XIV

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XIV.


Gabriella aveva fatto un saluto assai cerimonioso al conte Guidi, ma aveva abbracciata e baciata con grande effusione di cuore la sua cara Giovanna. Non credeva alle calunnie distillate da un vile anonimo contro la sua bella imperatrice, e le pareva, con una maggiore dimostrazione d’affetto, di dare a quelle calunnie una mentita più solenne e più forte.

Il conte Guidi rimase a discorrere col senatore Manfredi; ed egli e il suo interlocutore erano per verità un pochino impacciati, poichè non sapevano con quali discorsi trattenersi a vicenda. La contessa di Castelbianco e Gabriella si erano sedute sopra un sofà, l’una a fianco dell’altra, e là, sul fondo verde [p. 243 modifica]cupo della spalliera di stoffa operata, davano sembianza di due belle rose accompagnate, sorgenti insieme da un viluppo di quelle stupende foglione vellutate, in cui la natura, cesellatrice meravigliosa, sembra aver voluto rivaleggiare coi capricci dell’arte.

— Pompeo non poteva accompagnarmi così presto come io desideravo; — disse Giovanna all’amica; — ma per fortuna è venuto il conte Guidi. Quel povero giovanotto ha veramente una bell’anima, e avevi ragione tu, quando mi dicevi di volerlo studiare. Sai che cosa mi stava dicendo, in carrozza, di te? —

Gabriella non era molto curiosa di saperlo; ma, per compiacere all’amica, dovette aver l’aria di desiderare quella piccola confidenza.

— Sentiamo che cosa ti ha detto; — rispose.

— Signora (sono le sue parole, che ti riferisco testualmente), intercedete per me, presso la divina Gabriella. In un momento di follìa, non giustificata, è vero, da nessun precedente, ma certamente scusabile agli occhi di uno che potesse leggere nel mio cuore, ho detto alla signorina Manfredi una frase di cui sono [p. 244 modifica]pentito. Darei, ve lo assicuro, darei tutto il mio sangue per cancellarla, o almeno per ottenerne il perdono. A voi non si nega nulla; vorrete dir dunque una buona parola per me? Sono venuto a bella posta da voi. — Così mi ha parlato quel poveretto, e ti confesso che in quel momento faceva veramente pietà. Da brava, Gabriella mia, se è vero che tu a me non neghi nulla, perdonagli quella frase malaugurata, che io non conosco neppure, poichè a lui mancò il coraggio di ripeterla.

— Non la ricordo, questa frase terribile; — rispose Gabriella. — Dev’essere ben poca cosa, come vedi, e il signor conte sicuramente si è ingannato, immaginando che io avessi potuto dare importanza ad una frase sfuggita nel calore di una conversazione. Ne dicono tante, quei signori! —

Non era questo che la contessa voleva; tanto più che ella, contrariamente alla sua fresca asserzione, conosceva benissimo la frase che aveva fatto torto al conte Guidi nell’animo della signorina Manfredi. E la ricordava anche Gabriella; ma quella frase [p. 245 modifica]toccava l’argomento delle sue ammirazioni, ed essa non voleva profanare un sentimento così nobile e puro come il suo per Cesare Gonzaga, mettendolo in discussione, a proposito d’un sarcasmo del conte Guidi, di quel vago cavaliere, che oramai poteva essere tenebroso a sua posta, poichè ella non lo studiava già più.

La contessa Giovanna finse di contentarsi per allora, immaginando giustamente che la giovine amica si sarebbe ostinata nel facile perdono di una frase non voluta ricordare.

— Ah, bene! — diss’ella. — Temevo già che tu fossi in collera con lui, e che la collera potesse consigliarti una risoluzione a suo danno.

— Una risoluzione! — esclamò Gabriella. — Io? E quale?

— Eh, per esempio... di sposare il signor Valenti. —

Al colpo inatteso Gabriella si scosse, e guardò in viso l’amica, ricorrendo involontariamente col pensiero alla lettera anonima ricevuta dalla sua cameriera. Sotto quelle parole sentì palpitare il dramma, la candida ma [p. 246 modifica]non affatto inesperta fanciulla, e imparò presto a dissimulare.

— Ecco un’altra novità; — diss’ella, volgendo in un sorriso il suo atto di stupore. — E donde ti viene quest’altra?

— È la voce che corre; — rispose la contessa; — si dice anzi che lo zio è venuto a bella posta in Roma, per fare a tuo padre la domanda formale.

Che c’è di vero?

— Una cosa sola, a quanto pare: la venuta di uno zio.

— Ma egli farà la domanda. Me lo ha detto anche Pompeo.

— Di bene in meglio; — ripigliò Gabriella. — Ecco uno zio che fa una diplomazia molto strana. Tutti sanno già che cosa è venuto a fare, ed io non ne so nulla ancora.

— Lo saprà il senatore tuo padre.

— Il senatore mio padre, — replicò Gabriella, confettando di un altro sorriso la severità della risposta, — non fa mai nulla senza consultare sua figlia; tranne, s’intende, le leggi dello Stato e le operazioni del suo banco.

— Dunque, non c’è niente di vero? [p. 247 modifica]

— Nientissimo.

— E il cavaliere?

— Faccia i fatti suoi. È ricco e non ha bisogno di trovare una grossa dote. Io son ricca e non ho bisogno di appoggiarmi a lui, nè ad altri come lui. Tu vedi dunque che se ci son due al mondo che non sian fatti punto l’uno per l’altro, noi siamo quei due.

— Tanto meglio.... per il povero Guidi! — conchiuse la contessa. — E lui, come lo vedi? —

Era un assedio, un investimento in piena regola; ma Gabriella finse di non avvedersene.

— Che dirti, mia cara? — rispose, — non ho ancora finito di studiarlo. —

Intanto che le due amiche discorrevano, sedute sul sofà verde cupo, sul cui fondo spiccavano come le due belle rose che sapete, il salotto del senatore Manfredi incominciava a popolarsi. Tra i primi era venuto, e correva ad ossequiare la giovane Gabriella, il vecchio collega del Manfredi, il primo seccatore del regno, che fu per la fanciulla un soccorso del cielo; tanto è vero che tutte le creature [p. 248 modifica]hanno il loro ufficio provvidenziale nel mondo! Gabriella non reggeva più al peso di quella conversazione femminile, dopo che aveva ravvicinato nella sua mente il discorso incalzante della contessa di Castelbianco con le notizie che dava di lei quella brutta lettera anonima. La buona fanciulla avrebbe desiderato tanto esser sola nella sua camera, per meditare su tutta quella novità di casi che si erano affollati intorno a lei, offuscando la serenità della sua vita verginale. Ma per due o tre ore non c’era da sperar pace nè tregua, essendo giorno di ricevimento. I giovedì dei Manfredi non avevano musica nè ballo; perciò, abbondando gli amici gravi e i discorsi gravissimi, erano scarse le dame e più scarsi i cavalieri eleganti. I farfalloni che si arrischiavano là dentro, attratti da quel fior di bellezza che risplendeva nella casa senatoria, si sentivano a breve andare perduti in quell’aria afosa di legislatori, di accademici, di magistrati, di professori e via discorrendo. Il conte di Castelbianco, che ci andava qualche volta sul tardi, per riaccompagnare a [p. 249 modifica]casa sua moglie, si accostava a quei giovedì con un sentimento di sacro terrore. — Prima di entrare nel portone (soleva dir egli ridendo) respiro a furia, faccio provvista a larghi polmoni, temendo sempre che l’aria mi manchi, in quella campana pneumatica. — Povero salotto del senatore Manfredi! Esso non meritava mica quei crudeli giudizî. In primo luogo il padrone non costringeva nessuno ad andarci; e poi, come è vero che ogni uccello fa il suo verso, così ogni compagnia di persone ha diritto di divertirsi a suo modo, e il torto è di chi vuol portare le sue abitudini serie tra la gente allegra, o le sue abitudini allegre tra la gente seria.

La contessa Giovanna trovò un momento opportuno per dare una buona notizia e un’utile ammonizione al conte Guidi.

— Rassicuratevi; non c’è nulla di nulla. Fate la vostra corte liberamente; mostratevi il garbato cavaliere che siete sempre stato, e vincerete la partita. Ma badate, per altro; qui bisogna lodar molto l’antico, e in arte e letteratura, astenersi sopra tutto dal parlare [p. 250 modifica]di corse, di tiri al piccione, di cacce alla volpe, e d’altre mode d’oltr’Alpi. Gabriella è classica, e non ama gli usi nè le parole straniere. —

Il conte Guidi stava per mettersi all’opera, quando giunsero il signor Cesare Gonzaga e il cavaliere Arrigo Valenti. Lascio pensare a voi come fosse contento quest’ultimo, di trovarsi faccia a faccia con la signora di Castelbianco.

— Perdio! — mormorò egli all’orecchio dello zio. — La prima ispirazione era la buona. Non avrei dovuto venire.

— Che diavolo dici tu ora? — rispose il Gonzaga. — Guaio per guaio, meglio incontrarla qui, fra tanta gente, che altrove, a quattr’occhi. Sta saldo, ragazzo, e mostrati cortese, mi raccomando. —

Egli stesso sarebbe corso ad ossequiare la signora contessa. Ma prima, poichè gliene veniva il destro, volle chiedere certe notizie ad Andrea, che per il momento non aveva nessuno alle costole.

— Ebbene, hai parlato alla nostra cara Gabriella? [p. 251 modifica]

— Sì, oggi stesso. Ma che debbo io dirti? Per ora non sa risolversi.

— Ahi! — esclamò il Gonzaga. — In questi casi una proroga vale quanto un rifiuto. —

A questa interpretazione il Manfredi non seppe rispondere nè per sì, nè per no.

— Cesare mio, — diss’egli invece, stringendo affettuosamente il braccio dell’amico, — se tu sapessi come io ne sono afflitto! Vorrei vederti contento, ed anche contro un certo dovere che la prudenza di padre mi potrebbe comandare. Perchè, infine, tuo nipote, mentre desidera tanto questo matrimonio, ha qualche legame... che dovrebbe trattenerlo.

— Saranno chiacchiere di scioperati. Chi te le ha riferite?

— Senti, a te non posso e non voglio nasconder nulla. Una lettera anonima.

— È il giorno! — brontolò Cesare Gonzaga. — Ah, senza dubbio, bisogna dare una lezione a quel conte che vedo laggiù, a fare il cascamorto presso tua figlia.

— Che cosa dici? Il conte Guidi?... È venuto [p. 252 modifica]poc’anzi con la contessa di Castelbianco, ma non è neanche tra gli assidui frequentatori di casa mia.

— Ah! E lo ha condotto la signora? — ripigliò il Gonzaga, ridendo amaramente e tentennando la testa.

— Ma che ci vedi tu di mal fatto? Che sospetti hai?

— Te lo dirò un’altra volta, quando mi sarò formato una vera certezza, intorno a certe cose. E dimmi, intanto; la lettera accennava anche il nome di una signora?

— Sì.

— Di una signora... che è qui? — proseguì sotto voce il Gonzaga.

Il senatore Manfredi chinò la testa, senza rispondere.

— Ah, infami! — disse il Gonzaga. — Senti, Andrea; qui, intorno a noi, è stata ordita una negra congiura, e noi dobbiamo romperla. Tu sei un uomo savio e prudente; non credi a nulla di ciò che ti hanno scritto. Ma tua figlia ne sa qualche cosa?

— Sì, ma ci crede anche meno di me, che, [p. 253 modifica]per dirti il vero, son rimasto un pochino sconcertato, e più per la persona indicata, che non per la cosa in sè stessa.

— Ah, meno male; — disse Cesare; — Gabriella non crede. Ma la ragione per cui non sa risolversi?...

— In verità, non saprei dirtela. È tutta in un suo particolar modo di pensare. Del resto, io ti ho dato licenza d’interrogarla; parlane a lei.

— Domani, se qualche altro guaio non viene a guastarmi la giornata, vengo sicuramente da te. Non voglio a nessun costo aver perduta ogni speranza.

— E non lo vorrei neppur io. Non già per tuo nipote, che a parer mio ha bisogno di correggersi in molte cose, ma per te che amo tanto. Se questo matrimonio non si fa, lo prevedo benissimo, tu fuggi da Roma ed io ti perdo per sempre. Capirai che questo non mi convenga punto, dopo trent’anni di lontananza.

— Tu sei buono, Andrea! — disse il Gonzaga commosso. — Ed io certamente non farò [p. 254 modifica]colpa a te di un rifiuto, che distruggerebbe tutte le mie più care speranze. Ma è certo del pari che non rimarrei a Roma un giorno di più. —

La contessa Giovanna si avvicinava, e i due amici troncarono subitamente il discorso, disponendosi con viso lieto a riceverla.

— Di che stanno parlando con tanto calore? — domandò la contessa. — Di politica, m’immagino. È la nostra capitale nemica, la politica.

— No, contessa; — rispose il Manfredi. — Proprio in questo momento parlavamo di gioventù. E questa è nemica nostra, perchè da troppo tempo ci ha abbandonato. Cioè, dico male, ha abbandonato me, non il mio amico Gonzaga, che è sempre un fior di giovanotto.

— Lo pensavo per l’appunto, guardandolo; — ripigliò la contessa. — Ma non glielo dirò, perchè sono in collera con lui.

— Signora, e perchè? — disse il Gonzaga.

— Perchè mi ha veduta, e non è ancor venuto a stringermi la mano.

— Signora, mi perdoni; c’erano tanti [p. 255 modifica]all’adorazione, e giovani e vecchi, che io non ho osato competere coi primi, nè accrescere il numero dei secondi. Ma eccomi qua, desideroso di ottener la sua grazia.

— Ve lo lascio, contessa; — disse il Manfredi. — Sentirete da lui tante cose galanti, che non potrete tenergli il broncio, e dovrete ripetergli che è il più giovane dei giovani. —

La contessa sorrise, prendendo il braccio di Cesare Gonzaga. Ma appena il senatore si fu allontanato, si volse al suo cavaliere per dirgli:

— Ebbene? Come vanno gli affari del suo protetto?

— Per ora, ch’io sappia, — rispose il Gonzaga, — vanno come quelli del conte Guidi. È lei, contessa, che lo ha condotto qua?

— Sicuramente. E le dispiace?

— Un pochino; tanto più che non dovevo aspettarmi questo da lei.

— È buona guerra, Gonzaga. Ella è soldato, e non doveva aspettarsi altro.

— Perchè? La guerra suppone la tregua, ed anche i trattati di pace. Dopo ciò che è [p. 256 modifica]avvenuto stamane, credevo sinceramente alla pace. Non dovrei vantarmi, contessa, ma ella mi costringe a rammentarle che l’ho salvata, stamane.

— Doveva lasciarmi perdere; sarebbe stato meglio; — ribattè la contessa, con accento sdegnoso. — Sappia, Gonzaga, che queste nozze io non le voglio... non le voglio, ha capito? Si volga altrove, quell’uomo, non alla signorina Manfredi.

— Calma, signora! Sarà quello che il destino vorrà, — disse pacato il Gonzaga.

La contessa Giovanna gli volse uno sguardo bieco, che pareva dirgli com’ella avrebbe anche saputo lottare col destino. Quindi, traendo il suo cavaliere verso il crocchio di Gabriella, ricompose la faccia ad una espressione di bontà e di allegrezza, che non pareva più lei.

— Carina! — diss’ella, avvicinandosi alla signorina Manfredi e lasciando il braccio di Cesare Gonzaga. — Mi vuoi con te? Si terrà corte, mentre laggiù i personaggi gravi ragionano di politica. Guidi, esponete un bel fatto, perchè noi possiamo dar la sentenza. [p. 257 modifica]

— Volentieri, per dar l’esempio dell’obbedienza; ma non un bel fatto; — rispose il conte Guidi, inchinandosi. — Un cavaliere teme di aver perduto la stima di quella dama a cui ha dedicato il culto più puro e il più rispettoso. Che dovrà fare, per accertarsene? Che dovrà fare, per ritornare in grazia?

— Ah, siamo in Corte d’amore? — entrò a dire il primo seccatore del regno, che si trovava accanto al sofà verde cupo. — Usanza provenzale!...

— I Romani non la conoscevano; — brontolò Cesare Gonzaga, allontanandosi, per andare in una sala vicina, a cercarvi il suo caro nipote.