Arrigo il Savio/XII
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XII.
— Una grande ispirazione è stata la mia — esclamò il Gonzaga, appena fu solo. — Come è vero che, quando si ha una cosa da fare, bisogna farla subito! Si era teso un bell’agguato! Ah, bisogna accoppare questo conte Guidi. Arrigo non capisce nulla; ma vivaddio, questa volta si rimedia a tutto. Ora andiamo a vedere madama Duplessis. Happy! —
Il servitore, chiamato, apparve sulla soglia.
— Illustrissimo, comandi.
— Siamo soli in casa?
— Solissimi; anche il cuoco è uscito per le sue faccende.
— Bada, per cinque minuti non deve entrare nessuno. Se suonano, vieni prima ad avvertirmi, bussando a quell’uscio; hai capito?
— Non dubiti. —
Appena fu escito il servitore, Cesare Gonzaga andò ad aprir l’uscio di comunicazione. Immaginate la sua maraviglia, quando trovò là dietro, appoggiata allo stipite, pallida, contraffatta nel viso, la contessa Giovanna.
— Lei qui!... — esclamò egli. — Ancora!...
— Sì; — esclamò la contessa, restando immobile al suo posto, con gli occhi spalancati e fissi, ma senza guardare il Gonzaga.
— Signora, si sente male? Mio Dio! — gridò egli. — Che cosa posso fare per lei?
— No, non badi a me! — ripigliò la contessa. — La rabbia mi soffoca. Da un’ora son qua, e senza potermi sfogare in un grido.
— Ma perchè rimanere? Io la credevo già fuori da un pezzo.
— Volevo, ma mentre stavo parlando con la signora Duplessis, per colorire la mia presenza in questo luogo, mettendo il mio racconto d’accordo con quello che aveva fatto lei.... Quante parole sprecate! — gridò ella, interrompendo la frase e dando in un riso amaro che sapeva di lagrime. — Mentre ero là, hanno suonato all’uscio. Era il conte. Ho fatto in tempo a rifugiarmi qua, pronta a venire da lei, chiunque ci fosse in sua compagnia, nel caso che egli, insospettito, avesse voluto a forza visitar tutto il quartiere.
— Ma con qual pretesto è egli entrato dalla signora Duplessis?
— Cercando il signor Valenti. Fingeva di avere sbagliato, di non aver visto il cartellino. Maravigliato, anche interdetto per le risposte della signora, se ne andò, facendo le sue scuse.
— E qualche minuto dopo, perchè non uscire anche lei?
— Temevo fosse appostato nella strada. Aspettavo lei, che mi aveva detto di venire. Non vedendolo, ritornai fin qua. Egli, appunto allora, giungeva in questa camera. Ho creduto necessario di fermarmi, per udire ciò ch’egli diceva.... Mio Dio! Ed ho udito tutto, ho udito troppo. È orribile, sa, è orribile, quello che ho dovuto sentire dalle sue labbra!
— La necessità mi ha costretto, signora; — rispose il Gonzaga. — Qualche cosa bisognava pur dire, per convincere quell’uomo infuriato.
— Sì, mi lasci credere ora che non ha detto il vero! — replicò la contessa. — Ella non è uomo da mentire, signor Gonzaga!
— Ho pure mentito per tutto il tempo che ho dovuto ragionare con lui! — notò egli, sospirando.
— Ma per gli altri, per una donna, e non per sè; — rispose la contessa.
— Non avrebbe certamente gittato là il nome di una fanciulla, se non fosse stato per dire la verità. —
Cesare Gonzaga chinò la fronte e non rispose parola.
— Il suo Arrigo è un infame; — proseguì la contessa. — E non aspettò nemmeno che io, povera donna, lo pregassi di lasciarmi coi miei rimorsi. E mentre io mi perdevo per lui, egli.... Perchè infine, una donna avrà torto, meriterà il biasimo degli uomini come lei, ma ella è sempre una povera disgraziata, che la passione accieca; mentre l’uomo che accanto a quella donna medita un tradimento, e ordisce freddamente un intrigo per liberarsi da lei, per volgersi ad un’altra, quell’uomo è un vile.
— Contessa, la supplico; — disse il Gonzaga, costringendola con atti amorevoli a sedersi, poichè la vedeva così fieramente turbata e convulsa; — pensi che troppo male è accaduto; pensi che io ho fatto quanto era umanamente possibile per iscongiurare un grande pericolo; pensi che, se io non ero, se perdevo anch’io la testa come tutti gli altri, ella sarebbe stata scoperta, e una famiglia rispettata e rispettabile sarebbe divenuta la favola di tutta Roma; pensi infine.... Lo so, è difficile; — soggiunse egli, notando gli atti di diniego della donna esacerbata; — ma bisogna vincersi, perdio, bisogna sforzar la mente a pensare, a considerar le cose, e tanto più attentamente, quanto più sono gravi. Ciò che oggi le sembra un gran male, un male irrimediabile, un mal da morire, è forse un bene, la liberazione, la salvezza.
— Oh, non dubiti, non ne morrò; — non voglio morirne! — rispose la contessa. — Ben altro mi resta da fare. Ma ella sappia, signor Gonzaga.... Questo matrimonio è impossibile; è una follìa, a cui bisogna rinunziare. Ella è amico del senatore Manfredi, ed ha certamente molto potere sull’animo suo. Ma se ella abusasse di un tanto potere per strappargli un consenso a queste nozze, avrebbe cagionata la rovina di una povera fanciulla.
— Come sarebbe a dire? — gridò il Gonzaga, turbato.
— Gabriella non ama, e non amerà mai quell’uomo, che a lei piacerebbe di darle in marito. —
Cesare Gonzaga rimase muto un istante, guardando la contessa, come se volesse cercarle negli occhi il segreto di quelle audaci parole. Ma quegli occhi fissi ne’ suoi, come in atto di sfida, non gli dissero nulla, e Cesare Gonzaga, dopo quell’istante di pausa, così parlò gravemente:
— Senta, signora; a me non piace nulla, e da gran tempo, oramai. Pregato da un mio congiunto, posso chiedere un assenso, e per cosa non disonorevole, nè indegna di chi deve rispondermi; ma non soglio far violenza all’animo di nessuno, nè con l’arte degl’inganni, nè con le ragioni dell’amicizia. A chi non conosco, a chi non amo, quando l’occasione si presenta, faccio anche servizio, nella misura delle mie forze; a chi amo non impongo sacrifizi e non preparo pentimenti.
— Perdoni! — balbettò la contessa. — Non volevo dir questo.
— E allora, — ripigliò il Gonzaga, — che cosa ha voluto dire?
— Quello che saprà ella stessa, se interroga il cuore della signorina Manfredi, prima di parlare a suo padre. Gabriella non ama il cavaliere Valenti.
— E chi ama?
— Io... non lo so. E se lo sapessi, non lo direi.
— Contessa, la prego....
— È inutile; — diss’ella, alzandosi con un gesto d’impazienza. — E sono già troppo rimasta nella casa di quell’uomo. —
Cesare Gonzaga non la trattenne; ma la seguì, da buon cavaliere, sino all’uscio del quartierino di via Sallustiana, passando davanti alla buona signora Duplessis, che finse non badare a quella scena di corruccio femminile. Etait-elle coutumière du fait, la bella mercantessa di mode?
Certo, ella era molto caritatevole, e ne avea dato una prova luminosa. Cesare Gonzaga, poichè la contessa fu escita, e senz’altra cortesia che un freddo saluto di cerimonia, si fermò a ringraziare la gentil parigina con tutta la effusione dell’anima. Poi, chiesta licenza, si affacciò alla finestra per dare un’occhiata in istrada e assicurarsi che la contessa Giovanna avesse passato il marciapiede senza incontri spiacevoli. Così avvenne difatti, perchè il destino avverso si era stancato di perseguitare la bella passeggiatrice, e Cesare Gonzaga la vide girar tranquillamente il capo delle Tempeste, e andar diritta e sicura per via Nazionale.
Andava sicura e diritta, la graziosa signora, anche serena nell’aspetto, dopo aver data la sua notizia di colore oscuro, dopo averla gittata là, come la classica freccia del Parto fuggente. Quella notizia, quella frecciata, tornava molesta in singolar modo al Gonzaga. Era dunque vero che Gabriella amasse già qualcheduno? E chi era costui? La contessa, insistendo sulla necessità di parlare con la fanciulla prima di rivolgersi al padre, confidava forse che il signor Cesare non avrebbe ardito di commettere questa violazione delle buone costumanze sociali; ma ella in ciò s’ingannava, poichè Cesare si era già rivolto al padre ed aveva anche ottenuto licenza di esplorar l’animo della figliuola, nè certamente si sarebbe astenuto dal farlo. Ma se davvero Gabriella gli rispondeva in quel modo, che con tanta sicurezza pareva pronosticargli la contessa di Castelbianco, povere combinazioni architettate da Arrigo Valenti, e poveri sogni vagheggiati dallo zio! Perchè, infatti, anche lui ci aveva posto l’animo, e in due giorni di riflessione si era innamorato della sua parte. Se da principio la crudeltà di Arrigo verso la contessa Giovanna aveva ferita la sua fibra di antico cavaliere, ciò ch’era avvenuto in quei due giorni pareva fatto a bella posta per levargli quella fisima dal capo e condurlo a desiderare più che mai il matrimonio del nipote con la signorina Manfredi.
Si scosse, ritornando nelle sue camere, non volendo pensarci più a lungo, e rimettendo a quella sera la spiegazione dell’enimma che gli aveva proposto la Sfinge. Del resto, Arrigo ritornava in quel punto, e per allora ci doveva esser altro da fare.
— Ne capisci niente, zio? — incominciò Arrigo, appena giunto alla presenza del Gonzaga.
— Di che?
— Di ciò che è avvenuto or ora al caffè di Venezia. Leggi qua. —
E gli diede così dicendo una carta. Era il processo verbale compilato e sottoscritto da quattro padrini. I considerandi ritenuti necessari dal Gonzaga c’erano tutti, nell’ordine logico e naturale voluto da lui.
— Che è stato? — disse il Gonzaga, dopo aver letto e riletto il verbale, e levando gli occhi a guardare il nipote.
— Che i nostri avversari hanno riconosciuto tutto ciò che a noi è piaciuto di far riconoscere. Dico noi, ma è più giusto di dire Orazio Ceprani. Il processo verbale è scritto di suo pugno, come ti dimostrerà la sua firma. È stato lui l’esecutore di questa mossa strategica, che tu avevi consigliata.
— Ma, dico io, come ne è venuto a capo? — ripigliò il Gonzaga. — A me, te lo confesso, a me sembra di sognare, con questa carta tra le mani.
— A me sembrò di sognare quando la sentii leggere, e sopra tutto quando la vidi sottoscrivere dal duchino di Roccastillosa. Ma procediamo con ordine; — soggiunse Arrigo. — Ti dirò che mi ero fermato per comprar sigari, mentre Orazio era andato avanti, per trovare i nostri avversari e colleghi al caffè. Quando giunsi, il discorso era già avviato e i nostri personaggi persuasi. E tu eri sicuro di batterti? pends-toi, brave Gonzague; per questa volta l’hai fatta bassa; il conte Guidi ti sfugge.
— E sfugga finchè vuole, e passi anche l’Atlantico; — disse il Gonzaga. — Ma qui sotto c’è qualche cosa.
— Che! Ne ho domandato ad Orazio, quando rimanemmo soli, col nostro foglio di carta in mano, ed egli mi ha risposto: “Che cosa ci trovi di strano? Non si doveva fare un cencio di processo verbale? L’ho ricordato e mi han detto di sì; ho accennato ai considerandi, nella forma che aveva detto tuo zio, e mi han detto di sì; tu sei capitato, io ho incominciato a scrivere, e il resto ti è noto. A me pare la cosa più naturale del mondo, che si ammetta di veder scritto quel che si è detto, e che a quel che si è detto si apponga la firma.„
— Ti dico che c’è qualche cosa, qui sotto; — replicò il Gonzaga.
— Eh, infine, non ci vorrà molta fatica a capirlo; — disse Arrigo. — Per esempio il timore di aver da incrociare il ferro con te.
— Lo aveva pure voluto! — osservò l’altro, facendo una spallucciata.
— Non credo. Aveva un pochino di stizza in corpo; ha cominciato a parlare; tu l’hai stretto al muro, ed egli si è trovato dentro senza avvedersene. Ma poi, ripensandoci a mente fredda, ha fatto i suoi calcoli per dare ed avere; ha notato che tu eri preponderante, con quella tua statura, con quelle spalle da Ercole, e che gli avresti spezzato con un colpo il suo giuochetto da tiratore mingherlino. Poteva benissimo accettare il duello alla pistola; ma anche qui, povero Guidi, ti vedo e non ti vedo! Egli ha ricordato sicuramente che non dovevi aver fatto invano per trent’anni il soldato. Sai, sono cose che si mettono in conto, queste, e prima d’imbarcarsi ci si pensa due volte.
— Ah, gliele avrei fatte veder volentieri! — esclamò Cesare Gonzaga. — Ma io penso un’altra cosa, più modesta e fors’anche più vera; penso che il tuo conte Guidi abbia temuto di guastarsi coi Manfredi, e si sia tirato indietro con me, per mettersi in buona vista con Gabriella. La farà valere, questa sua debolezza; te lo dico io, la farà valere. —
Arrigo si strinse nelle spalle, e rispose:
— Con te per protettore, non ho paura di nulla.
— Eh, tu fai presto a dirlo!
— E come no? tu salvi tutto; è il tuo ufficio.
— A proposito, se ne sono aggiustate parecchie, ma non ancor tutte, quest’oggi; — ripigliò il Gonzaga. — Fammi il piacere di correre dal tuo padrone di casa e di raccomandargli che non ti tradisca. Sai quel che ho fatto, stamane? La metà del tuo quartiere, quello di via Sallustiana, è occupata.
— Da chi?
— Da madama Duplessis, la mercantessa di mode.
— Che follia è questa?
— Follia! Ah, tu la chiami follia? Sappi che stamane il conte di Castelbianco ha ricevuto una lettera anonima. Gli dicevano: “Voi avete creduto, davanti a un uscio di via Sallustiana, di riconoscere vostra moglie. Pensate che il cavalier Valenti abita ad un secondo piano in via Nazionale. Non potrebbe quel secondo piano continuare in via Sallustiana? Informatevi, e date intanto a vostra moglie questo semplice annunzio: Arrigo oggi ha un duello.„
— Che infamia! — esclamò Arrigo. — E chi mai ha potuto?...
— Non cerchiamo chi ha potuto, e consideriamo il fatto in sè; — rispose lo zio. — Era anche l’opinione del conte Pompeo, diventato di punto in bianco un filosofo. Quella povera donna, caduta nel tranello, è venuta qua, ma prima che il conte non si aspettasse. Le ho aperto io; ho capito, non so più come, e lì, senza metter più tempo in mezzo, ho fatto un colpo da maestro. Dopo dieci minuti di colloquio con me, la brava madama Duplessis è discesa al secondo piano, con una parte delle sue carabattole, mentre Happy inchiodava sull’uscio il biglietto di visita. Quell’altro è capitato, ha bussato, e s’è trovato a faccia a faccia con una parigina, mercantessa di mode. —
Arrigo era rimasto muto, ascoltando il discorso dello zio.
— Ora ci sarebbe da raccontarti dell’altro, per dimostrarti che le hai fatte grosse e che c’è voluto molto sangue freddo e molta chiacchiera da parte mia, per rimediarci. Ma tu devi fare dell’altro, e senza un minuto di ritardo; — disse il Gonzaga. — Il conte, che tu hai veduto qui, reduce dalla sua impresa fallita, e che io ho finito di persuadere, non andrà, spero, a prendere altri ragguagli dal padrone di casa. Ma potrebbe anche andarci, e tu devi parare il colpo alla svelta.
— È inutile; — rispose Arrigo Valenti. — Non sono poi così sciocco come tu pensi, mio caro zio, e avevo preveduto questo caso.
— Ah, sì? E che cosa avevi fatto? Sentiamo.
— I due stabili, — ripigliò Arrigo, — appartengono allo stesso proprietario, ma non hanno comunicazione di quartieri che al secondo piano.
— Appunto per questo tu devi pregarlo....
— Aspetta, ci ho dell’altro da dire. La comunicazione è stata aperta da me.
— Ma se tu hai in affitto i due quartieri! — disse lo zio.
— Sì, ma quello di là non l’ho preso col mio nome.
— Davvero? Te ne lodo. Una almeno l’hai fatta giusta.
— Sicuro. Vedi? Gli ho fatto dare il primo nome che mi è venuto alla mente: quello di Orazio Ceprani.
— Ah, matto! — gridò Cesare Gonzaga. — E avrai dovuto confidare il segreto al Ceprani.
— No, non gli ho detto nulla.
— E come hai potuto fargli prendere in affitto un quartierino, senza che egli lo sapesse?
— Sai? Pagando un anno anticipato, non c’è pericolo che l’esattore vada a cercarlo per un pezzo.
— E sia; ma l’esattore, o il padrone, potrà parlarne a caso, e ad ogni modo lasciar correre il nome di Orazio Ceprani, mentre noi abbiamo là una madama Duplessis.
— Senti; si potrebbe in questo caso parlare ad Orazio, che andasse lui....
— Sì, bravo! Questa è una trovata!
— Ma infine, — disse Arrigo, che notò l’ironia nell’accento dello zio, — Orazio è un amico, che mi ha qualche obbligo, ed io non vedo il pericolo....
— Ah, poveri quattrini di tuo padre! — gridò il Gonzaga, mozzandogli le parole in bocca. — Della giuris...prudenza non hai ritenuto che il giuris, dimenticandoti volentieri del resto. Bene... anzi male, e basta così. Andrà come potrà. Se si esce sani da questo ginepraio, credi a me, bisognerà portare un voto a san Crispino, quello che non le faceva, povero a lui, ed era sempre costretto a rattopparle. —