Spero di sì, poichè prima di lui non è iscritto che il deputato Crispi, e poi un oratore in favore.
crispi. Cedo il mio turno al deputato Ferrari.
presidente. Allora il deputato Ferrari ha facoltà di parlare.
ferrari. Mi rinchiudo nel fatto personale. La sola parola che mi abbia punto, benchè pronunziata, certo, senza intenzione meno che amichevole, si è quella di aver io portato in quest’aula della diplomazia. (Si ride)
Signori miei, io avrò qui portato mille difetti, tranne quello di dissimulare in alcun modo il mio pensiero. Il mio pensiero sembrerà forse in contraddizione cogli avvenimenti; chi ha esaminato il moto italiano dal punto di vista di uno speciale governo, mi dirà forse improvvido, tanto più che nessuno è obbligato di leggere i miei libri, o da rendersi ragione delle mie teorie scientifiche. Però, quando si parla di me, discutendo in quest’aula dati esteriori al Parlamento stesso, io ho il diritto d’esser discusso qual sono, e accusato colle mie idee esposte nella loro integrità. E che? io milite della rivoluzione italiana, io che l’ho vista in tutte le sue forme, io che l’ho sollecitata quando tutti acclamavano il pontificato di Pio IX, che ho avuto il coraggio di stare solo contro tutti, e quasi maledetto; che ho preveduto, senza un batter di ciglio, lo svanire di quest’immensa mistificazione, io non mi aspettava d’essere chiamato imprevidente.
Che se io declinai in certo modo, fatte le mie riserve, se declino la questione giuridica della grazia di Dio, io vi dirò che ciò fu fatto da me per rispetto al senso pratico di quest’Assemblea. Noi siamo sotto l’impero della religione dominante; la religione dominante è proclamata nello Statuto; ed una volta proclamata in uno Statuto, ne discendono tutte le conseguenze del Codice civile e del penale; conseguenze che si rivelano in ogni atto della monarchia.
Ora, in verità, quantunque io applauda a tutte le reclamazioni che sono state fatte e che saranno fatte contro la formola della grazia di Dio, quantunque vi applauda, io non ho potuto ripetere in questo recinto le idee filosofiche da me lungamente esposte nelle mie opere. Ma perchè non le ho potuto qui ripetere? Io ve lo dirò in due parole: per la stessa ragione per cui non le posso ripetere in Italia. Sì, non posso apportarle in Italia, e ne attesto il tribunale di Casale, il quale nel 1852 ha condannato il mio libro Della filosofia della rivoluzione, ed ha condannato il signor Giovanni Cattaneo, notaio attualmente di Milano, uomo al certo nè sospetto, nè mal noto, l’ha condannato, dico, a nove mesi di prigione per il delitto strano di aver propagato questo mio libro, che era d’altronde steso in stile scientifico e con forme assolutamente metafisiche.
Il signor Tecchio, vice-presidente di questa Camera, potrà confermare il mio dire, essendo egli stato il difensore del signor Cattaneo. Se il propagatore del libro era condannato, io vi domando come sotto l’impero della religione dominante l’autore sarebbe stato risparmiato!
E volete, signori, che io stampi libri sotto questa legge, in Italia; e volete, signori, che io porti in questo recinto proposizioni le quali, secondo me, sono vere, nè possono certoscandalizzare nessun legale francese, nè inglese o svizzero; le quali sono stampate e ristampate all’estero nei paesi liberi, ma che qui sfortunatamente non possono penetrare?
La mia diplomazia sta nella tirannia della legge; nell’impero, se volete, della legge; io non posso parlare. Ed è per questo che, quando il signor Boggio mi rimproverava di voler giungere a Roma colle idee di Strauss e di Hegel, e che fraintendeva il mio concetto dandogli un senso dogmatico, io fui felice di vedermi difeso dal signor Maresca allora a me sconosciuto, e lo ringraziai come un genio sceso dal cielo della scienza, per la ragione ch’egli sacerdote, egli interessato all’ortodossia romana e devoto al Dio di Roma, di Gregorio VII, al Dio dell’arte e di Leone X, egli ha compreso ch’altro io non domandavo che di essere Italiano, Italiano nel senso grande, nel senso che ammette ogni libertà. (Bene!)
Sapete voi per che cosa noi siamo stati ultimamente infelici? Perchè siamo stati troppo liberi, perchè abbiamo preferito rinunciare a tutto, fino alla indipendenza politica, piuttosto che rinunciare alla libertà del pensiero. (Bravo! a sinistra) Che la mia filosofia, che le dottrine di Strauss e di Hegel possano essere erronee, io lo concedo; ma appunto io chieggo la libertà di questo errore e la libertà nello stesso tempo di ogni sacerdote. Che il sacerdote pubblichi pure le sue scomuniche, se le nostre idee non trionfano coll’unica forza delle parole, noi rifiutiamo le leggi penali che volessero darci la vittoria contro le false dottrine della Chiesa romana (A sinistra: Bene!); e in ogni tempo io mi professai amico delle più diverse persone, e cercai anche nella mia stessa vita pratica di non ammettere distinzioni, e di esercitare, dirò cosi, la vera fraternità della scienza.
Del resto, nello stesso modo che io mi limito a rettificare un semplice fatto personale sotto il punto di vista della diplomazia (Si ride), mi limiterò egualmente a rettificare un altro fatto personale sotto l’aspetto dell’archeologia, della storia, del medagliere, degli archivi.
presidente. Se vuol parlare nel merito, parli pure, non è limitato al fatto personale, perchè il deputato Crispi gli ha ceduto il suo turno d’inscrizione.
ferrari. Non voglio abusare dell’indulgenza della Camera. (Parli! Parli pure!)
Vedete, o signori, il vantaggio della libertà che santifica ogni investigazione ardita, illimitata nel campo delle idee, e che si avventura senza vani terrori in mezzo agl’idoli del passato. Sono essi atterrati dalla discussione, e ne nasce la vera emancipazione della nazione. Perchè, secondo me, la nostra disgrazia non sta solo negli ostacoli materiali che ci si oppongono, negli eserciti che ci combattono e nei nostri nemici esteriori; oltre a questi noi abbiamo eziandio dei nemici interiori, e li abbiamo in noi stessi. La prudenza colla quale si vogliono dissimulare alcune idee, alcuni nomi, alcune cose, gl’innumerevoli sottintesi che si moltiplicano ad ogni istante nella nostra discussione, e la specie di meraviglia che ci coglie quando nei giornali inglesi o francesi noi troviamo chiaramente espresse le cose che noi appena ci susurriamo all’orecchio, ci mostrano che noi siamo schiavi di mente.
Mi vietate voi di applicare all’avvenire il mio libero pensiero; permettetemi, o signori, di applicarlo al passato. E qui rettifico una seconda accusa mossami dal signor Carutti, la quale mi ferisce forse più della prima, perchè il passato è per me una religione. L’avvenire balena nella lunga serie de’ suoi secoli; i suoi morti mi consolano di vivere; gli antichi re mi parlano negli archivi e nei musei dei loro diritti, dei loro errori; e a torto il signor Carutti mi accusò di non averli intesi negli archivi e nel medagliere di Torino. Pur troppo mi rivelarono essi l’intimo loro pensiero. Quando nel 1713 Vittorio Amedeo cessava di dirsi secondo, e annunziandosi col solo nome sottintendevasi primo, si è che credeva di avere eternamente acquistato il regno di Sicilia. Quando poi avendolo perduto rimanevasi ancora senza numero, egli dissimulava a’ suoi popoli il proprio infortunio e mascheravasi primo per l’acquisto del regno assai meno considerevole di Sardegna, dove ancora poteva dirsi primo. Carlo Emanuele terzo di Savoia l’imitava, essendo egli pure primo di Sardegna.
Ma la selvaggia e misera Sardegna, non equivalente alla storica Sicilia, era inferiore di assai alla stessa Savoia; quindi i successori di Carlo Emanuele, desiderando un ritorno, rimasero per due generazioni senza numero, non volendo nè il terzo Vittorio Amedeo dirsi secondo di Sardegna, nè il quarto Carlo Emanuele dirsi egualmente secondo di Sardegna. Per tal guisa di politica ondeggianti i principi di Torino, ondeggiarono pure nel numero e negli emblemi.
Mi fu opposto dall’onorevole signor ministro Natoli, che mi dispiace di non vedere al suo posto in questo momento, che Ferdinando V di Aragona non mutò denominazione, quantunque conquistasse tutta la Spagna, terra se non più estesa, per lo meno estesa quanto il regno di Vittorio Emanuele. Ma quelle furono conquiste sugli infedeli, non si può essere re per la grazia di Dio di un paese saraceno, non si può pretendere di continuare una dinastia musulmana. (Ilarità — Rumori in sensi diversi)
D’altronde Ferdinando V non estese il suo regno alla Castiglia. Il Würtembergh e la Sassonia, che egualmente furono citati, si estendevano sul loro proprio territorio, come i conti di Savoia diventati duchi senza punto mutare la numerazione loro, giacchè rimanevano sempre sulla stessa base.
Da ciò debbo trarre due conclusioni: la prima, che, restando sotto l’impero della grazia di Dio, restiamo sotto l’antico diritto pubblico anteriore alla rivoluzione, diritto oscillante che ci getta in mille contraddizioni, che ci fa dire e disdire ad ogni tratto, e che ci spinge di continuo tra mille temerità riparate da altrettante viltà. Intendo benissimo qual sia l’incertezza degli uomini politici, io non li accuso troppo, perchè vedo la forza delle cose che li condanna a tergiversare e ad ondeggiare; ma, infine, l’antico diritto è scosso. Colla grazia di Dio, colla religione dominante, colle antiche idee rimarremo nella sfera delle antiche vicissitudini, e il regno sarà una delle abituali esplosioni delle rivoluzioni italiane, sarà l’esplosione dei Visconti, degli Scala, di Ladislao, dei Veneziani; sarà l’esplosione stessa di Carlo Alberto, pur troppo obbediente, senza saperlo, all’inesorabile legge che condanna alla forma unitaria ogni momentanea rivoluzione nelle nazioni federali. E appunto per questa legge io terminava nel 1857 la mia Storia delle rivoluzioni d’Italia, annunziando che, dove l’Austria non avesse mutato regime, il Piemonte avrebbe improvvisamente regnato in ogni angolo della Penisola.
La seconda conclusione che intendo trarre è che la nostra intestazione emblematica dichiara l’Italia essere non redenta nè trasformata, ma conquistata dal Piemonte, sovrapposto a tutte le altre provincie. Non saranno più i Lombardi, i Toscani, i Partenopei, i Siciliani gli autori del nuovo regno, sarà Vittorio Emanuele, che, senza sconcertarsi senza dimenticar nulla del suo passato, senza nulla abbandonare delle sue prelese, avrà voluto sottomettere tutte le province all’antica tradizione degli avi suoi, i quali avrebbero combattuto le nostre rivoluzioni. E qui parlo delle rivoluzioni che ammette lo stesso signor conte Di Cavour, non parlo di sedizioni, di sommosse, parlo del voto libero dei popoli, che sarebbe disconosciuto, che sarebbe confiscato.
presidente. Ha facoltà di parlare il deputato Macciò.
macciò. Rinuncio a parlare.
massari. Chiedo di parlare per una mozione d’ordine.
presidente. Ha facoltà di parlare.
massari. Appunto perchè non ci deve essere restrizione nè sottinteso, appunto perchè ognuno di noi deve avere libertà piena ed ampia di esprimere in questo recinto le sue opinioni, io mi faccio lecito di rivolgere all’onorevole deputato Ferrari una preghiera, perchè voglia fornirmi uno schiarimento.
Il discorso che egli ha testè pronunciato mi pare...
presidente. Scusi, ella entra nella discussione, e non è più una mozione d’ordine.
massari. È una parola sola.
ferrari. Desidero io stesso che il signor Massari produca la sua interpellanza.
massari. Se ho bene inteso, l’onorevole Ferrari, nel corso del suo dire, avrebbe pronunciate queste parole: false dottrine della Chiesa romana. Io lo pregherei a sapermi dire se per esse ha voluto far allusione alla dottrina politica della potestà temporale, perchè in questo caso io sarei del suo parere; laddove, se egli avesse voluto far allusione al dogma... (Interruzioni e rumori)... io stimerei mio debito di protestare, e di protestare altamente.
presidente. Osservo al deputato Massari che le parole del deputato Ferrari furono abbastanza chiare. Tutti hanno potuto comprenderle, e saranno in grado di ben giudicarle quando saranno stampate, senza ch’egli abbia d’uopo di fornire altri schiarimenti.
ferrari. Domando la parola.
Molte voci. No! no!
ferrari. Faccio un’altra interpellanza al signor Massari (Rumori), e domando alla mia volta se l’onorevole preopinante esige che io violi lo Statuto... (Interruzioni e voci: No! no!)
presidente. Prego il signor deputato Ferrari di non entrare in altre spiegazioni, perchè, come ho detto, le sue parole sono state pronunciate in modo che tutti hanno potuto comprenderle, e da non poter dar luogo ad equivoco. (Bravo!)
ferrari. Poichè l’Assemblea mi vuol dispensare (Voci generali: Sì! sì!), io non risponderò.
Del resto le mie opinioni le ho pubblicate nei miei libri, e le mantengo e le manterrò in faccia a tutti.
presidente. La parola è al signor deputato Ruggiero.
ruggiero. Ho sentito a ragionare con molta facondia, intorno al progetto di legge di cui si tratta, in vario senso, sia relativamente alla modificazione del numero d’ordine da secondo in primo, sia riguardo alla formola per grazia di Dio.
Io sosterrò che la formola più adatta e più acconcia alla espressione del fatto avvenuto sia quello di Vittorio Emanuele I, per la grazia di Dio e per la volontà della nazione, re d’Italia.
Dalla numerazione presentata nel progetto di legge io scorgo un falso concetto che nella mente del guardasigilli si è formato della rivoluzione italiana, poichè nel primo paragrafo di questo progetto di legge egli dice che la legge in virtù della quale Vittorio Emanuele II ha assunto, per unanime voto del Parlamento, il titolo di Re d’Italia, gettò le basi di un nuovo diritto pubblico, affermando costituita l’unità della nazione e dichiarando trasformato ormai l’antico regno dell’augusta Casa di Savoia nella monarchia italiana.
Ora a me pareva da principio un problema questo, del come l’antico regno dell’illustre Casa di Savoia si sia potuto trasformare in monarchia italiana, e dopo averci ripensato, essendo abituato a vedere nei progetti di legge, che vengono dal Ministero, molto maturo esame, e quindi nessun falso concetto vi si dovrebbe comprendere, vidi che piuttosto non era un problema, ma era un assurdo. (Mi permetta l’onorevole guardasigilli che io così lo qualifichi.)
La trasformazione d’uno Stato da piccolo che sia in uno grandissimo è certamente spiegabile, non solamente per attività sua propria, ma per altre circostanze estrinseche, come per cessione, per successione, per trattati, per guerre, e di questi fatti noi ne abbiamo parecchi esempi, e senza che si oltrepassassero i monti e si attraversasse il mare, e senza indagare la storia delle Due Sicilie e del potere temporale dei papi, che a poco a poco si è diffuso e dilatato, il Piemonte medesimo ci offre quest’esempio in grandissima estensione, in grandissima latitudine.
Il Piemonte certamente era un piccolissimo Stato, ed i suoi principi, che prima di Vittorio Emmanuele e di Carlo Alberto regnarono su questo trono, estesero notabilmente i loro dominii, o per cessione avuta da altri principi, i quali si avvantaggiavano sopra altri Stati, ovvero per successione, ovvero per guerre o per trattati di pace dipendenti da queste guerre, per modo che da Vittorio Amedeo II incominciò il regno di Casa Savoia. Ma dal fatto della rivoluzione italiana io scorgo una differenza assai grande, la quale non si può confondere coi fatti precedenti.
Nell’ingrandimento del Piemonte, avvenuto nel secolo passato, ed ancora pel trattato del 1815, coll’aggregazione della repubblica di Genova, noi abbiamo veduto che i principi vi acconsentivano e dissentivano i popoli; mentre nella rivoluzione italiana si è veduto tutto il contrario: sono stati i popoli che, per loro spontaneità, per una rivoluzione la quale non ha riscontro nella storia, hanno concorso a congiungere le sparse membra di questa nostra patria e fonderle col Piemonte, onde avesse a risultarne la nazione libera ed intera.
Per conseguenza la trasformazione dell’antico regno sabaudo non può essere così intesa, poichè la monarchia italiana non è nata dalla trasformazione del regno sabaudo, ma dalla fusione volontaria e spontanea di tutte le provincie e dalla abolizione di tutte le autonomie, Napoli, Sicilia, Sardegna, Lombardia, tutto si è fuso insieme.
La storia poi viene ampiamente a dimostrare come i re omonimi, i quali hanno regnato sopra un medesimo trono ne’ varii Stati dell’Europa, tuttochè diversi di stirpe dagli altri antecessori, hanno seguita l’usanza di appellarsi coll’ordine numerico, il quale era in continuazione di quello dei loro predecessori.
Il signor Ferrari ieri ci favoriva molti esempi di questo genere, ed io, lasciando da parte quelli, rinforzo egualmente il suo argomento con altri fatti storici.
E, senza indicare quello che si è fatto nelle piccole Corti della Germania (ed era questo uno degli argomenti addotti dall’onorevole ministro per l’agricoltura e pel commercio, onde oppugnare gl’importantissimi argomenti storici stati portati avanti dall’onorevole Ferrari), mi rivolgo alle principali nazioni d’Europa, all’Inghilterra, alla Spagna, all’Alemagna. Ebbene, in queste tre nazioni troviamo quest’usanza rispettata insignemente.
Allorquando la dinastia fondata da Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia, si estinse in Inghilterra, e sorse quella degli Angioini, appellata volgarmente dei Plantageneti, ebbene Enrico di Angiò prese il titolo di Enrico II per mettersi in continuazione con Enrico I della estinta casa di Normandia. Ed Enrico conte di Richemont, il quale era il capo della dinastia dei Tudor, che succedeva agli Angioini estinti, prendeva il titolo di Enrico VII, per continuare il numero di Enrico VI dall’ultima casa degli Angioini.
Io lascio da parte un momento Giacomo VI, re di Scozia, per ripigliarlo più tardi; lascio da parte le altre dinastie che appresso regnarono in Inghilterra, e mi limito a Guglielmo di Orange.
Ebbene, questo principe, mentre del suo nome sarebbe stato il decimo nella famiglia dei principi d’Orange in Inghilterra, dopo l’espulsione di Giacomo II, prese l’appellativo di terzo, per rannodarsi con Guglielmo il Rosso, della famiglia di Normandia, che aveva regnato su quella nazione sei secoli addietro.
In Ispagna Filippo duca d’Angiò, chiamato erede di quella corona da Carlo II, vi successe appellandosi Filippo V, ed in tal modo Filippo duca d’Angiò, della famiglia dei Borboni di Francia, si rannodò alla famiglia d’Austria, alla quale apparteneva Filippo IV.
Eccovi ancora Carlo IV di Napoli e di Sicilia; egli prese il titolo di terzo, allorchè successe sul trono di Spagna al suo fratello Ferdinando VI.
In Alemagna similissimi esempi. Corrado il Salico prese il titolo di II per succedere a Corrado I di Sassonia; così gli Enrichi degli Stohenstauffen e della famiglia di Baviera e di Lussemburgo, non che i principi di Casa d’Austria e di Lorena, egualmente seguirono la stessa usanza. Questo costume dei principi, i quali, regnando sul medesimo trono, si appellavano con numero progressivo da quello degli antecessori, tuttochè di stirpe divisa, e così mutavano quel numero d’ordine che loro si apparteneva nelle famiglie proprie, fu ancora seguito da quei principi, i quali non riscontravano altri omonimi nei troni su cui andavano a sedere, ma lasciavano egualmente di distinguersi col numero degli antenati omonimi della famiglia da cui discendevano. Per conseguenza Giacomo VI, re di Scozia, passando a regnare sull’Inghilterra, mutò il suo titolo di VI in I. E per non dilungarmi più su questo esempio, mi rivolgerò a Francesco II, figlio di Leopoldo II d’Austria, il quale, mentre portava questo titolo come imperatore d’Alemagna, nel 1806, rinunciando all’impero d’Alemagna ed assumendo il titolo d’imperatore d’Austria, mutò il titolo di Francesco II in Francesco I. (Conversazioni particolari)
Signori, oltre queste usanze, che ampiamente si trovano notate nella storia, e che certamente non so quali ragioni si avessero per derogarle, noi abbiamo ancora una legge, noi, Napoletani e Siciliani, la quale regola questa cosa. E l’onorevole Carutti non avesse mai richiamato alla mente il fatto che noi, accettando Vittorio Emanuele, accettavamo tutto quanto apparteneva a Vittorio Emanuele come Re di Sardegna; ed accettando lo Statuto, che noi accettavamo ancora tutte le leggi che riguardano il regno di Sardegna.
Mi risparmio di rispondergli categoricamente, e dico solamente che egli s’inganna. Vittorio Emanuele, sì; lo Statuto, sì; ma le altre leggi, no.
Col plebiscito del 21 ottobre noi abbiamo detto Vittorio Emanuele Re d’Italia; dunque, quando noi abbiamo proceduto a questa elezione, naturalmente nell’animo nostro non ci veniva innanzi la Sardegna, che come quel regno sopra il quale Vittorio Emanuele aveva fatto così bella e nobile prova, e quando, esaminando e passando a rassegna tutti i principi italiani e, vedendoli tutti indegni di ulteriore tolleranza, ci rivolgemmo a così illustre Principe, quando proclamammo nostro Re Vittorio Emanuele, noi intendemmo che egli fosse Re di Napoli, di Sicilia, di Sardegna e di tutte le altre parti d’Italia. Ora, nel caso nostro, Vittorio Emanuele II si presenta al nostro sguardo cogli attributi della sovranità sarda.
Io vi dico il vero, vedo i re vestiti alla militare, ma dalla mente mai non si toglie l’idea che avessero uno scettro ed una corona; ebbene, Vittorio Emanuele II come Re di Sardegna aveva bene una corona: se dunque Vittorio Emanuele II aveva una corona, rimanendo nello stesso modo appellato, sul suo capo splenderà la corona medesima: io certamente non concederò a chicchessia che la corona dei Reali di Savoia fosse più illustre, più splendida della corona dei Normanni, degli Angioini e degli Aragonesi (Rumori), la quale in Napoli e in Sicilia, ha avuto la medesima gloria e la medesima nobiltà (Rumori di dissenso), e se i principi che furono loro discendenti si sono renduti indegni di quelle corone, i popoli li hanno espulsi, ma la corona dei duchi di Savoia mai si è sollevata al lustro, allo splendore di quelle corone: all’incontro, perchè il concetto dell’Italia si concentri nella idea del Re, bisogna che il Re d’Italia sia coronato della corona di ferro. (Movimento) Se dunque Vittorio Emanuele II è già ricoperto di una corona, vuol dire che sul suo capo non metterebbe la corona di ferro; quindi, perchè questa celebre corona regolarmente possa stare sul suo capo, è necessario che si mettano da parte le tre corone di Napoli, di Sicilia e di Sardegna. (Interruzioni)
Re per la grazia di Dio: questa è una formola la quale, oltre al riguardarci come Italiani ed essenzialmente cattolici, è una formola la quale io la considero come la più fortunata e la più felice espressione della rivoluzione italiana, poichè ella è stata compiuta sotto il patrocinio e la protezione di Dio.
Passando a rassegna gli ultimi 60 anni di storia, dopo che fu proclamata in Francia la repubblica, in molte, e quasi in tutte le parti d’Italia, molti illustri cittadini seguirono quelle idee, quelle massime, e cercarono di attuarle in Italia; ma, venendo la reazione, costoro pagarono il fio della loro intolleranza per gli abusi del feudalismo che essi volevano rovesciare e proclamare il principio della libertà e dell’eguaglianza; noi allora vedemmo molti illustri e nobili italiani salire il patibolo, o morire per il piombo dei moschetti, o per lo staffile degli aguzzini, o esulare, o subire il carcere. Una buona parte di essi certamente pagò il fio delle loro aspirazioni; eppure il loro esempio, la sorte loro così funesta non isgomentò gli Italiani, che sempre furono fermi nel sostenere il principio della libertà e della indipendenza. Ed ecco che, se non ogni anno, certamente non trascorreva un decennio, senza che venissero rivoluzioni e successive reazioni. Finalmente nell’ultimo ventennio la reazione europea era molto avanzata; Roma ne dava l’esempio funesto, e il suo pontefice, invece di proteggere il popolo italiano e mettersi dalla sua parte, cospirava contro di esso, e da vicario di Cristo era divenuto vicario dell’Austria. Egli cospirò contro gli Italiani, e coi principi d’Italia gareggiò nelle torture, negli esilii, nelle pene capitali che inflisse agli infelici suoi sudditi. (Si parla)
Mauro Capellari morì, e non erano passati molti giorni che egli era disceso nel sepolcro, che il conclave traeva dal suo squittinio Giovanni Mastai. Questo pontefice parve, a prima giunta, un uomo comune, un papa come tutti gli altri; ma dopo poco tempo parve essere egli il nunzio di una gran missione divina, e quindi, mentre un denso velo di tenebre copriva il Vaticano, questo velo squarciossi, ed apparve il pontefice sul Vaticano, levar la voce e dichiarare al mondo che il riscatto d’Italia era prossimo; ed egli aveva a sè dappresso un cappuccino ed un predicatore.
Ebbene, quelle due figure dovevano rappresentare il simbolo del novello pontificato. (Mormorio d’impazienza)
presidente. Pregherei l’onorevole Ruggiero di voler venire un po’ più direttamente alla questione; mi pare che egli se ne scosti.
ruggiero. Giovanni Mastai benedisse l’Italia... (Risa e rumori)... indi i due suoi amici scomparvero. Parve che la reazione avesse trionfato.
presidente. Mi scusi, tutto questo pare ancor troppo discosto dalla questione.
ruggiero. Parve che la reazione avesse trionfato (Ilarità), ma poi si vide che per la grazia di Dio, la quale assisteva la rivoluzione italiana, si vide che il principio proclamato da Pio IX incominciava a diffondersi su tutta l’Italia non solo, ma eziandio sull’Europa, mettendo innanzi, dirò così, quegli stromenti che dovevano servire alla risurrezione, al riscatto della medesima. Per conseguenza in Francia cadde il regno di Luigi Filippo, e cinse la corona il principe più sapiente del secolo attuale; nella Russia egualmente principi generosi e nobili, i quali oggi favoriscono il movimento italiano e cogli atti loro, e colle loro simpatie; sicchè conchiudo (Bravo!), che la rivoluzione italiana si è compiuta sotto l’egida del coraggio e della lealtà del Re Vittorio Emanuele; per la concordia e la volontà dei popoli, del patriottismo e del valore non pure degli eserciti alleati, ma altresì per opera dell’illustre Garibaldi e de’ volontari, de’ quali era supremo duce, sotto l’influenza della protezione di Dio; quindi desidero che la formola sia Vittorio Emanuele I per la grazia di Dio e per la volontà nazionale Re d’Italia.
proto. La chiusura!
cassinis, ministro per la grazia e giustizia. Ascoltando, signori, i discorsi degli oratori i quali combatterono o propugnarono la formola della legge da me proposta, e gli alti concetti e le splendide forme di cui li rivestirono, mi lamentai in cuor mio di che i lunghi e severi studi d’una vita forense abbiano affranta la vivezza del mio pensiero, e resa la mia parola tenue e povera troppo dinanzi alla grandezza ed alla nobiltà del soggetto. Ma se Dio e la fortuna non mi concessero l’eloquenza, mi diedero convinzioni profonde, e queste ispireranno, spero, il mio discorso.
L’onorevole deputato Ferrari diceva ieri nel suo elegante discorso: «vogliamo dare il battesimo allo Stato, una laconica leggenda, uno stemma il quale annunzi a tutti il pensiero della nazione.»
Sì, signori, questo è veramente il concetto della legge da me proposta; ciascuna delle formole onde la medesima si compone rappresenta altrettanti principii, e i più solenni principii del dritto pubblico della nazione.
Vittorio Emanuele II, per grazia di Dio e per volontà della nazione, Re d’Italia.
Queste formole, questi principii rispondono essi al pensiero, al sentimento, alla coscienza della nazione? Io lo credo, e mi farò di provarlo.
Vittorio Emanuele II: non lo volete, non volete l’appellativo secondo; e perchè? Parliamo francamente, senza ambagi, e come si addice ad uomini liberi in libera terra.
L’Italia, si dice, non l’ha fatta la Dinastia, l’ha fatta la rivoluzione; Vittorio Emanuele II vuol dire diritto di nascita, vuol dire diritto di conquista, vuol dire ingrandimento. E qui il regno d’Italia, soggiungeva l’onorevole Ferrari, esiste da gran tempo. Egli incominciò ad esistere da quel dì in cui la parola Italia significò un concetto diviso dall’impero.
Volete una serie? prosegue: risalite ai Goti, ai Longobardi, ai Franchi, ai Tedeschi, e fors’anche a Napoleone I; e se Vittorio Emanuele si chiamasse Desiderio o Berengario, lo dovreste chiamare Desiderio II o Berengario III.
Ma noi, conchiude, noi vogliamo il Re valoroso, noi vegliamo il Re dell’Italia nuova, di questa Italia che non ha fatta la Dinastia, che ha fatta la rivoluzione.
Questa mi pare sia l’argomentazione, questo il sistema degli oppositori.
Sta bene, o signori. Il regno d’Italia è antico; da quel dì che la parola Italia cominciò a significare un concetto diviso dall’impero, sì, il regno d’Italia esistette.
Ora, quali siano state le sorti d’Italia, quali siano stati nel volger dei tempi i suoi reggitori, da quel dì il regno d’Italia esistette sempre; da quel dì il concetto dell’unità italiana, di una libertà, d’una patria, d’un’indipendenza comune, fu una verità sentita, altamente sentita, irresistibile, profonda in ogni petto italiano.
Se ora il regno d’Italia sorge in atto, in potenza, è perchè è antico da secoli; esso non è il regno dei Goti, non è il regno dei Longobardi, non è il regno dei Franchi, non è il regno degl’imperatori tedeschi; è il regno di sè medesimo.
Ma questo regno in potenza, mi si perdoni la frase alquanto metafisica, era da tradursi in atto.
Chi primo iniziò la magnanima impresa? chi la continuò? chi la condusse alla sua meta? La rivoluzione, voi dite, ed io ve lo concedo; vediamo ora quale, vediamo or come.
Nel progresso dei secoli, l’opera della rivoluzione è continua; l’età che viene si ribella a quella che fu, distrugge gli antichi abusi, distrugge i pregiudizi antichi, ma si serve pur del passato, raccoglie le nobili aspirazioni, e ne fa tesoro e profitto; la civiltà che sorge si asside sulle rovine di quella che fu, ma rispetta in quelle rovine il suo passato, la sua culla.
La rivoluzione francese fu un gran cataclisma sociale; ma credete voi, o signori, che l’abbia fatta il 1789? che l’abbia fatta l’Enciclopedia? che gli scritti di Voltaire, di Rousseau, di Alembert, anzi credete che l’abbiano fatta i popoli stessi, che allora vivevano?
No, o signori, l’ha fatta il senso morale dell’umanità. La filosofia l’appalesò; i popoli scossi sentirono il battilo del loro cuore, e tradussero in atto una rivoluzione che era nei loro petti, fiera, tremenda, irresistibile come una gran verità conculcata. (Bene!)
Se la rivoluzione dell’umanità è eterna, la rivoluzione italiana, la rivoluzione della sua libertà, della sua indipendenza, della sua nazionalità, è antica assai, ed io già la veggo sollevarsi grande, imperiosa, potente, in quel giorno in cui i cittadini di venti città, raccolti in Pontida, fanno il gran giuro, che doveva risuonare fra poco tremendo a Legnano contro Federico Barbarossa.
Senonchè, dopo la Lega Lombarda, vennero le divisioni municipali, le intestine discordie; rammentate, o signori, quei dolorosi versi del grande Alighieri:
Ed ora in te non stanno senza guerra
Li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
Di quei che un muro ed una fossa serra.
E sopra queste divisioni prese grand’impero il feudo, sopra queste divisioni s’assise tenebroso, funesto il dispotismo feudale; sopr’esso ancora la dominazione straniera, la servitù dell’Italia!
Ebbene, in mezzo alle sparse membra di questa Italia nostra, fra le divisioni municipali, fra le discordie dei comuni, fra le piccole guerre dei tirannelli, oh! la Provvidenza trovò la mano, la Dinastia, la quale riunisse il concetto dell’italiana unità, e questo tramandasse di etade in etade, finchè l’accogliessero i popoli ed il gran giorno venisse del nostro riscatto.
Non rammenterò quel dì, in cui Corrado il Salico disse ad Umberto dalle Bianche mani: tu governerai la Savoia, e governerai parte dell’Italia superiore. Io non salirò ad esso, ma pure, poichè è il capo della Dinastia di Savoia, concedetemi che io dica che Umberto intese i destini a cui era chiamata la sua discendenza, e da quel giorno forse l’intese anche l’Italia.
Ma io trasvolo immantinenti pei secoli, e vengo alla metà del secolo xiv.
Un signore della Casa di Savoia, che aveva la veste, lo scudo, l’armi, la lorica del colore della speranza, Amedeo VI, il Conte Verde, scende dall’Alpi, e ne scende con quei pensieri, i quali, maturati di età in età, dovevano compiere la grande opera dell’unificazione italiana.
Egli percuote la feudale potenza dei Marchesi di Saluzzo, dei Marchesi di Monferrato, dei Visconti, di Giovanna di Napoli, della Casa d’Angiò, e pone le prime basi del gran principio della unificazione italiana.
Io non esporrò la lunga serie dei Principi di Savoia, i quali tennero dietro al Conte Verde, ma mi arresterò un istante ad Amedeo VIII, poichè mi vi chiama un’osservazione giustissima dell’onorevole Ferrari.
Sigismondo innalzò il conte Amedeo VIII a duca di Savoia; era l’età delle Marche; il ricordava ieri l’onorevole Ferrari nel suo discorso. Ebbene io veggo in quell’atto medesimo, che è, se non erro, del 19 febbraio 1416, intitolarsi Amedeo VIII, marchese d’Italia. Ed era una gran marca l’Italia; e quel titolo di marchese d’Italia non suona il titolo per avventura di Re?
Voi vedete dunque che non dobbiamo risalire all’Italia dei Goti, dei Longobardi, dei Franchi, dei Re tedeschi; noi risaliamo ad Amedeo VIII.
Chi di voi non rammenta Emanuele Filiberto, splendore d’Italia, splendore delle armi italiane, splendore della dinastia? Che dico, o signori? Vindice di libertà.
Ed io, ad onore di quel grande, vi rammenterò un suo editto del 20 ottobre 1521. A quell’epoca pur troppo era ancora in Italia la servitù personale. Ebbene il principe così diceva:
«Posciachè piacque a Dio di restituire l’umana natura alla primiera sua libertà; e sebbene i principi cristiani abbiano da gran tempo abolita ogni altra servitù, vi hanno ancora le angherie, vi hanno ancora i personali servizi. Sentendo nell’animo i lamenti di questi infelici, e proponendo, a sollievo e ristoro di questo popolo, ogni speranza di nostro lucro particolare, vogliamo adoperare, come si conviene a buon Principe, con ogni magnificenza, con ogni clemenza, con ogni benignità, e gli proscioglieva da ogni servitù personale.»
Diceva l’onorevole Ferrari che egli voleva i principii del 1789. Sì, signori: io pure li voglio. Ma noi siamo alteri di risalire più alto.
Il 4 agosto 1789 si aboliva la servitù personale in Francia; a quell’epoca un milione e mezzo di persone ubbidiva ancora a quella servitù personale, che Emanuele Filiberto aveva estinta fino dal 1521.
Vedete, o signori, che io vi porto innanzi glorie domestiche, e glorie che le altre nazioni ebbero qualche secolo di poi.
Vi rammenterò io quindi i nomi di Vittorio Emanuele II, di Carlo Emanuele III? Vi dirò io come essi furono grandi e nobili principi e valorosi soldati, e strenui propugnatori dell’unità, dell’indipendenza d’Italia? Voi lo sapete.Vi ricorderò il magnanimo Carlo Alberto, il magnanimo datore dello Statuto, il genitore di Vittorio Emanuele II, l’esule generoso d’Oporto? La sua memoria sta scolpita nel petto vostro, e starà nel petto degl’Italiani eterna!
Or bene, o signori, disgiungerete voi Vittorio Emanuele II dalla serie dei generosi suoi avi, dalle illustri tradizioni della sua casa?
Ma voi mi dite: sì, noi lo faremo, e non ne avrà onta il magnanimo Re, il ristauratore d’Italia nostra, della nuova Italia; noi lo chiameremo col nome di Vittorio Emanuele I, perchè nel nome di Vittorio Emanuele II sta la dinastia, sta il diritto di nascita, sta l’ingrandimento, sta la conquista; Vittorio Emanuele è figlio della sua gloria, della sua lealtà, del suo valore!
No, o signori. Col chiamarlo Vittorio Emanuele II voi non riconoscerete nè un diritto di nascita, nè un diritto di conquista, nè l’ingrandimento. Non durano i regni per lunga età, per lungo ordine di secoli, se non col concorso del volere dei popoli, e quando io veggo una dinastia di principi regnare per una non interrotta serie di molti secoli, io riconosco congiunti in una sola volontà, quasi nell’imperio stesso, popoli e principi.
Voi ben sapete diffatti come nessun tiranno vi fu in questa Dinastia; voi sapete che non n’era il Governo dispotico, ma era di monarchia temperata; non si avevano, il so, le presenti guarentigie costituzionali, ma si avevano però guarentigie larghe assai; ed è all’ombra di queste che i popoli subalpini camminarono coi principi loro nelle vie del progresso, della libertà, dell’indipendenza d’Italia, della sua unità.
Ma voi mi dite: Re e popolo subalpino erano concordi, erano uniti; ben sia; ma la rimanente Italia? Qui dunque è la conquista, qui è l’ingrandimento. No, o signori, ricordate il mio concetto: quest’Italia, che era in potenza, doveva, voleva tradursi in atto; questa Dinastia, questo popolo subalpino furono scelti dalla Provvidenza a compiere la magnanima impresa, ch’era il voto, era il sospiro d’ogni parte d’Italia. Sì, o signori, quando fu fatto il gran giuro, ch’io vi ricordava di sopra, esso risuonò nelle cento, nelle mille italiane città, e lo ripetè ogni italiana terra dall’Alpi all’estremo mar della Sicilia.
A questa grand’opera, no, signori, non fu straniera nessuna parte d’Italia; e quando al magnanimo Re i popoli della rimanente Italia, tuttavia servi ed oppressi, mandarono il grido del loro dolore, mandarono un grido che stava nei loro petti da secoli, e consecrarono con esso una verità ch’era nell’animo, nelle menti di tutti.
Quindi, o signori, l’opera non è della nostra Dinastia, non del popolo subalpino soltanto; essa è di tutta Italia, perocchè tutti compresero questo gran còmpito; era un esercito, di cui una legione pugnava, le altre aspettavano l’ora della pugna; forse che tutto l’esercito non è glorioso del pari, e non lo è del pari ancora più quando, giunta l’ora della battaglia, questo esercito entra tutto nel grande conflitto?
Quindi, o signori, io escludo l’idea della dinastia, del diritto di nascita, del diritto di conquista; una sola è l’idea, è un’Italia in potenza, la quale voleva tradursi in atto; è un’Italia, la quale si tradusse in atto per la virtù dei Principi di questa Dinastia illustre, per la virtù dei popoli, non subalpini soltanto, ma dei popoli di tutta Italia: ecco la rivoluzione che ha fatta l’Italia.
Or dunque, se io raccolgo, per così dire, le sparse fila del mio discorso, mi pare che logicamente ognuno deve essere condotto a non guastare quest’opera, a non togliere al nome di Vittorio Emanuele la numerazione di II, numerazione diquella serie gloriosa la quale iniziò, sino dall’antico Conte Verde, il principio dell’unità italiana, e, insieme a’ popoli tutti d’Italia, la portò al suo termine.
E l’onorevole Ferrari non diceva egli, poc’anzi, che, quando non gli è permesso andar troppo oltre nell’avvenire, egli torna, e gliene fo lode, al passato, egli torna a quegli studi, onde egli tanta dottrina attinse e sublimità di concetti? Non disse ancora che dal passato egli tragge argomento al futuro? Ebbene, o signori, se questo passato, dal giorno in cui il Conte Verde di Savoia scese dall’Alpi, da quel giorno sino ai giorni nostri, sino a Vittorio Emanuele II, fu un solo il pensiero di questa Dinastia, una sola l’aspirazione, il costituire l’Italia ad unità di nazione, siccome mi avviso di aver dimostrato, ebbene, in questo passato, io gli rispondo, egli rispetti quello che ora noi siamo; in questo passato egli riconosca il nostro risorgimento; e, se le tradizioni e le memorie sono fondamento e garanzia del futuro, voi vedete, o signori, che, anche dirimpetto all’onorevole Ferrari, la mia causa è vinta; perchè, per essere logico e conseguente a sè, egli non potrà togliere da questa Dinastia il titolo di II a Vittorio Emanuele, non potrà distrurlo in questa Dinastia, la quale fu, coi popoli d’Italia, la causa redentrice, l’attuazione, insomma, della grande unità italiana, di quella unità che era in potenza, e che infine si tradusse in atto.
Ecco, o signori, i pensieri dai quali io fui condotto quando vi proponeva che la formola degli atti pubblici portasse il nome di Vittorio Emanuele II. Così questa parola, o signori, sarà non pure nelle leggi, ma negli atti di tutta la vita politica e civile del popolo italiano, dal dorato palagio alla umile capanna, una sacra parola che fia per mantener viva la ricordanza d’una Stirpe, che per lunga serie di magnanimi Principi, e di magnanime gesta, consociata a’ suoi popoli, circondata dal loro amore e dalle loro virtù, ci condusse a questa gloriosa meta.
La seconda formola, e qui sarà più breve il mio discorso, si è per la grazia di Dio.
Già esposi nella mia relazione i motivi che mi vi hanno determinato; un giusto omaggio alla Divinità. Questa Italia quando loda Iddio, quando porge un omaggio alla Divinità non ripiglia il suo passato diritto pubblico, non ritorna a principii che devono essere obbliati per sempre, ma afferma come da Dio, che si vivifica continuamente in ogni opera sua, attinge il costante suo diritto, e rende al Dio delle nazioni il tributo della sua riconoscenza.
Pur sappiamo che di questa parola si è abusato; conosciamo le vecchie teorie del diritto divino. Ma di che non si abusò? Di quale virtù o di quale utile istituzione non si può abusare?
Che se noi risaliamo alla storia, vediamo come appunto quei principi posero in capo ai loro atti la formola per la grazia di Dio, i quali non riconoscevano autorità sulla terra a loro superiore; che di questa formola si valsero principalmente dopo l’epoca in cui le usurpazioni dei papi minacciavano la loro indipendenza, proclamandosi arbitratori supremi de’ principi e de’ popoli; incontro a questa pretesa intesero dichiarare e colla mentovata formola dichiararono altamente di non ripetere la propria autorità che da Dio e dalla loro spada.
E l’usarono, o signori, principi di popoli liberi; io vi cito l’Inghilterra. Quando Guglielmo III venne ad assidersi su quel trono, a patto giurasse di osservare la Costituzione del 1688, egli pose in capo a’ suoi atti la formola per la grazia di Dio, e nessuno se ne adontò. I dogi di Venezia l’usarono essi pure.Il perchè, o signori, se noi miriamo al concetto proprio della formola, non vi vediamo che un omaggio reso al Dio della giustizia e della verità; se alle sue origini istoriche, noi vi vediamo consacrato un diritto imperituro, eterno, la indipendenza del principato da ogni soggezione terrena.
Ma dissero gli onorevoli Varese e D’Ondes, e qui io debbo dichiarare che le parole dell’onorevole D’Ondes io le intesi diversamente da quello che paresse all’onorevole Carutti; quando egli diceva: Qual è il Dio che invochiamo?.....
presidente. Non è il deputato D’Ondes che abbia profferito quelle parole.....
cassinis, ministro di grazia e giustizia. Il deputato Varese.....
Voci. Petruccelli della Gattina.....
cassinis, ministro di grazia e giustizia. Petruccelli. (Ilarità) Io queste parole le ho intese diversamente di quello le abbia intese l’onorevole deputato Carutti; io ho ravvisato in queste parole un concetto pressochè identico a quello dell’onorevole deputato Varese. Nessuna parola irriverente poteva pronunziarsi in questa Camera verso le sante cose, nè, a parer mio, si pronunciò. Ma che si disse? che si volle dire? Questo a me parve il concetto: anche sulla bandiera de’ tiranni, anche negli atti dimananti dall’autorità loro voi vedeste cotesta formola; ora dunque, quando diciate: per la grazia di Dio, avrete usata una formola, che era pur quella de’ principi, che l’Italia ha rigettato e rigetta.
Signori, l’obbiezione potrebbe essere grave se fossimo in condizioni diverse; ma altro è quando la bandiera è sostenuta dal voto di venti milioni di cittadini, altro è quando è sola in mano al timido e deserto tiranno. Quando il tiranno scrive per la grazia di Dio, egli scrive un’invereconda menzogna; ma quando lo scrive come Vittorio Emanuele II, e lo scrivono con lui venti milioni di cittadini, oh! permettetemi che io dica allora: la voce del popolo è la voce di Dio. (Vivi segni d’approvazione)
Ma l’onorevole Varese osservò ancora: ci si dirà che è una ipocrisia. Ma, signori, quale virtù fu esercitata mai che non possa essere imputata d’ipocrisia? Pure v’ha taluno a cui non si può imputare l’ipocrisia; e a chi? A chi non ha paura, e l’Italia non ha paura; ella professa i suoi principii francamente, altamente e lealmente; adora Dio perchè lo sente, perchè lo crede, perchè ha la religione nel proprio petto. Non temete l’ipocrisia, signori; si dirà che l’Italia vuole la libertà, che vuole l’indipendenza, ma che adora Dio, e la religione ha altamente nel petto. (Benissimo!)
Non voglio, signori, abusare più oltre dei preziosi momenti della Camera. L’ultima formola non richiede da me nemmeno una parola; la volontà del popolo, io l’ho detto, essa è una grande verità, essa è la voce di Dio!
Conchiudo: non togliete, o signori, a Vittorio Emanuele il suo nome qual è: Vittorio Emanuele II.
È Vittorio Emanuele II che disse ai popoli tutti d’Italia viventi ancora sotto il servaggio: ho inteso i gridi del vostro dolore; e snudò con quel nome la gloriosa sua spada, ed arrischiò la sua vita nelle battaglie di Magenta, di Palestro, di San Martino; egli è quel Vittorio Emanuele che fu salutato col nome di II dall’esercito e dall’eletta schiera dei volontari. Con questo nome egli si slanciò contro le nemiche schiere; oh! non isvelletelo da’ suoi maggiori, non isvelletelo da quel Magnanimo che lasciò esule la vita in Oporto; non isvelletelo dal padre suo; non isvelletelo dalle grandi memorie degli avi suoi. Questa è, ne sono convinto, o signori, la volontà di tutti i popoli d’Italia. Consentite, oh! sì consentite che sopra gli atti solenni della vita politica e civile degli Italiani stiano scrittele formole da me proposte, ed abbiano così nuova, solenne e vera consacrazione gli alti principii ch’esse racchiudono ed esprimono. (Segni d’approvazione)
presidente. Ha facoltà di parlare il deputato Crispi.
crispi. Al punto nel quale è giunta la discussione, poche cose restano a dirsi. E le dirò, dappoichè l’onorevole guardasigilli è ritornato alla difesa della legge presentata al vostro giudizio, ed affinchè non resti completamente senza risposta l’eloquente suo discorso.
Signori, io sono contrario alla formola proposta, giacchè, me lo permetta il guardasigilli, questa formola è semi-feudale, è paurosa, è incerta. È la formola di un regno che non è il nostro; di un regno che teme distaccarsi dalle tradizioni del passato, e che non osa risolutamente lanciarsi nell’avvenire.
Quindi è indegna dell’augusto soldato di Palestro e San Martino, che dedicava vita e corona al trionfo di una magnanima idea; è indegna di un gran popolo, che si rialza con miracoli di audacia e con potenza di sacrifizi dalla tomba in cui l’avevano cacciato i tiranni indigeni e stranieri.
Tale essendo la mia opinione, anch’io analizzerò questa formola. Lo farò brevemente.
Vittorio Emanuele II Re d’Italia.
Signori, io non mi meraviglio che si stia questionando sul numero d’apporre al nome del Re, mi meraviglio bensì che gli si voglia apporre un numero.
Carlo Magno, Napoleone e tutti i fondatori di dinastie, non iscrivevano sulle loro leggi e sui loro decreti che semplicemente il loro nome. Soli i successori, avendo bisogno di provare un’augusta origine e di ripetere i loro diritti dalla storia, pensarono alla numerazione, e ciò perchè ne venisse ai medesimi l’autorità delle tradizioni sui popoli soggetti.
Ebbene, checchè ne dicano i difensori della legge, Vittorio Emanuele è il capo della Dinastia dei nuovi Re d’Italia. È un caso che egli sia figlio di Re.
Giuridicamente, qual Re d’Italia, egli non ha nulla a fare coi conti della Moriana e coi principi di Piemonte, i quali talora furono vicari degli imperatori di Germania; non ha nulla che fare con Vittorio Emanuele I, il quale ritornava dall’isola di Sardegna nelle provincie di terraferma mercè il sussidio delle baionette straniere; non ha nulla a fare con Carlo Felice, ultimo del ramo primogenito di Casa Savoia, il quale, nel 1821, fu nel campo degli Austriaci a combattere l’unità d’Italia.
Signori, diciamo le cose come sono; non cerchiamo titoli che non ci appartengono; non facciamo come i nobili decaduti, i quali, in difetto di virtù proprie, vanno a cercarle negli archivi, diseppellendo le pergamene dei loro avi.
La monarchia che avete fondato non ha precedenti nella storia. Essa non somiglia a nessuno dei regni d’Italia stati decretati dalla conquista; regni angusti, spesso nominali, che non abbracciarono mai la totalità della Penisola, che non ebbero mai a base della loro autorità un plebiscito come quello del 21 ottobre 1860, il quale dichiara solennemente l’unità e l’indivisibilità della terra italiana.
Per servirmi delle parole dell’onorevole guardasigilli, dirò anch’io che la monarchia ha la sua genesi nella rivoluzione. E, per trovare la genesi di questa rivoluzione, io non andrò così a lungo, come ha fatto l’onorevole ministro, per cercarla al di là del nostro secolo.
La rivoluzione italiana, signori, scoppiò in Palermo il 12 gennaio 1848; essa percorse la Penisola dall’estrema Sicilia insino alle Alpi. Questa rivoluzione ha rovesciato in pochi anni tutti i poteri costituiti, ha spezzato le corone di quattro dinastie, ha affermato al cospetto del mondo il diritto d’una nazione che sino all’altro giorno si voleva bandita dal consorzio delle grandi potenze. Questa rivoluzione, signori, nella sua opera distruttrice non ha rispettato, del passato, che il Principe sabaudo, il quale era sceso dal reale seggio, per capitanare le patrie battaglie, per fraternizzare col popolo, il quale, ebbro di riconoscenza, gli ha rialzato un trono più splendido, più potente.
Questa essendo la vera sua genesi, la nuova monarchia, come benissimo diceva il mio amico Ferrari, dovrà avere il suo proprio nome, dovrà avere il suo proprio battesimo, e non torlo a prestito dal passato.
Si è parlato di sconvenevolezza, d’ingratitudine anche contro coloro che vorrebbero cancellato o mutato il numero che Vittorio Emanuele ricevette per ragione cronologica quale uno dei successori dei Reali di Sardegna. Ma, signori, non è forse un genere di sconvenevolezza e d’ingratitudine molto strano, quello di fare del Re di Sardegna un Re d’Italia, e di scambiargli una monarchia di cinque milioni d’Italiani con un’altra di ventidue milioni? Se la nostra è ingratitudine, sono sicuro che la Dinastia ci saprà grado. (Bene! a sinistra)
D’altronde, quanto al numero, il deputato Ferrari e gli oratori dell’opposizione che l’hanno seguito vi provarono con documenti storici, col medagliere, colle iscrizioni delle varie epoche, che questa mutazione di numero non è nuova. Io non ripeterò gli esempi dai medesimi allegati e che ho voluto constatare coi miei proprii occhi. Vi dirò unicamente che gli esempi in contrario riferitici dall’onorevole ministro per l’agricoltura e commercio non erano d’alcuna importanza.
E qui riassumerò in poche parole quanto vi diceva l’amico mio Ferrari.
Ferdinando il Cattolico, nel conquistare il regno di Granata sui Mori, non unificò la Spagna. Egli restò Re dell’Aragona e della terra conquistata per proprio diritto, ma fu semplice amministratore della Castiglia, come sposo d’Isabella. Quindi l’esempio non calza. Per quanto riguarda il duca di Würtemberg e l’Elettore di Sassonia, l’onorevole ministro avrebbe dovuto ricordarsi che quei Principi, elevati alla dignità di Re per la grazia di Napoleone Bonaparte, non fecero che mutare di titolo. Essi non mutarono di potenza, nè di territorio. In un bel giorno, senza altra necessità che l’arbitrio di un sovrano straniero, il Duca di Würtemberg fu chiamato Re di Würtemberg, e l’Elettore di Sassonia fu chiamato Re di Sassonia.
Ebbene, o signori, in Italia è avvenuto qualche cosa di più grave, qualche cosa di più solenne, perchè noi dovessimo richiedere alla Spagna ed alla Germania le ragioni storiche per dare il vero battesimo alla monarchia nazionale.
Re per la grazia di Dio?
Il deputato Varese vi spiegò dottamente e logicamente il vero senso di quella frase: e per quanto il guardasigilli si sia industriato, ed abbia eloquentemente risposto, io non trovo nel suo nobile discorso un argomento tale che valga a combattere le ragioni dell’onorevole Varese.
Un deputato diceva che, cancellando quella frase, si potrebbe credere che noi volessimo creare il regno d’Italia senza il beneplacito di Dio. Un altro deputato, più teologo, ma non meno severo, raccomandava quelle parole, perchè trova in esse un omaggio alla religione, ed il punto di riunione del popolo col principe.
Signori, io conosco il vecchio adagio: non si muove foglia che Dio non voglia, ma io rispetto e preferisco il precetto del Vangelo: non nominare il nome di Dio invano. L’omaggio alla religione è nell’articolo 1° dello Statuto, e l’unione tra principe e popolo io la vedo meglio e più convenientemente nell’esercizio della potestà legislativa.
La formola: Per la grazia di Dio, comunque voi ne rifiutaste il senso primitivo, sarà sempre la formola dei re sorti nel medio evo, abbattuti dalla rivoluzione francese, ristorati dal Congresso di Vienna.
Quei re ripetevano il proprio diritto da Dio e dalla loro spada.
Con questa duplice forza si allearono la Chiesa e l’impero. L’impero metteva a disposizione della Chiesa la spada, a condizione che la Chiesa ne legittimasse le inique conquiste colla parola divina.
Fortunatamente quei tempi non sono più; laddove durassero, nella nostra Penisola non ci sarebbe un regno d’Italia, ma avremo sette principi in sette Stati governati col carnefice e benedetti dal pontefice romano.
Signori, io ho detto abbastanza perchè voi conosciate i motivi i quali m’inducono a votare contro il progetto di legge sottoposto al vostro giudizio.
Voci. La chiusura! la chiusura!
presidente. Il deputato Massari ha facoltà di parlare.
massari. Al punto cui è giunta la discussione, io credo che essa può ritenersi per esaurita, e quindi, conformandomi al desiderio della Camera, rinuncio alla parola, e la prego a pronunciare la chiusura. (Bravo!)
presidente. Domando se la chiusura è appoggiata.
(È appoggiata.)
La metterò ai voti.
(È approvata.)
Leggerò l’articolo.
«Articolo unico. Tutti gli atti che debbono essere intitolati in nome del Re lo saranno colla formola seguente:
(Il nome del Re)
Per grazia di Dio e per volontà della Nazione
Re d’Italia.»
Si sono presentati tre emendamenti, di cui darò cognizione alla Camera.
L’uno è del deputato Ruggiero, il quale vorrebbe che la formola fosse la seguente:
«Vittorio Emanuele I, per la grazia di Dio e per volontà della nazione, Re d’Italia.»
Perciò l’emendamento consisterebbe solo nel dire: «Vittorio Emanuele I, invece di II.»
L’altro è dei signori D’Ondes-Reggio e Ugdulena, così concepito:
«Vittorio Emanuele, per la grazia di Dio e la volontà della nazione, Re d’Italia.»
Come ha inteso la Camera, questo emendamento si confonde quasi con quello del signor Ruggiero; la differenza è che, secondo la proposta del deputato Ruggiero, si dovrebbe dire: Vittorio Emanuele I; in vece che, secondo quella presentata dai signori D’Ondes-Reggio e Ugdulena, non vi sarebbe che il nome di Vittorio Emanuele, senza la numerazione.
Il terzo emendamento, che si discosta più di tutti dal testo del progetto, è del deputato Miceli, ed è così espresso:
«Vittorio Emanuele, per volontà della nazione, Re d’Italia una ed indivisibile.»
Metterò prima ai voti quest’ultimo, come il più largo.
macchi. Non avendolo fatto altri, come m’aspettava, proporrò io un emendamento che concilierebbe forse tutte le opinioni: direi semplicemente: Vittorio Emanuele Re d’Italia.
M’astengo dallo spiegarne le ragioni, perchè sono troppo evidenti, e d’altronde la Camera deve già averne abbastanza.presidente. Anche con questa modificazione l’emendamento del signor Miceli è pur sempre quello che maggiormente si scosta dalla proposta di legge.
Domanderò se la Camera appoggia questa modificazione.
(È appoggiata.)
La metto ai voti.
(Non è approvata.)
Porrò allora a partito l’emendamento del signor Miceli. Lo rileggo:
«Vittorio Emanuele, per volontà della nazione, Re d’Italia una e indivisibile.»
(Non è approvato.)
Metterò ai voti quello del deputato Macchi, così concepito:
«Vittorio Emanuele Re d’Italia.»
macchi. Avverto la Camera che col mio emendamento non propongo di fare alcuna novità. Si tratta solo di continuare, come si è fatto fin qui, perchè, infine, la formola: Vittorio Emanuele Re d’Italia, è precisamente quella con cui già s’intitolano gli atti dal giorno della proclamazione del nuovo regno fino ad oggi.
presidente. Chi approva la proposta fatta dal deputato Macchi, voglia alzarsi.
(Non è approvata.)
Rimangono gli altri due, i quali consistono nella modificazione seguente: l’uno dice: Vittorio Emanuele, senza numerazione; l’altro: Vittorio Emanuele I.
Metto ai voti prima di tutto le parole Vittorio Emanuele, senza alcun numero.
d’ondes-reggio. Domando che si voti per divisione, prima pel solo nome, poscia pel numero.
presidente, Scusi, la grazia di Dio c’è anche nel progetto. (Ilarità)
d’ondes-reggio. Ma ci possono essere molti i quali vogliano votare per la prima parte della formola da me proposta, cioè per le sole parole Vittorio Emanuele, e intanto non vogliano votare per le parole la grazia di Dio.
presidente. Questo l’ho annunziato.
Metto ai voti le prime parole di questo emendamento, dicenti Vittorio Emanuele, senz’altro.
(Non sono approvate.)
Dopo questa votazione mi pare che il deputato Ruggiero potrebbe ritirare la sua proposta.
ruggiero. La ritiro.
presidente. Metto ai voti il progetto quale fu sancito dal Senato.
«Articolo unico. Tutti gli atti che debbono essere intitolati in nome del Re, lo saranno con la formola seguente:
(Il nome del Re)»
Chi approva questa prima parte, si alzi.
(È approvata.)
Seguono le parole: per grazia di Dio. Le metto ai voti.
(Sono approvate.)
Pongo ai voti la terza parte così espressa:
«E per volontà della nazione Re d’Italia.»
(È approvata.)
Pongo ai voti l’intero articolo.
(È approvato.)
Si passerà ora alla votazione per iscrutinio segreto sul complesso della legge.
Prego i signori deputati di non lasciare ancora la Camera, perchè si potrà ancora votare un altro progetto di legge, che credo non darà luogo a discussione.
(Appello nominale.)
Prima di passare all’accertamento dei voti, debbo far noto alla Camera che il deputato Marliani dichiarò di essersi sbagliato nel deporre un voto contrario nell’urna, mentre la sua intenzione è di votare per l’approvazione della legge.
Risultato della votazione:
Presenti e votanti | 232 |
Maggioranza | 117 |
Voti favorevoli | 174 |
Contrari | 58 |
(La Camera adotta.)