Arrigo il Savio/X
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X.
Arrigo, lì per lì, non avrebbe saputo da qual parte incominciare; ma la domanda dello zio gli dettò la risposta.
— Non si parte; — diss’egli.
Cesare Gonzaga, che si era seduto allora allora, balzò dalla scranna, ficcando gli occhi addosso al nipote.
— Che? Come? Che hai detto?
— Che non si parte, per ora, e molto probabilmente non si partirà più. Per noi, vediamo la faccenda accomodata.
— Ac... co....
— ....modata, sicuro. È la mia opinione, ed anche quella di Orazio, come degli altri padrini.
— Sarei curioso di sapere in che modo.
— È troppo giusto; — rispose Arrigo. — E tu vedrai che le cose sono precedute nei termini della più stretta cavalleria. Ci siamo abboccati coi signori barone di Gleisenthal e duca di Roccastillosa; due bravi giovani, che a tutta prima stavano molto tirati, ma, quando noi abbiamo detto loro di esser pronti a scendere sul terreno, ci son divenuti di pasta frolla. Si era venuti alla scelta delle armi. “Chi è lo sfidatore?„ ci siamo domandati a vicenda.
— Io, perbacco! — interruppe il Gonzaga.
— E questa tesi sostenemmo noi. Ma essi dimostravano di essersi avanzati primi a cercare di noi. Ad ogni modo, perchè noi volevamo essere gli sfidatori, ma lasciavamo a loro la scelta delle armi, essi dovettero riconoscere la delicatezza nostra, di voler vincere un punto, ma senza trarne veruna conseguenza a noi vantaggiosa. Per altro, ci han detto, e non senza ragione: “Si può egli accettare un simile atto di cortesia? non sarebbe meglio che, lasciando da parte sfidati e sfidatori, mettessimo la quistione sul vero terreno suo, tra provocati e provocatori? Stabiliamo chi ha provocato; e se tutti e due i nostri primi hanno avuto in questo la parte loro, stabiliamo da qual lato fosse la provocazione più grave.„
— E allora? — chiese il Gonzaga.
— Allora venne il battibecco, e non fu possibile, con tutta la miglior volontà di questo mondo, non fu possibile intenderci sul maggiore o minor grado imputabile all’uno dei due.
— Ma io lasciavo al mio avversario la scelta delle armi.
— È vero, ma essi notarono e noi non potemmo negare, che questo era un regalo. Ora, i regali si possono accettare e non accettare. Ricusando il nostro, e con parole molto gentili, obbligavano noi a molta cortesia di contraccambio. A fartela breve, non si stabilì chi fosse il provocatore, e si passò all’esame coscienzioso delle parole che erano state dette da una parte e dall’altra. Orazio Ceprani le aveva udite; e anch’io, che ti ero vicino, ma che, come parente, non volli neanche aggiungere la mia testimonianza. Dal canto loro, le aveva udite il duchino, e lui e Orazio trovandosi d’accordo nelle frasi, furono anche d’accordo nel trovare che c’era ben poco; donde la conseguenza, onestamente ammessa da tutti, che il duello nasceva da un malinteso. Il conte Guidi, del resto, non aveva nessuna intenzione di offenderti, ed essi lo hanno lasciato capire.
— Avranno allora ritirato in nome suo le parole offensive, o, secondo la vostra comune ermeneutica, di dubbio significato.
— Non ci parve necessario di chiederlo, dopo che essi, investiti del mandato più largo, avevano creduto opportuno di riferirci il pensiero, la convinzione intima del conte Guidi. Riferire il suo discorso e ritirare le parole offensive, o dubbie, non era forse tutt’uno?
— Non lo era, e non lo è; — disse il Gonzaga.
— Onestamente sì; — rispose Arrigo.
— Cavallerescamente no; — ribattè il Gonzaga.
— Zio, e sei tu che fai distinzione tra onestà e cavalleria? —
Cesare Gonzaga fece una spallucciata, vedendo da che pulpito gli veniva la predica.
— Continua il tuo discorso; — soggiunse. — E voi altri?
— E noi dicemmo allora: siccome le parole del marchese Gonzaga si riferivano ad una offesa, che non c’era; siccome, quando egli si rivolse a parlare con le signore, fu il primo a dire ridendo che si era fatto tra lui e il conte Guidi un semplice scambio di notizie indiane: potremmo costituirci, salva la condizione ad referendum, in una specie d’arbitrato, e, trovandoci d’accordo nelle testimonianze come nei giudizi, ritener cancellata ogni offesa possibile e composta la quistione nel modo più onorevole.
— A questo siete venuti?
— Zio!... da uomini calmi ed onesti. Si ha la vita di due uomini in mano, e di questa autorità terribile bisogna farne buon uso.
— Buon uso! buon uso! — brontolò il Gonzaga. — E chi vi ha detto di farne un uso piuttosto che un altro? Vi avevo detto semplicemente e chiaramente di condurmi sul terreno. Per fortuna, — riprese egli, — c’è di mezzo la condizione ad referendum.
— Ahimè! — rispose Arrigo. — Non ti ci fidar troppo! È stata detta, ma poi non ci si è molto insistito. Anzi, vedi, abbiamo preso impegno di usare tutta la nostra autorità presso i nostri primi, per vincere ogni loro resistenza. Ricordo che il duchino di Roccastillosa ha soggiunto: per il nostro rispondiamo; se non accettasse, avrebbe da fare con noi.
— Cosicchè, se da parte mia non accettassi....
— Potresti... bastonar me; — rispose Arrigo, sciogliendo la reticenza dello zio.
Cesare Gonzaga rimase un istante pensoso; poi disse:
— Capisco; sono stato imprudente, scegliendo te per padrino. —
Allora, anche il Ceprani credette necessario di entrare in discorso.
— Signor Cesare, — incominciò egli, — potrei dirle che in luogo di suo nipote sono qua io a pagare; ma, schiettamente, amerei meglio essere bastonato, insieme con lui. Pensi almeno che noi siamo stati guidati da un altro sentimento delicatissimo, fin qui taciuto da Arrigo.
— E quale, signor Ceprani?
— Un sentimento di riguardo verso la casa amica, e rispettabile tanto, in cui era avvenuto quello scambio di parole vivaci.
— È vero, signor Ceprani; — disse allora il Gonzaga. — Ella mi accenna una cosa che ha pure il suo valore. Quantunque, con un po’ di buona volontà, si sarebbe potuta trovare la gretola.
— Domanderò anch’io, alla mia volta: e quale?
— Questa, per esempio, che lo scambio delle parole... vivaci era avvenuto dopo la festa, in un caffè, in un circolo, per istrada, dovunque, tranne in casa di persone amiche. Ma oramai è fatta; — soggiunse il Gonzaga, sospirando, — e del senno di poi ne son piene le fosse. Io ringrazierò lei, ad ogni modo, del delicato pensiero. E adesso, vediamo come se n’esce.
— Non ne siamo esciti? — chiese timidamente Orazio Ceprani. — Resta che nel verbale noi dichiariamo tutti e quattro sul nostro onore di non aver trovati gli estremi di un duello.
— Di una cattiva azione; — soggiunse Arrigo. — Sono le tue parole di ieri.
— Taci, tu! — gridò il Gonzaga, stizzito.
— Ma infine, zio, che ti fa, di avere un duello?
— Che mi fa? Che mi fa? Or ora me la fai dir grossa. Tu, caro mio, per certe cose, hai ricevuto l’ottavo dono dello Spirito Santo. Ma basta; c’è una condizione ad referendum e un verbale da estendere; ci avrete tutti gli appigli per rifarvi da capo. Sicuro; nel vostro caso, io direi press’a poco così: “Signori! voi, molto cortesemente, ci avete dichiarato di poter rispondere del vostro primo; ma noi, per ragioni che intenderete, non abbiamo potuto dirvi lo stesso. L’aver noi citato al signor Gonzaga la clausola ad referendum gli ha dato molto da pensare. Quale delle due parti incomincierà, per dire che il suo primo... si è contentato? E l’essersi egli contentato per primo, non lo metterà rispetto all’altro in una condizione di debolezza? Or dunque, non dichiariamo nulla, e consideriamo ancora un pochino il caso delicato. Possiamo noi consegnare nel verbale quelle ragioni intime che ci hanno persuasi a non vedere gli estremi di un duello? In altri termini, possiamo scrivere, sulla fede nostra, che non avendo avuto il conte Guidi intenzione di offendere, il signor Cesare Gonzaga non l’aveva neppur lui? Se lo possiamo, il secondo considerando s’innesta naturalmente col primo; resteranno le parole vivaci e noi le cancelleremo d’accordo, come conseguenza di un malinteso. Ma se a voi non paresse....„
— E non parrà; — interruppe Arrigo.
— Tanto meglio; — aggiunse il Gonzaga. — “Se a voi non paresse, facciamone una, che salverà le ragioni dell’uno e dell’altro; ritiriamoci tutti e quattro, lasciando che nuovi padrini sottentrino.„ —
Arrigo tentennava la testa; ma Orazio Ceprani s’intromise, e sciolse lui la quistione.
— Il signor Cesare ha ragione; — diss’egli. — Non dovevamo noi vederci ancora, per estendere il nostro verbale, ed anche per discutere, o per dichiararci a vicenda, se i nostri primi potevano stringersi la mano? L’appiglio c’è, anche senza obbligarci in anticipazione al discorso proposto dal signor Cesare Gonzaga. Lascia fare a me, Arrigo; troverò io il modo di escirne, contentando un po’ meglio tuo zio.
— Ah, bravo, Ceprani! Ella mi ha inteso; — gridò il Gonzaga. — Vadano dunque. O il verbale, coi due considerandi, nel loro ordine logico e naturale, o il duello. Ma ella vedrà che avremo il duello, e vivaddio, cattiva azione o no, mi piace più del verbale. —
Arrigo chinò la testa e non rispose parola. Quell’ottavo dono dello Spirito Santo, appioppatogli dallo zio, gli era rimasto sullo stomaco.
Mentre si disponevano ad uscire, fu annunziato il conte di Castelbianco.
— Che cosa vuole quest’altro? — scappò detto ad Arrigo.
— Eh, lo so io, quel che vuole; — fu per rispondere il Gonzaga.
Ma egli si tenne la sua risposta fra i denti e si contentò di guardare suo nipote, con aria di rimprovero, che, per muto che fosse, non era meno significante.
Il conte Pompeo entrò, e rimase un po’ sconcertato alla vista di quei personaggi riuniti, due dei quali tenevano il cappello in mano, ed erano in procinto di andarsene.
— Buon giorno, conte; — disse Arrigo.
— Buon giorno: — rispose freddo il Castelbianco, guardandolo un po’ di sbieco. — Non hai un duello?
— Io? — rispose Arrigo. — Neanche per sogno. —
Il conte Pompeo rimase sovra pensiero, e non disse più altro.
Orazio Ceprani era sulle spine; tanto gli premeva di correre al caffè di Venezia, per far servizio al signor Cesare Gonzaga!
— Se permettete, conte, ci ritiriamo; — diss’egli. — Abbiamo qualche cosa da fare. —
Il conte rispose con un cenno del capo, che poteva passare per un saluto; indi si volse al Gonzaga.
— Resterò un pochino, se non la incomodo, a discorrere con lei.
— S’immagini! — disse il Gonzaga. — Se vuol passare nel salotto.
— No, non occorre; ho poche parole da dirle. Possiamo restare anche qua.
— Come vuole; — rispose quell’altro.
Ma in verità, avrebbe desiderato di condurlo altrove, lontano da un certo uscio di comunicazione, davanti al quale lo aveva confinato la leggerezza del suo signor nipote. Non già che temesse una violazione di domicilio, avendo braccia abbastanza forti, non solamente per trattenere un uomo come il conte Pompeo, ma anche, all’occorrenza, per metterlo gentilmente fuori della finestra; ma egli temeva il rumor delle scatole di madama Duplessis, ospite comodissima, sì, ma per allora un po’ molesta vicina.
Frattanto, quegli altri due se n’erano andati, e Cesare Gonzaga rimaneva a tu per tu col conte di Castelbianco.
— Sentiamo che cosa avrà da dirmi questo qua; — pensò egli in cuor suo. — Ha un’aria, in fede mia, che non promette niente di buono. Ah, per tutti i diavoli! Era ben meglio restare un altro paio di giorni alle Carpinete, e lasciare che questi sapienti di città sbrigassero le loro faccende da sè. Basta, qui bisogna stare in cervello, avere un occhio al cane e l’altro alla macchia. —
Con questi proponimenti Cesare Gonzaga stette ad aspettare i discorsi del conte di Castelbianco, dopo avergli cortesemente additata una scranna.