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camera dei deputati — sessione del 1861


nazione che sino all’altro giorno si voleva bandita dal consorzio delle grandi potenze. Questa rivoluzione, signori, nella sua opera distruttrice non ha rispettato, del passato, che il Principe sabaudo, il quale era sceso dal reale seggio, per capitanare le patrie battaglie, per fraternizzare col popolo, il quale, ebbro di riconoscenza, gli ha rialzato un trono più splendido, più potente.

Questa essendo la vera sua genesi, la nuova monarchia, come benissimo diceva il mio amico Ferrari, dovrà avere il suo proprio nome, dovrà avere il suo proprio battesimo, e non torlo a prestito dal passato.

Si è parlato di sconvenevolezza, d’ingratitudine anche contro coloro che vorrebbero cancellato o mutato il numero che Vittorio Emanuele ricevette per ragione cronologica quale uno dei successori dei Reali di Sardegna. Ma, signori, non è forse un genere di sconvenevolezza e d’ingratitudine molto strano, quello di fare del Re di Sardegna un Re d’Italia, e di scambiargli una monarchia di cinque milioni d’Italiani con un’altra di ventidue milioni? Se la nostra è ingratitudine, sono sicuro che la Dinastia ci saprà grado. (Bene! a sinistra)

D’altronde, quanto al numero, il deputato Ferrari e gli oratori dell’opposizione che l’hanno seguito vi provarono con documenti storici, col medagliere, colle iscrizioni delle varie epoche, che questa mutazione di numero non è nuova. Io non ripeterò gli esempi dai medesimi allegati e che ho voluto constatare coi miei proprii occhi. Vi dirò unicamente che gli esempi in contrario riferitici dall’onorevole ministro per l’agricoltura e commercio non erano d’alcuna importanza.

E qui riassumerò in poche parole quanto vi diceva l’amico mio Ferrari.

Ferdinando il Cattolico, nel conquistare il regno di Granata sui Mori, non unificò la Spagna. Egli restò Re dell’Aragona e della terra conquistata per proprio diritto, ma fu semplice amministratore della Castiglia, come sposo d’Isabella. Quindi l’esempio non calza. Per quanto riguarda il duca di Würtemberg e l’Elettore di Sassonia, l’onorevole ministro avrebbe dovuto ricordarsi che quei Principi, elevati alla dignità di Re per la grazia di Napoleone Bonaparte, non fecero che mutare di titolo. Essi non mutarono di potenza, nè di territorio. In un bel giorno, senza altra necessità che l’arbitrio di un sovrano straniero, il Duca di Würtemberg fu chiamato Re di Würtemberg, e l’Elettore di Sassonia fu chiamato Re di Sassonia.

Ebbene, o signori, in Italia è avvenuto qualche cosa di più grave, qualche cosa di più solenne, perchè noi dovessimo richiedere alla Spagna ed alla Germania le ragioni storiche per dare il vero battesimo alla monarchia nazionale.

Re per la grazia di Dio?

Il deputato Varese vi spiegò dottamente e logicamente il vero senso di quella frase: e per quanto il guardasigilli si sia industriato, ed abbia eloquentemente risposto, io non trovo nel suo nobile discorso un argomento tale che valga a combattere le ragioni dell’onorevole Varese.

Un deputato diceva che, cancellando quella frase, si potrebbe credere che noi volessimo creare il regno d’Italia senza il beneplacito di Dio. Un altro deputato, più teologo, ma non meno severo, raccomandava quelle parole, perchè trova in esse un omaggio alla religione, ed il punto di riunione del popolo col principe.

Signori, io conosco il vecchio adagio: non si muove foglia che Dio non voglia, ma io rispetto e preferisco il precetto del Vangelo: non nominare il nome di Dio invano. L’omaggio

alla religione è nell’articolo 1° dello Statuto, e l’unione tra principe e popolo io la vedo meglio e più convenientemente nell’esercizio della potestà legislativa.

La formola: Per la grazia di Dio, comunque voi ne rifiutaste il senso primitivo, sarà sempre la formola dei re sorti nel medio evo, abbattuti dalla rivoluzione francese, ristorati dal Congresso di Vienna.

Quei re ripetevano il proprio diritto da Dio e dalla loro spada.

Con questa duplice forza si allearono la Chiesa e l’impero. L’impero metteva a disposizione della Chiesa la spada, a condizione che la Chiesa ne legittimasse le inique conquiste colla parola divina.

Fortunatamente quei tempi non sono più; laddove durassero, nella nostra Penisola non ci sarebbe un regno d’Italia, ma avremo sette principi in sette Stati governati col carnefice e benedetti dal pontefice romano.

Signori, io ho detto abbastanza perchè voi conosciate i motivi i quali m’inducono a votare contro il progetto di legge sottoposto al vostro giudizio.

Voci. La chiusura! la chiusura!

presidente. Il deputato Massari ha facoltà di parlare.

massari. Al punto cui è giunta la discussione, io credo che essa può ritenersi per esaurita, e quindi, conformandomi al desiderio della Camera, rinuncio alla parola, e la prego a pronunciare la chiusura. (Bravo!)

presidente. Domando se la chiusura è appoggiata.

(È appoggiata.)

La metterò ai voti.

(È approvata.)

Leggerò l’articolo.

«Articolo unico. Tutti gli atti che debbono essere intitolati in nome del Re lo saranno colla formola seguente:

(Il nome del Re)
Per grazia di Dio e per volontà della Nazione
Re d’Italia.»

Si sono presentati tre emendamenti, di cui darò cognizione alla Camera.

L’uno è del deputato Ruggiero, il quale vorrebbe che la formola fosse la seguente:

«Vittorio Emanuele I, per la grazia di Dio e per volontà della nazione, Re d’Italia.»

Perciò l’emendamento consisterebbe solo nel dire: «Vittorio Emanuele I, invece di II.»

L’altro è dei signori D’Ondes-Reggio e Ugdulena, così concepito:

«Vittorio Emanuele, per la grazia di Dio e la volontà della nazione, Re d’Italia.»

Come ha inteso la Camera, questo emendamento si confonde quasi con quello del signor Ruggiero; la differenza è che, secondo la proposta del deputato Ruggiero, si dovrebbe dire: Vittorio Emanuele I; in vece che, secondo quella presentata dai signori D’Ondes-Reggio e Ugdulena, non vi sarebbe che il nome di Vittorio Emanuele, senza la numerazione.

Il terzo emendamento, che si discosta più di tutti dal testo del progetto, è del deputato Miceli, ed è così espresso:

«Vittorio Emanuele, per volontà della nazione, Re d’Italia una ed indivisibile.»

Metterò prima ai voti quest’ultimo, come il più largo.

macchi. Non avendolo fatto altri, come m’aspettava, proporrò io un emendamento che concilierebbe forse tutte le opinioni: direi semplicemente: Vittorio Emanuele Re d’Italia.

M’astengo dallo spiegarne le ragioni, perchè sono troppo evidenti, e d’altronde la Camera deve già averne abbastanza.