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camera dei deputati — sessione del 1861
Non sarebbe nè degno, nè opportuno l’imporre la rinunzia di una domestica tradizione, che è bella di nobile fierezza.
Ma c’è di più. Io dico che questo nome è inciso nella storia italiana, e l’alterarlo sarebbe non solo un anacronismo, ma, lasciatemelo dire, sarebbe una profanazione. Questa nome è scolpito nel cuore di tutti gl’Italiani; il volerlo ora mutare sarebbe quasi un offendere il senso morale.
Oggi che l’Italia ha restituita la corona all’antica stirpe dei Berengari e degli Adalberti, conserviamo al loro pronipote intatto quel nome ch’ei rese glorioso e venerato nel mondo.
Sono gravi queste considerazioni; ma avvene un’altra che ad esse parmi sovrastare ancora.
Per me qui non vi è la sola questione del Principe; per quanto grande egli sia, avvi qualche cosa più grande ancora: al disopra dell’uomo, al disopra del capo dello Stato vi è il principio monarchico.
E qui non sarà inopportuno di chiarire un punto che contiene il segreto di molte diversità di opinioni. (Segni di attenzione)
Vi hanno di quelli che si accostano alla monarchia, e, direi quasi, la tollerano in grazia del Re Vittorio Emanuele; ve ne hanno degli altri i quali sono ossequenti alla monarchia non solo per l’uomo che la rappresenta, ma come ad un’istituzione che fu utile all’Italia per riscattarsi e costituirsi in unità, e che è necessaria ancora per conservare la patria nostra nel presente stato, per redimerla tutta intera, per ritornarla e mantenerla nazione potente e sicura.
Ciò posto, qualunque atto il quale possa debilitare questa istituzione debbe essere da noi sollecitamente evitato. Il voler interrompere il corso regolare della dinastia, il separarla quasi dalle sue radici, produrrebbe un somigliante effetto al cospetto dell’Europa e presso i popoli della Penisola.
Imperocchè l’Europa da lungo tempo è avvezza a conoscere e riverire la Casa di Savoia, e l’Europa poco bene augurerebbe della nuova Italia, quando la vedesse costringere il suo Principe ad abdicare il suo passato, perchè i destini della sua schiatta si sono compiuti.
La monarchia poi scemerebbe di prestigio presso i popoli, perchè i popoli riveriscono istintivamente la tradizione storica, ed accolgono più facilmente, più sinceramente i grandi mutamenti, quando li veggano iniziati, condotti e, vorrei dire, consacrati da un’autorità riconosciuta, preesistente, non fabbricata nel fervor della lotta, posta fuori delle discussioni delle parti e delle fazioni stesse.
Questa considerazione mi conduce verso il termine del mio discorso.
L’onorevole deputato Ferrari ha recati molti fatti, molti precedenti, nella tornata di ieri, in sostegno della sua tesi. Ebbene, io dichiaro francamente che quei fatti, quei precedenti sono esattissimi per la maggior parte. Potrei aggiungerne forse degli altri e rettificare qualche nome da lui errato,
Un solo fatto da lui asserito non posso ammettere. Fu detto che Casa di Savoia non alterò il nome de’ suoi Principi nelle varie sue fasi, ed egli cercò di provare il contrario, e ricordò editti, medaglie, monete da lui recentemente esaminate.
Mi restringo ai soli editti. Egli forse non ha esaminate le diverse serie, cioè gli editti dei vari regni, ha guardato solo una parte, e, solitamente, quando si bada a una parte sola è facile ingannarsi. Egli non ha tenuto conto che nella nostra monarchia non usavasi di apporre il numero dopo il nome di principe (Segni affermativi del deputato Ferrari); non ha badato che Carlo Emanuele II, per esempio, non ha mai messo il II dopo il suo nome; non ha osservato che Vittorio Amedeo III e Carlo Emanuele IV non hanno mai intestati gli atti del loro regno col loro numero dinastico. Non avvi che un esempio in contrario, quello di Vittorio Amedeo, il quale, finchè fu duca, apponeva quasi sempre al suo nome il numero II, e che lo intralasciò quando divenne re.
Ma, o signori, tutti questi precedenti che vi furono citati, il precedente stesso di Vittorio Amedeo, ed ho già notato che esso non prova, perchè la posterità gli ha conservato il titolo di secondo, tutti questi fatti che cosa significano! Significano che quando un principe, non insignito di corona reale, acquista dignità e titolo di re, questo principe suole allora, per lo più, cambiare il nome; ma non prova punto che quando un principe possiede già questo titolo, debba necessariamente alterare la numerazione dinastica allorchè viene ampliato lo Stato suo.
Ed i fatti dai vari oratori ricordati sono quasi tutti la conseguenza di trattati pubblici, e talvolta di stipulazioni dirette tra i popoli ed i principi. In questi trattati, in queste stipulazioni, era serbato espressamente, in favore del regno aggregato, il diritto di conservare le proprie leggi, il diritto pubblico interno dello Stato; dimodochè il principe non dava che la sola sua persona, se pur la dava sempre. Ma invece, nel caso nostro, non avvi duca, non avvi principe che assuma la corona di re; vi è un monarca il quale continua la tradizione della sua monarchia; non è un re il quale dia all’Italia la sola sua persona; vi ha un re il quale diede all’Italia le leggi della sua monarchia, la legge della libertà costituzionale, lo Statuto. Queste leggi l’Italia accettò con gioia; esse hanno ricevuto in Vittorio Emanuele, non solo la persona, ma tutto quanto egli rappresenta, ed egli rappresenta la monarchia e rappresenta la libertà dello Statuto. E questi due concetti sarebbero profondamente alterati quando si cambiasse il nome del Re; imperocchè potrebbe credersi che, trasformando uno dei poteri dello Stato, la legge fondamentale stessa ne venisse vulnerata.
Pensiamo, o signori, a questo pericolo: ed in ultimo non ci sfugga la seguente avvertenza.
Quando noi adottassimo la formola di Vittorio Emanuele I, dovremmo aggiungere un altro articolo alla nostra legge. E sapete quale articolo noi dovremmo aggiungere? Noi dovremmo aggiungere, che la data delle leggi, la quale indica non solamente il millesimo, ma eziandio l’anno del regno, fosse mutata, il Re non direbbe più l’anno 1861 del regno nostro il duodecimo, ma del regno nostro il primo. E quale sarebbe di ciò la conseguenza? Noi verremmo a cancellare dodici anni di quel regno che ci ha qui condotti, che ha fatta l’Italia e che l’ha costituita in nazione. (Sensazione)