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XII XIV

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XIII.


Il senatore Manfredi, quel giorno, fra le sette e le otto del pomeriggio, aveva una faccia rannuvolata che mai. Quali cure lo affliggevano? Non già il pensiero della legge sul riordinamento del Genio Civile, presentata due giorni prima dal ministro Baccarini in Senato, e affidata allo studio di una commissione in cui egli non aveva parte. E neanche la legge per l’applicazione del nuovo Codice di Commercio, poichè questa doveva presentarla il ministro Magliani due giorni più tardi, e la commissione che l’avrebbe studiata, sebbene egli dovesse entrarci di pien diritto, era ancora di là da venire. Comunque, nè questo tema, nè l’altro, nè gli annunziati provvedimenti per soccorrere i [p. 228 modifica]danneggiati di un recente uragano in provincia di Forlì, erano tali da doverlo impensierire a quel modo.

Gabriella, che lo aveva veduto sereno a colazione, non potè vederlo rannuvolato a pranzo, senza domandargliene il perchè; aspettando, s’intende, che la gente di servizio si fosse allontanata. Quella bella diavolina, quando voleva una cosa da suo padre, la spuntava sempre, e per due buoni ragioni: in primo luogo perchè era amata molto dal babbo, e secondariamente perchè, essendo una savia ed accorta figliuola, non domandava mai se non ciò che poteva domandare.

— Babbo, tu sei pensieroso, stasera; — aveva ella incominciato. — Che cos’hai? Me lo dici?

— Che t’ho a dire, bambina? — rispose il senatore. — Sai bene!...

— Non so nulla, e perciò ti domando.

— Ma... — rispose egli, impacciato. — Finalmente, ho dato licenza all’amico Cesare di parlartene egli stesso. — [p. 229 modifica]

A quell’annunzio, Gabriella levò la fronte, sgranò tanti d’occhi e sorrise.

— Ah! — esclamò ella. — Si tratta di un discorso che ha da farmi il signor Gonzaga, e sei triste? —

Il Manfredi contemplò un istante la figliuola, non senza maravigliarsi di vederla così lieta all’udire quel nome.

— Sei dunque molto contenta che egli ti parli? — le chiese.

— Babbo... non so. Con che aria me lo domandi! Ma infine, che c’è di male? Non mi avete assuefatta da bambina, tu e la povera mamma, a stimarlo come un uomo nobile e buono, ad amarlo come il migliore amico della famiglia? È venuto, dopo tanti anni che si aspettava; l’ho veduto ancor io, e m’è parso superiore all’idea che m’ero fatta di lui. Sai? a forza di sentirlo nominare come un giusto, come un uomo virtuoso, come un’anima eccelsa, mi ero figurata un Socrate, un Platone, un Pitagora, che so io! uno di quei tanti filosofi antichi, di cui tutti parlano, di cui generalmente non si conosce [p. 230 modifica]che il nome, e che appunto per questo si ricordano con maggior reverenza, anzi con venerazione. Che cosa ho trovato, invece? Un gentiluomo, un perfettissimo gentiluomo, più vero di tutte quelle immagini della mia infanzia, più grande e più giovane della sua fama. E vuoi che io mi spaventi di ciò che quest’uomo ha da dirmi? Non mi dirà, ne son certa, che delle cose gentili, delle cose piacevoli, come me ne ha dette tante iersera.

— Ah, bambina! — esclamò il senatore Manfredi, non potendo, con tutta la sua tristezza, trattenersi dal ridere. — E se egli ti chiedesse....

— Oh Dio! La mia mano? Col tuo permesso, gliele darei tutt’e due. È questo che ti turba?

— Sì questo.

— Ma che c’è? — ripigliò Gabriella, accostandosi. — È egli forse diventato meno nobile, meno buono, meno degno di te?

— No, Gabriella, no; ma vedi? l’uomo per cui egli verrebbe a chiedere la tua mano.... io non so se sarebbe intieramente degno di te. [p. 231 modifica]

— Tu mi spaventi, babbo. Non si tratta dunque di lui?

— O come?... — gridò a sua volta il Manfredi, guardando con aria di stupore la sua bella figliuola, quel fiore a mala pena sbocciato. — E pensavi davvero che potesse trattarsi di lui?

— Eh, senti.... Ora mi fai arrossire della mia.... leggerezza. Ho fatto male a pensare una cosa simile?

— No, no, no; — rispose il senatore, con una progressione ascendente di tono. — Gabriella mia, tu sei più bambina che io non ti credessi, o più vecchia. Si tratta, come ora spero che avrai capito, del nipote di Cesare.

— Ah! — disse Gabriella. — Il signor Cesare deve parlarmi.... di suo nipote? —

E accompagnò le parole con un cenno del capo, tra cerimonioso e ironico, che era una delizia a vederlo.

— Volevi... dunque, volevi proprio che ti parlasse di sè? Un uomo maturo come lui?

— Non me lo sembra; — rispose Gabriella. — Del resto, hai detto poc’anzi che anch’io sono più vecchia che tu non credessi. [p. 232 modifica]

— O più bambina; — soggiunse il Manfredi. — La cosa restava un po’ dubbia.

— Ebbene, babbo, la si decida, come dicono a Firenze. Per me, scelgo di esser più vecchia. Osservo molto, sai; e osservando ho anche riconosciuto che i giovani... siete voi altri. So anche abbastanza di storia antica, e tra zio e nipote...

— Oh, sì, vediamo come c’entra la storia antica fra Cesare e suo nipote.

— C’entra per dirti che Ottaviano valeva meno di Cesare.

— Ma divenne Augusto; — osservò il Manfredi.

— Per decreto del Senato; — replicò prontamente quella birichina; — ma si troverà oggi il Senato per far la proposta? Io credo di no, tanto più che vedo il signor senatore un po’ inquieto.

— Di’ pure impacciato e scontento; — riprese il Manfredi. — Già, vedo che Ottaviano ti piace poco. Io, poi, che avevo dato licenza a Cesare di parlarti per lui, oggi, dopo una certa lettera che ho ricevuto.... [p. 233 modifica]

— Anonima? — interruppe Gabriella.

— Che ne sai tu? — disse Manfredi, rizzando la testa e ficcando gli occhi addosso alla figliuola.

— Indovino; — rispose Gabriella. — Siccome ne ho una anch’io!

— Anche a te hanno scritto?

— Non a me, veramente, che non l’avrei ricevuta senza il tuo consenso, ma a Carolina, che ne è rimasta tutta sconcertata. “Veda un po’, signorina (mi ha detto), che cosa mi scrivono; io non ne capisco nulla.„

— E dice, la lettera?

— Oh, delle cose stravagantissime. Questa, per esempio, che Carolina si guardi bene di dare ascolto al cavalier Valenti, il quale ha già un’altra passione. Ma io non te ne dico altro, perchè in verità mi vergogno di ripetere ciò che ha scritto l’anonimo, e particolarmente il nome di una persona rispettabile, che noi amiamo e stimiamo.

— Lo stesso nome scritto nella lettera che ho ricevuta io; — disse il Manfredi. — E siccome non si poteva credere che quella lettera [p. 234 modifica]io la facessi mai leggere a te, si è trovato il modo di darti la notizia per mezzo di Carolina. Che infamie!

— L’ho capito benissimo, sai, che il ricapito era a Carolina, ma che la lettera era scritta per me! Io, per altro, non le ho detto nulla di questo mio pensiero, ed ella è ancora tutta sconcertata da quelle raccomandazioni caritatevoli, e giura che il cavalier Valenti essa non lo conosce neanche di vista. Sfido io! Ella è sempre nelle camere di servizio, e l’unica volta che il cavaliere Valenti è venuto a portarci il suo biglietto di visita, lo ha ricevuto il servitore. —

— L’hai tu, questa lettera?

— Sì, eccola qua; l’ho tenuta io, per il nome che c’era scritto, e che non deve rimanere in mano di una cameriera. Volevo bruciarla, dopo averla mostrata a te.

— Benissimo fatto; — disse il Manfredi. — Io nondimeno la conserverò insieme con la mia, per confrontare i caratteri.

— E dimmi, babbo; nella tua... si parla anche di Carolina? [p. 235 modifica]

— Pazzerella! Si parla di un’altra personcina, che mi pare poco disposta ad ascoltare i consigli dell’anonimo e le domande del cavaliere Valenti. Non è così?

— Sai, babbo? Io sto così bene, con te! Ti dà noia il tenermi in casa?

— No, davvero; ma pur troppo ha da venire il giorno che io debba lasciarti andar fuori.

— Non parliamo di quel giorno; ci sarà tempo.

— Capisco; — disse ridendo il Manfredi. — Non trattandosi dello zio, rimani volentieri in casa del babbo.

— Come sei crudele! — esclamò la fanciulla. — Ho detto che se il signor Cesare mi avesse parlato, col tuo permesso, lo avrei ascoltato. Non debbo io obbedirti?

— Sicuro; ma egli, col mio permesso, ti parlerà per un altro. Che cosa gli risponderai?

— Gli risponderò che son troppo giovane, ma che tu, del resto, disponi della mia volontà. E siccome tu, della mia volontà, non ne disporrai per questa volta, io sarò tranquillissima. [p. 236 modifica]

— Santa ingenuità! Vedete come trova le risposte! — disse il Manfredi. — Ma senti, bambina mia; poichè io gli ho dato il permesso di parlare, sapendo benissimo di chi doveva parlare, sarà conveniente che tu, per questa volta, ti cavi d’impiccio da te. È un caso particolare, un caso strano, ed io debbo rimettere al tuo senno lo scioglimento di queste difficoltà.

— Bene; allora gli dirò schiettamente.... Senti, gli dirò così: Signor Cesare, io, per mia scelta.... Ma no, mi vergognerei di parlargli in tal modo.

— Ho capito; gli diresti volentieri: signor Cesare, se si tratta di lei, eccomi qua. Eh, brava, la mia Gabriella; questo sarebbe un bel coraggio.

Digli invece, con molta grazia, che non avevi ancora pensato alla possibilità di separarti da tuo padre, che dovresti aver tempo a meditare, e prendere altrettanto tempo a rispondere.

— E se egli insiste?

— Digli di sì. Ti senti di dirglielo?

— Per lui, volentieri; per un altro, no. [p. 237 modifica]

— E che cos’hai contro quell’altro? Ti spiace tanto?

— Mi è indifferente. Mi pareva meglio la prima volta che l’ho veduto; ma poi, a sentirlo parlare, col suo scetticismo, coi suoi calcoli eterni, con la sua serietà d’apparato, che vuoi? mi è scaduto. Quello lì è un giovane... vecchio.

— E tu preferiresti un vecchio... giovane.

— Il signor Gonzaga non è vecchio; — replicò Gabriella, girando la difficoltà.

— Torniamo sempre lì! — conchiuse il senatore Manfredi. — Insomma, bambina mia, farai quel che vorrai. Cesare Gonzaga è il mio migliore amico, anzi fratello. Spero che con la tua risposta non vorrai dargli dispiacere, e se proprio hai da dirgli di no, lo farai con buona grazia, senza ch’egli abbia a dolersi di me, nè di te.

— Il modo di fargli intendere che gli vogliamo bene lo avrei; — rispose Gabriella. — Ma tu non la intendi così. Gli parlerò dunque come il cuore m’ispirerà, pensando alla vostra antica e leale amicizia e alla stima [p. 238 modifica]grandissima che io nutro per lui. Speriamo intanto che egli stasera non mi parli ancora di nulla. —

Il senatore non partecipava alle speranze della figliuola, sapendo che Cesare Gonzaga era venuto a bella posta in Roma per ragionare di quel matrimonio, e immaginando che non avrebbe voluto rimaner troppo a lungo in sospeso. Ma anch’egli era molto perplesso, e lasciò volentieri che le cose andassero come dovevano andare, fidando nelle ispirazioni del cuore di Gabriella, cara e bizzarra fanciulla, che anteponeva i vecchi giovani ai giovani vecchi.

In quel mezzo, fu annunziato l’arrivo della contessa di Castelbianco. Giungeva forse un po’ troppo presto, l’amica; ma ella usava con Gabriella in quel medesimo modo che Gabriella usava con lei. Quella sera, per altro, la contessa non giungeva in compagnia del marito. Il conte Guidi era venuto con lei. Che novità era quella?

Per saperne qualche cosa, ci converrà di ritornare un passo indietro. Quel giorno il [p. 239 modifica]conte Guidi aveva ricevuto un biglietto della contessa. “Se andate stasera dai Manfredi, venite a farmi da cavaliere (scriveva la signora), perchè il conte non potrebbe accompagnarmi di prima sera, e sarei costretta ad andar sola. Vi aspetto dunque prima delle otto.„

Il conte Guidi non si era proposto di andare dai Manfredi, quella sera. Chiamato dalla contessa, si accinse da buon cavaliere ad obbedirla, non senza maravigliarsi di quello strano capriccio, che la consigliava a voler essere accompagnata dove tante altre volte era andata, con la sua carrozza e col suo servitore, da sola.

— Contessa, — le aveva detto il Guidi, presentandosi, — mi avete fatto l’onore di crearmi vostro cavaliere, ed eccomi qua.

— Ringraziatemi, almeno; — aveva risposto Giovanna. — L’ho fatto per utile vostro.

— Come?

— Sicuramente; non amate voi Gabriella? —

Il conte Guidi era un cavaliere tenebroso, già ve l’ho detto, e come tutti i cavalieri [p. 240 modifica]tenebrosi si teneva sempre in bilico fra parecchie dame, non dimostrando e sopratutto non confessando le sue preferenze per alcuna. Perciò a quella bottata della contessa di Castelbianco, rimase un pochino sconcertato.

— So tutto; — proseguì la signora; — dunque, venite. —

Il Guidi, vedendo che ella sapeva tutto, e immaginando ch’ella ne sapesse più di lui intorno al modo di pensare e di sentire della signorina Manfredi, non perdette il suo tempo a negare. Giunone lo aveva sempre trattato con quella amabile confidenza che è naturalmente portata dalla parità delle condizioni sociali, ma senza nessuna dimestichezza particolare, senza ombra di sentimento, che lasciasse intravvedere un’intenzione più tenera. Egli dunque ammise facilmente che davvero le stesse molto a cuore di farlo entrare in grazia alla giovane Diana; ma soggiunse che non aveva quasi ragione per andar quella sera da lei, perchè l’ultima sera che si erano veduti, cioè ventiquattr’ore prima, al ballo della contessa, Diana era stata un po’ fredda [p. 241 modifica]con lui, ed egli, dal canto suo, aveva commesso qualche errore di tattica.

— Ragione di più per presentarsi e ristabilire le sorti della guerra; — rispose la contessa. — Venite, Guidi; mi racconterete i vostri errori per via, e troveremo il modo di ripararli. —