XI

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XI.


Il conte Pompeo si lasciò cadere, più che non sedesse, sulla scranna che gli aveva offerta il Gonzaga. Era mezzo disfatto, quel povero conte.

— Sono lieto di trovarmi solo con lei; — mormorò egli poscia. — Ella è un uomo con cui si può parlare a fede, e sfogarsi anche un pochino. —

Reclinò, così dicendo, il mento sullo spillone della cravatta, come se avesse fatto uno sforzo sovrumano.

— Che ha? si sente male? — domandò il Gonzaga. — Infatti, ha la cera alterata.

— Sfido io! M’hanno avvelenata l’esistenza.

— Oh diamine! E chi mai?

— Veda qua, si dia la pena di legge. — [p. 194 modifica]

E trasse dalla tasca interna del soprabito una lettera, che porse al Gonzaga. Era la lettera anonima, di cui aveva parlato dianzi la contessa Giovanna. Aprendola, il Gonzaga vide che era scritta con un bel caratterino di donna, segno evidente che l’aveva scritta, o fatta scrivere, un uomo. La lesse, o, per dire più veramente, la scorse; indi, con un gesto di ripugnanza, la rese al conte Pompeo.

— Ci possono essere al mondo dei vigliacchi come costui? — esclamò.

— Lasciamo stare i vigliacchi; — rispose il conte. — La natura ha fabbricato animali per tutti i gusti e per tutti gli uffizi; gli uni per essere utili, e son pochi! gli altri infine per nuocere. Ma è il fatto, il fatto in sè, quello che dobbiamo considerare. —

Il Gonzaga non sapeva che pesci pigliare. La lettera, fra le altre cose, accennava al conte di Castelbianco la possibilità che il quartiere del Valenti avesse un’escita sulle scale del portone di via Sallustiana. Ora, che cosa voleva il conte? A che mirava, facendogli leggere quella lettera? [p. 195 modifica]

— Conte, — diss’egli, vedendo la necessità di ridere, anche a rischio di farlo stizzire, — lei, così allegro gentiluomo per solito, si butta oggi alla filosofia?

— Mi hanno mutato, Gonzaga, mi hanno mutato in un giorno. Infine, sì, sono sempre stato un buontempone, uno sbadato, e se si vuole, diciamo pure un uomo leggero. Ancora ieri seguivo il precetto del quinto Evangelio: “Non voler fatto a sè quel che si farebbe agli altri.„ È questa la massima che ha più credito nel mondo.

— Pur troppo! — esclamò il Gonzaga. — Ma ella, per uno, si corregge?

— Per forza. Mi mettono tra le vittime! Ma vivaddio, qui c’è un’infame calunnia.

— Ah, meno male! Lo vede anche lei, che questa letteraccia è un tessuto di bugie?

— Per metà ne ho avuto la prova.

— Come?

— Andando a vedere coi miei occhi. A farlo apposta, nella scala che mi è stata indicata abitano persone conosciute. Sono salito al secondo piano, quello che dovrebbe [p. 196 modifica]corrispondere al quartiere del signor Valenti, e ci ho trovato, occupata a sciorinare abbigliature parigine, una mercantessa di mode che ci ha anche il suo nome sull’uscio: Madame Duplessis. Di che comunicazione è venuto a gonfiarmi la testa l’anonimo corrispondente? —

Cesare Gonzaga pensò all’uscio lì presso, senza osare di levar gli occhi a guardarlo. E quasi (vedete un po’ le allucinazioni della paura!) quasi gli parve di sentir premere un battente sull’altro.

— Che cosa mi dice mai! — esclamò, come per soverchiare con la voce quel lievissimo suono. — È andato a visitare la scala che le indicava un anonimo?

— Sì, sono stato vile a questo segno. Veda dove può giungere un uomo, che ha perduta la testa! Ma almeno ne ho veduta l’acqua chiara, e questo è tanto di guadagnato.

— E allora, scusi, perchè s’inquieta? Non possiede oramai la certezza?

— Per metà; — disse il conte. — Rimangono altri punti oscuri. Ma, mi perdoni, [p. 197 modifica]Gonzaga! A lei, amico di ieri, io son venuto a dar noia, come se la conoscessi da anni.

— Non badi a queste inezie. Se sono un amico, poco importa la data.

— È giusto; ed io, vede, ho bisogno di parlare con qualcheduno che mi capisca, che possa mettermi un po’ di calma nello spirito. C’è stato un momento quest’oggi, che avrei dato del capo nei muri.

— Povero conte! La intendo; — disse il Gonzaga. — La gelosia è l’inferno dell’anima.

— L’ha provata anche lei?

— In altri tempi, sicuro; bisognerebbe non esser uomini, per non esser passati di lì. Ma sentiamo, mi dica... che cos’altro la turba?

— Una passeggiata mattutina della contessa. Perchè oramai non c’è dubbio, — disse il conte, — Giovanna è uscita di casa, quantunque m’abbia detto di no. E veda, a farlo apposta, la lettera mi dice che Giovanna veniva... dove? proprio dove anch’io avevo creduto di vederla.

— E questo, per l’appunto, — chiese il [p. 198 modifica]Gonzaga, — non dimostra la bugia del corrispondente?

— In che modo?

— Sicuramente. Non l’ho sentito dir io, in questa medesima casa, che le era parso, in via Sallustiana, di riconoscere sua moglie? E questo che ha detto qui, scherzando, a proposito di un bel piede, che Dio guardi e conservi, — soggiunse galantemente il Gonzaga, — non può averlo detto anche altrove?

— Non mi rammento.

— Ma c’è chi li rammenta, i discorsi fatti per chiasso, e si diverte a tesserci sopra le più infami supposizioni. —

Il conte di Castelbianco fu colpito da quella supposizione del Gonzaga.

— Mi dice bene; — esclamò. — Per altro, quella mattina, la contessa doveva essere escita di casa.

— Glielo aveva forse proibito lei?

— No; mi dispiace soltanto che m’abbia detto di essere rimasta in casa.

— E chi le assicura che non ci sia rimasta davvero? Del resto, senta, Castelbianco mio; [p. 199 modifica]una dama può escire per cose da nulla, come ce ne hanno tante le dame; non se ne ricorda, e dice di essere rimasta in casa; l’ha detto, e non le piace disdirsi. C’è da farle un processo, per questo? Abbia fede nelle donne, signor conte; è ancora il miglior modo per vivere in pace con loro e con sè. Quando non abbia questa fede, sospetterà di ogni cosa; e a questo giuoco anche una Genovieffa di Brabante ne andrebbe di mezzo.

— Verissimo! verissimo, quel ch’ella dice! — gridò il conte Pompeo, rianimandosi. — Ed è anche un consiglio da gentiluomo. Ritornerò a casa, e non domanderò a mia moglie se è uscita quest’oggi.

— Perchè quest’oggi? Ci sarebbe qualche altro sospetto?

— C’è di peggio, e quasi mi vergogno di confessarglielo. Consigliato dalla lettera anonima, avevo teso una trappola, dicendo, prima di escire: il cavalier Valenti, quest’oggi, ha un duello. A proposito, e questo duello? Suo nipote mi ha detto che non c’è nulla di vero. S’ha a credere? Anche questa sarà un’invenzione? [p. 200 modifica]

— Come tutte le altre. Il duello, l’ho io.

— Ah, diamine! E con chi?

— Perdoni; è un mio segreto... per ora. Le basti, che sono invenzioni, le notizie che hanno scritte a lei.

— Se la cosa è in questi termini, ecco un famoso inventore, che può dar dei punti all’Edison! — disse il conte Pompeo. — Ma che proprio non ci sia neanche l’ombra del vero? Dice un proverbio che non c’è fumo senza fuoco.

— Orsù, — disse il Gonzaga, a sua volta, — sentiamo che cos’altro le sussurra all’orecchio il suo demone interno.

— Ah, sì, dice bene, un demone interno!

— Ci sono ancora dei punti oscuri? Bisogna chiarirli.

— Ecco qua, Gonzaga mio. La contessa non poteva soffrire il Valenti. Sa che gliel’ho detto io medesimo? Ora ricordo di aver letto in un libro che queste antipatie dichiarate sono artifizi di donne, per nascondere la verità, che è tutt’altra. —

Qui Cesare Gonzaga fu ad un pelo di perdere la pazienza. [p. 201 modifica]

— Ah, senta! — gridò. — Ne troverà molte, sui libri. Solo a leggerne uno del Balzac, c’è da rinunziare per sempre alla vita matrimoniale. La contessa, che io ho imparato a stimar tanto, può benissimo non apprezzare il carattere di mio nipote, troppo compassato, troppo serio, troppo calcolatore; e in ciò potrebbe aver ragione, per bacco! C’è altro?

— Ella non ammette niente; — rispose il Castelbianco, mezzo raffidato e mezzo dubbioso; — ella ha una risposta di trionfo per tutto. Ci sarebbe ancora, a voler cercare il pel nell’uovo, ci sarebbe ancora da informarsi se il padrone di questo stabile è anche il padrone dell’altro di via Sallustiana, e se a qualche altro piano c’è comunicazione fra due.

— Non ci mancherebbe altro! — pensò il Gonzaga, fremendo.

In ogni altra circostanza, e trattandosi di dare l’ultima prova palmare ad un geloso feroce, si sarebbe potuto dire: “Venga qua, e visitiamo il quartiere, dalla prima all’ultima stanza. Veda, non c’è una porta falsa, [p. 202 modifica]e le pareti dànno tutte buon suono. Guardi anche i mobili; specialmente gli armadi; non c’è traccia di doppio fondo, per nascondere un uscio. Vuol venir sopra, o sotto? Chiederemo scusa ai casigliani, e leveremo a lei anche questo dubbio dal capo; vedrà, toccherà, tasterà da ogni parte, e poi andrà a farsi benedire.„ Ma per allora, e davanti a quell’uscio, non si poteva parlare, nè, sopra tutto, operare così. Cesare Gonzaga credette anzi necessario di sviare il sospetto, nella speranza di guadagnar tempo, e rimediare a quell’altro pericolo. Ora, il miglior modo di sviare il sospetto, era di fargli una confessione tale, che mostrasse Arrigo le mille miglia lontano da un ripesco amoroso.

— Creda a me, — incominciò, fingendo una calma che non aveva nel cuore, — non si fermi in queste idee, che, mandate ad effetto, potrebbero nuocere alla riputazione della donna rispettabile che porta il suo nome. Intanto, vuole una prova convincente, una prova solenne dell’errore in cui è caduto, per opera di un birbaccione, che sarà, se [p. 203 modifica]Dio vuole, anche un amico di casa? Ella è gentiluomo, Castelbianco. Ha avuto piena fiducia in me, ed io debbo averla in lei, confidandole un segreto, che ella custodirà gelosamente.

— Non dubiti! — disse il conte Pompeo. — Segreto per segreto.

— Orbene, vuol sapere perchè sono io a Roma? Perchè, stia bene a sentirmi, perchè Arrigo Valenti, mio nipote, ha il desiderio di sposare una bella e cara fanciulla: la signorina Manfredi. —

Per quella volta, davvero, Cesare Gonzaga sentì gemer l’uscio. E pensò dentro di sè, mentre batteva l’ultima sillaba del cognome:

— Ah diavolo, diavolo! Ora c’è madama Duplessis che sta a sentire i nostri discorsi. Benedette donne! —

E tossì, per coprire il rumore, tossì come un quaresimalista, quando ha finito l’esordio, con la proposizione del tema.

— Ah! — fece il conte Pompeo, che era tutto scosso dalla grande novità.

— Ed io non me ne sono accorto! Ed egli non me ne ha mai fatto parola! [p. 204 modifica]

— Non era lei, perdoni, non era lei che potesse servirgli, in questa circostanza; ero io, suo unico parente, io, vecchio amico del senatore Manfredi. Ed io, pregato, scongiurato, sollecitato da parecchie sue lettere, ho dovuto lasciare il mio dolce èremo delle Carpinete, per venire in Roma, a far la domanda formale.

— Che cosa mi dice! Io casco dalle nuvole. E il nostro Arrigo è innamorato di Gabriella?

— Ne è perdutamente innamorato. E non ha torto, perbacco.

— Lo credo: oh, se lo credo! — esclamò il Castelbianco. — Gabriella diventerà una stupenda signora. Peccato, non aver dieci anni di meno, per farle una corte spietata!

— Ah, ecco, — disse ridendo il Gonzaga. — Ritorna in scena il Don Giovanni, col suo quinto Evangelio?

— Scusi, Gonzaga, è la natura che ripiglia il sopravvento. Son fatto così, e porterò il mio difetto alla tomba. Ma sa che ella mi confonde, con le sue belle notizie? E da [p. 205 modifica]quando il nostro bel cavaliere ha incominciato a perdere la pace del cuore?

— Che ne so io? — disse il Gonzaga. — Per passare dall’ammirazione all’amore, e da questo a una risoluzione matrimoniale, ci sarà pur voluto il suo tempo. Se mi ha chiamato dieci giorni fa, mettiamo pure che da quaranta ha lo spirito afflitto. Quaranta giorni, come a dire una quaresima!

— Gli auguro buona Pasqua; — rispose il conte Pompeo. — Fortunato briccone! Ma badi, Gonzaga mio, badi bene! Ora capisco una cosa.

— Ahi! — pensò Cesare Gonzaga. — Questo qui mi capisce troppe cose, quest’oggi!

— Sì, veda, pensando alla lettera anonima...

— Che ella mi regalerà per la mia collezione.

— Oh volentieri! Eccola. Pensando dunque alla lettera anonima, mi viene in mente che sia da vederci la mano di un nemico di Arrigo.

— Eh, lo avevo pensato ancor io.

— Scusi; — ripigliò il conte; — ella ha [p. 206 modifica]l’aria di dirmi: bella scoperta! Ma ella non sa che razza di nemico.

— E lei lo ha scoperto?

— Mi pare di sì: nemico di Arrigo, perchè suo rivale, ed amante di Gabriella.

— Amante!

— Sì, diciamo innamorato, pretendente. Non è della mia opinione?

— Ma... che debbo dirle? Bisognerebbe conoscere le persone. E poi, come c’entrerebbe una calunnia contro la contessa?

— Ecco: per mandare a monte le nozze, senza aver l’aria di agire direttamente, e perciò senza scoprirsi; — rispose il conte Pompeo. — Uno scandalo fuori via, è di buona guerra. — Eh, io le capisco, queste cose. Il colpo, non lo nego, è un po’ forte; ma è di alta scuola, bisogna convenirne.

— E questo rivale, sarebbe?...

— Non ne conosco che uno, per ora: il conte Guidi.

— Ah! — gridò Cesare. — Il conte Guidi? Ci ho gusto. Gli darò un par di schiaffi alla prima occasione. [p. 207 modifica]

— Calma, Gonzaga! È finora una mia supposizione. Non vorrei che per un semplice sospetto....

— Allora, — disse il Gonzaga, — cercheremo ancora.

— Non cerchiamo più nulla; — rispose il conte. — Lasciamo spegnere questa miccia male accesa. Volevano far scoppiare una bomba, e non ci sono riesciti. Ne saranno mortificati, e noi rideremo. Ella mi ha proprio sollevato, caro amico, con la sua bella notizia. Questa, poi, taglia la testa al toro. Ed io dubitavo del cavaliere! Ah, ne arrossisco davvero.

— Bravo, conte! Ecco un bel movimento dell’anima!

— Che vuole? Siamo ancora giovani; — disse il Castelbianco, pavoneggiandosi. — A proposito di movimento, abbiamo fatto una lunga seduta, ed io me ne andrò. Lei avrà da fare. Il duello di cui mi parlava....

— Ah, non ci penso neanche. Son cose che risguardano i miei padrini. Quando è l’ora, si parte: alla guerra col piè destro, al “singolar certame„ col piè sinistro. [p. 208 modifica]

— Non conoscevo questa distinzione. È indiana, forse?

— Non so, ma potrebbe anche darsi; — disse il Gonzaga, ridendo. — È tutto indiano, in Europa: lingua, civiltà, superstizioni, sciocchezze.

— Ella è di buon umore; — ripigliò il conte Pompeo. — Ecco un augurio che val quello del piè sinistro. Aggiungo i miei, e caldissimi.

— Grazie, e a rivederci.

— Dove? Quando? Va dai Manfredi, stasera?

— Forse... anzi, senza il forse.

— Bene! Ci darò una capatina ancor io. Buon giorno, Gonzaga. —

E se ne andò finalmente, saltellando nel modo che sapete. Era leggero sempre, il conte Pompeo; ma dopo quella conversazione, che fu una particolare fatica di Cesare Gonzaga, era anche più leggero del solito.