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tornata del 17 aprile
Ma noi, conchiude, noi vogliamo il Re valoroso, noi vegliamo il Re dell’Italia nuova, di questa Italia che non ha fatta la Dinastia, che ha fatta la rivoluzione.
Questa mi pare sia l’argomentazione, questo il sistema degli oppositori.
Sta bene, o signori. Il regno d’Italia è antico; da quel dì che la parola Italia cominciò a significare un concetto diviso dall’impero, sì, il regno d’Italia esistette.
Ora, quali siano state le sorti d’Italia, quali siano stati nel volger dei tempi i suoi reggitori, da quel dì il regno d’Italia esistette sempre; da quel dì il concetto dell’unità italiana, di una libertà, d’una patria, d’un’indipendenza comune, fu una verità sentita, altamente sentita, irresistibile, profonda in ogni petto italiano.
Se ora il regno d’Italia sorge in atto, in potenza, è perchè è antico da secoli; esso non è il regno dei Goti, non è il regno dei Longobardi, non è il regno dei Franchi, non è il regno degl’imperatori tedeschi; è il regno di sè medesimo.
Ma questo regno in potenza, mi si perdoni la frase alquanto metafisica, era da tradursi in atto.
Chi primo iniziò la magnanima impresa? chi la continuò? chi la condusse alla sua meta? La rivoluzione, voi dite, ed io ve lo concedo; vediamo ora quale, vediamo or come.
Nel progresso dei secoli, l’opera della rivoluzione è continua; l’età che viene si ribella a quella che fu, distrugge gli antichi abusi, distrugge i pregiudizi antichi, ma si serve pur del passato, raccoglie le nobili aspirazioni, e ne fa tesoro e profitto; la civiltà che sorge si asside sulle rovine di quella che fu, ma rispetta in quelle rovine il suo passato, la sua culla.
La rivoluzione francese fu un gran cataclisma sociale; ma credete voi, o signori, che l’abbia fatta il 1789? che l’abbia fatta l’Enciclopedia? che gli scritti di Voltaire, di Rousseau, di Alembert, anzi credete che l’abbiano fatta i popoli stessi, che allora vivevano?
No, o signori, l’ha fatta il senso morale dell’umanità. La filosofia l’appalesò; i popoli scossi sentirono il battilo del loro cuore, e tradussero in atto una rivoluzione che era nei loro petti, fiera, tremenda, irresistibile come una gran verità conculcata. (Bene!)
Se la rivoluzione dell’umanità è eterna, la rivoluzione italiana, la rivoluzione della sua libertà, della sua indipendenza, della sua nazionalità, è antica assai, ed io già la veggo sollevarsi grande, imperiosa, potente, in quel giorno in cui i cittadini di venti città, raccolti in Pontida, fanno il gran giuro, che doveva risuonare fra poco tremendo a Legnano contro Federico Barbarossa.
Senonchè, dopo la Lega Lombarda, vennero le divisioni municipali, le intestine discordie; rammentate, o signori, quei dolorosi versi del grande Alighieri:
Ed ora in te non stanno senza guerra
Li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode
Di quei che un muro ed una fossa serra.
E sopra queste divisioni prese grand’impero il feudo, sopra queste divisioni s’assise tenebroso, funesto il dispotismo feudale; sopr’esso ancora la dominazione straniera, la servitù dell’Italia!
Ebbene, in mezzo alle sparse membra di questa Italia nostra, fra le divisioni municipali, fra le discordie dei comuni, fra le piccole guerre dei tirannelli, oh! la Provvidenza trovò la mano, la Dinastia, la quale riunisse il concetto dell’ita-
Non rammenterò quel dì, in cui Corrado il Salico disse ad Umberto dalle Bianche mani: tu governerai la Savoia, e governerai parte dell’Italia superiore. Io non salirò ad esso, ma pure, poichè è il capo della Dinastia di Savoia, concedetemi che io dica che Umberto intese i destini a cui era chiamata la sua discendenza, e da quel giorno forse l’intese anche l’Italia.
Ma io trasvolo immantinenti pei secoli, e vengo alla metà del secolo xiv.
Un signore della Casa di Savoia, che aveva la veste, lo scudo, l’armi, la lorica del colore della speranza, Amedeo VI, il Conte Verde, scende dall’Alpi, e ne scende con quei pensieri, i quali, maturati di età in età, dovevano compiere la grande opera dell’unificazione italiana.
Egli percuote la feudale potenza dei Marchesi di Saluzzo, dei Marchesi di Monferrato, dei Visconti, di Giovanna di Napoli, della Casa d’Angiò, e pone le prime basi del gran principio della unificazione italiana.
Io non esporrò la lunga serie dei Principi di Savoia, i quali tennero dietro al Conte Verde, ma mi arresterò un istante ad Amedeo VIII, poichè mi vi chiama un’osservazione giustissima dell’onorevole Ferrari.
Sigismondo innalzò il conte Amedeo VIII a duca di Savoia; era l’età delle Marche; il ricordava ieri l’onorevole Ferrari nel suo discorso. Ebbene io veggo in quell’atto medesimo, che è, se non erro, del 19 febbraio 1416, intitolarsi Amedeo VIII, marchese d’Italia. Ed era una gran marca l’Italia; e quel titolo di marchese d’Italia non suona il titolo per avventura di Re?
Voi vedete dunque che non dobbiamo risalire all’Italia dei Goti, dei Longobardi, dei Franchi, dei Re tedeschi; noi risaliamo ad Amedeo VIII.
Chi di voi non rammenta Emanuele Filiberto, splendore d’Italia, splendore delle armi italiane, splendore della dinastia? Che dico, o signori? Vindice di libertà.
Ed io, ad onore di quel grande, vi rammenterò un suo editto del 20 ottobre 1521. A quell’epoca pur troppo era ancora in Italia la servitù personale. Ebbene il principe così diceva:
«Posciachè piacque a Dio di restituire l’umana natura alla primiera sua libertà; e sebbene i principi cristiani abbiano da gran tempo abolita ogni altra servitù, vi hanno ancora le angherie, vi hanno ancora i personali servizi. Sentendo nell’animo i lamenti di questi infelici, e proponendo, a sollievo e ristoro di questo popolo, ogni speranza di nostro lucro particolare, vogliamo adoperare, come si conviene a buon Principe, con ogni magnificenza, con ogni clemenza, con ogni benignità, e gli proscioglieva da ogni servitù personale.»
Diceva l’onorevole Ferrari che egli voleva i principii del 1789. Sì, signori: io pure li voglio. Ma noi siamo alteri di risalire più alto.
Il 4 agosto 1789 si aboliva la servitù personale in Francia; a quell’epoca un milione e mezzo di persone ubbidiva ancora a quella servitù personale, che Emanuele Filiberto aveva estinta fino dal 1521.
Vedete, o signori, che io vi porto innanzi glorie domestiche, e glorie che le altre nazioni ebbero qualche secolo di poi.
Vi rammenterò io quindi i nomi di Vittorio Emanuele II, di Carlo Emanuele III? Vi dirò io come essi furono grandi e nobili principi e valorosi soldati, e strenui propugnatori dell’unità, dell’indipendenza d’Italia? Voi lo sapete.