Arabella/Parte prima/10
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X.
Il risultato d’un colloquio
La stanza dove il signor Tognino introdusse i tre delegati non era che un altro ammezzato un po’ meno buio dell’anticamera, colla finestra verso la via pubblica, arredato di pochi e vecchi mobili pieni di carte e di cartaccie alla rinfusa.
In questa stanza il principale era solito ricevere i capimastri e i fornitori, che lavoravano per conto suo nelle fabbriche di Milano nuovo, ai quali anticipava capitali, garantendo il credito con buone ipoteche.
Uno scrittoio, un libro mastro, quattro sedie, uno scaffale, un ritratto affumicato di Cavour attaccato fuori di simmetria formavano tutto l’arredo di quei quattro muri coperti di una carta color cioccolatta, che riceveva una luce di rimando e l’onda dei rumori e dei gridi della viuzza vicina.
— Venite avanti, sedetevi se trovate da sedere e cercate d’essere chiari e corti, perchè il mio tempo è prezioso.
Così disse con aria napoleonica, mettendosi a sedere in una poltroncina lucida di pelle senza guardare in faccia a nessuno, anzi mostrando di occuparsi interamente d’un fascio di carte che aveva portato con sè.
— Chi siamo è inutile ch’io lo dica, perchè il nostro parente mi conosce e questi sono altri parenti della povera Carolina, per la quale... — disse Aquilino, indicando col cappello Salvatore, che si stringeva il naso colla berretta, e Angiolina che con un faccino morbido e sorridente seguitava a far inchini e a fregarsi dolcemente i palmi, come se affilasse due coltelli.
— Risparmiate pure le presentazioni — interruppe l’altro, tuffando rapidamente la penna nel calamaio e scrivendo una fila di numeri sul rovescio d’una polizza — io vi conosco e non vi conosco e per me Aquilino, Andrea, Giosafatte, Tintimilia...
— Angiolina, non Tintimilia, Angiolina, Angiolina, Angiolina...
L’ortolana ripetè tre volte il suo nome armonioso con una cantilena sempre più piena di grazia e di delicatezza, accompagnando ogni volta la musica con una bella riverenza, come fanno le prime donne quando ringraziano il colto pubblico. Credeva così di obbedire agli ordini del vice-ricevitore, che andava raccomandando le belle maniere. Ma Tognino le rispose con una occhiata cattiva, saettata di sotto alla piccola tesa del cappello e tornò a scrivere i suoi numeri.
— Insomma, che cosa volete?
— Che cosa vogliamo? — riprese con una intonazione più elevata Aquilino, facendo un passo avanti. — Il notaio Baltresca ci ha data la comunicazione e ci ha detto di venire, perchè non è possibile che la buona Carolina, sapendo d’avere molti parenti poveri, abbia voluto sobbarcarsi, dirò così, a un viaggio così lungo, lasciando a tutti in mano una... con poco rispetto parlando, mentre don Giosuè Pianelli, mazzacronico del Duomo...
— Un bel prete sporco che il sor Tognino conosce benissimo... — aggiunse Angiolina sempre con delicatezza.
— Ha le prove questo don Giosuè riverito? — chiese l’affarista, alzando il viso, e fermandolo in faccia all’Aquilino, colla penna sospesa e stretta nella mano. — Se questo vostro prete ha della carta in mano la faccia cantare. Ci son fior di tribunali in Milano, fior d’avvocati. Sapete dove sto di casa. Fatemi citare e soprattutto fuori le prove, le prove, le prove. A ciarle siamo tutti milionari. Fate una causa. Se avete bisogno di un avvocato, qui c’è la guida di Milano. Ce ne sono cinquecento a Milano di avvocati, pei quali non è mai troppo il numero dei minchioni.
— Senti, senti... — scoppiò a dire questa volta l’Angiolina, dando fuoco alla prima bomba. Ma Aquilino entrò in mezzo e col gesto d’un direttore d’orchestra che segna la battuta:
— Abbiate pazienza, — disse alla donna — lasciate prima dire una parola a me e poi parlerete voi.
— Sì, è meglio, perchè se parlo io, è la rivoluzione — soggiunse l’ortolana, correndo come se volesse andarsene. Quando fu sulla soglia, piombò sopra una sedia ch’era lì e incrociò le due braccia solide e tonde sul petto, per quanto permetteva di farlo quel che c’era sotto, e dondolando le gambe che stentavano a toccar terra, comandò al vice-ricevitore di parlare per il primo. Il Boffa, che un resto di flussione faceva più taciturno del solito, alzò il mento e cominciò a grattarsi il collo.
Aquilino, col tono ragionevole d’un uomo che ama discorrere e ragionare bene le cose, agitando il cappello e raddolcendo le parole con un sorriso di celia, riprese a dire:
— Mi vien da ridere. So anch’io che non è mai troppo il numero dei minchioni a questo mondo. Il mio buon parente Tognino mi conosce da un pezzo e adesso è inutile rivangare il sangue. Ho fatto il quarto a tarocco più di venti, più di cento volte e ho fin strappato l’ultimo dente alla vecchia e venerata cugina. La povera Carolina era una Maccagno, che ha sposato un Ratta, Gioacchino Ratta, che ha fatto i denari cogli appalti, per cui, a rigore, se c’è gente che ha diritto all’eredità... cose da riderci su... siamo noi Ratta, tutta gente rovinata come la finanza. Questa era la intenzione della defunta.
— La qual defunta, caro il mio Tognino... — venne a dire, saltando dalla sedia e correndo verso la scrivania, la donna; ma Aquilino fu svelto, la prese al volo, la fece girare sulle gambe e la ricondusse a sedere, gridando anche lui:
— Adesso parlo io, corpo di Bismarck, dopo parlerete anche voi.
E tornando verso Tognino, che continuava a scrivere come se non ci fosse nessuno, seguitò:
— Noi non abbiamo in mano per modo di dire, la prova palpabile, proprio il pezzo di carta che dica così e così; ma abbiamo la testimonianza di molte brave persone, vero, Salvatore?
Il Boffa alzò la barba, mosse un braccio, come se tirasse un mantice per dar fiato all’organo, ma non mandò fuori che un sordo mugolìo.
Toccò ancora all’Aquilino andare innanzi:
— Farò un paragone. Non abbiamo in mano la carta del salame, per dire che qualcuno ha mangiato il salame; ma ne sentiamo l’odore. Il nostro buon cugino Tognino sa bene i suoi conti e può insegnare, mi vien da ridere, il calcolo sublime a tutti noi; ma io ho visto il mondo. Sono stato in Calabria e so, corpo di Bismarck, che a questo mondo un po’ per uno fa male a nessuno. Un’occhiata anche a noi, dalla parte di Dio! Si lavora come bestie, siamo carichi di figliuoli, e qualche cosa bisogna pur che si mangi anche noi per poter stare in piedi...
— Adesso ho capito. Prove non ne avete che io ho rubato un testamento, come dite voi; ma siete in trenta, siete in quaranta e credete di farmi paura. Non potendo portarmi via l’eredità, perchè la legge mi dà la forza e io sono nel mio diritto, vorreste colle vostre prediche spillarmi dei quattrini, quasi in forma di tacitazione per poter dire dopo: Vedete? Se ci ha dato questo, è perchè sa d’avere la coscienza sporca. Son più vecchio di voi e conosco le trappole. Il notaio Baltresca sa quel che deve a ciascuno. Per conto mio non dò un quattrino a nessuno.
Tognino parlò con voce secca, gestendo con furia coll’indice magro, magro, col tuono d’uomo irritato e offeso nel suo diritto.
L’Angiolina, prima ancora ch’egli avesse finito il suo ragionamento, appoggiati i pugni ai fianchi robusti, camminando con passi piccoli e strisciati come una ballerina, era venuta a piantarsi davanti al tavolino, dondolando tutta in un pezzo, col capo inclinato da una parte, l’occhio socchiuso, quasi semispento, come se dormisse in piedi.
— Dunque, niente a nessuno... — declamò colla voce grave di chi intona un salmo.
Aquilino cercò col mettersele davanti di far da paravento: ma la donna scartò di fianco, e afferrato il volume panciuto della Guida di Milano, se lo cacciò sotto il braccio e tornò a cantare, ma con tono più rialzato:
— Niente a nessuno, sor ladrone illustrissimo...
— Piano colle parole, o chiamo le guardie... — disse il signor Tognino, alzandosi di scatto e battendo quasi il suo dito ossuto sul naso della donna.
— Dobbiamo andare adagio colle guardie, sor Tognino riverito? lasciamole stare le guardie? c’è in Verziere della gente che non ha paura delle guardie...
La donna, sbarrando gli occhi pieni di quarantotto, pareva un cagnaccio in atto di scagliarsi su un gatto, e a lei rispose l’uomo con un occhio da vero gatto, un occhio quasi verde, avvelenato, mentre colla mano irritata faceva saltare sul legno un tagliacarte di bronzo massiccio, che mandò un suono forte e squillante.
— Noi non abbiamo prove, tu dici, brutta faccia di mezzo impiccato! — gridò colla sua bella voce spiegata l’ortolana. — Dunque noi non siamo parenti come gli altri... Quel che dice don Giosuè è falso; quel che dice l’avvocato Baruffa è falso; quel che la vecchia aveva detto ad Aquilino è falso. È la carta che tu vuoi, Maccagno. Tu hai bisogno della carta, o furfantaccio. Non contento d’aver raggirata la vecchia balorda, di aver cacciata via la sua cameriera, di aver chiusa la porta in faccia ai parenti, di aver mangiato la casa e i fondi di quella bigotta che ti manteneva, tu vuoi anche della carta, o schifoso...
Ferruccio, che stava a sentire nell’altra stanza, si lasciò cadere sopra una sedia.
— Questo non è parlare... — gridò Aquilino, volgendosi irritato al Boffa, che mosse una gamba.
— Questo è parlar chiaro, il mio regio impiegato; questa è la messa cantata. E non hai schifo del pane che mangi, o Gattagno, fatto col sangue della povera gente? Non hai schifo di mantenere le tue sgualdrine e quelle del tuo Bomba coi quattrini dei poveri padri di famiglia? Ci vuol altro che mandare in lusso la nuora smorfiosa...
Ferruccio, che ascoltava di fuori, si coprì gli orecchi colle mani.
Tognino fece un certo segno ad Aquilino, strizzando l’occhio con un moto particolare e parlante che persuase il vice-ricevitore a discorrere col Boffa. Costui entrò perfettamente nell’idea, e come se gli scoppiasse a un tratto una bomba nel ventre, saltò addosso alla donna, la ghermì per un braccio e cominciò a tirarla nella stessa maniera che si tira un mobile pesante o una bestia riottosa.
La donna, non potendo resistere a quella forza di ferro, si lasciò trascinare: ma volle gettare in faccia a Tognino tutti i titoli cavallereschi, che si usano in verziere in queste occasioni. Vociò in anticamera, vociò sulle scale e non si persuase a smettere nemmeno quando fu in corte. Strillavano in lei diecimila ortolane.
— Le donne non sono responsabili e io mi asciugo le mani di quest’acqua sporca — disse Aquilino con tono amichevole, fregando la mano che aveva libera sulla manica dall’altro braccio come se l’asciugasse davvero. — Nemmeno quando si giuoca a tarocco mi piace di gridare, vero, caro cugino? perchè chi ingiuria, punto primo, ha sempre torto, e a me piace discorrere.
— Dunque avete delle prove? — riprese il caro cugino con piglio bonario, ripigliando la penna.
— Benedetto! non si vuol mica portar via il testamento, ma se nel tagliare il panettone, per un esempio, cascano delle briciole...
— Il notaio Baltresca sa quel che deve fare.
— Darà cento lire a testa per elemosina. Cento lire, caro Tognino, sono in queste condizioni un insulto.
— E allora fate una causa.
— Lei dice così perchè sa che non siamo in grado di fare una causa.
— E allora lasciate stare... — seguitava a ripetere pazientemente l’altro, bagnando spesso la penna e scrivendo, scrivendo e bagnando.
— Tanto fa come dire: affogatevi, strozzatevi, ungetevi di lucelina e datevi il fuoco.
— Oh insomma...! io non vi chiedo che una cosa sola... — proruppe questa volta con un gesto d’impazienza l’abile affarista, aprendo le due mani come due ventagli.
— Quale? — ebbe ancora l’ingenuità di chiedere il vice-ricevitore.
— Le prove!
Aquilino capì che non istava più della sua dignità d’insistere. Il diavolo fa i birboni e poi li accieca. Si mise il cappello in testa e si cacciò le due mani nelle tasche sotto le falde del suo stiffelio della festa, lasciando cadere uno sguardo di compatimento sopra un infelice che per l’avidità dell’oro, commetteva delle abbiette vigliaccherie. Aquilino aveva combattuto a Mestre con Poerio e poteva bene dall’alto della sua povera, ma onesta dignità, commiserare un meschino, che si avviliva nel fango. Queste cose disse o credette di esprimere colla lunga occhiata con cui salutò il cugino, mentre avviavasi verso la porta. Sulla soglia si fermò, si voltò, sollevò un dito all’altezza del cilindro e declamò la sentenza del Metastasio:
Se a ciascun l’interno affanno
si leggesse in fronte scritto...
E uscì tutto d’un pezzo, non degnandosi nemmeno di finire.
Ci pensò l’Angiolina a finire. Trascinata sulla strada dal Boffa, che tirava come un argano, si appoggiò al muro, tra la porta dell’osteria e il tabaccaio, in faccia alla finestra dell’ammezzato, e cominciò, o per dir meglio, seguitò a gridare:
— Maccagno birbone! Maccagnaccio ladro! fatti vedere, faccia d’impiccato.
C’erano abbasso molti altri parenti interessati a far nascere scandali, che aizzavano l’ortolana a gridar più forte, che suggerivano le parole delle litanie. La donna coi pugni appoggiati alle anche, il viso in una fiamma, l’occhio grosso e lucente, tirava un mezzo fiato, commentava alla gente, che prese subito a radunarsi, chi era il Maccagnaccio ladro, che cosa aveva fatto, che cosa aveva rubato: poi subito tornava da capo:
— Gattone, Battista Scorlino, Boggia della povera gente!
Ferruccio sentivasi venir male, gli tremavano le gambe.
A questi insulti, che salivano dalla pubblica strada, il signor Maccagno non seppe più star fermo. Saltò in piedi, venne a dare un’occhiata breve e tagliente attraverso i vetri polverosi, stringendo ancora il tagliacarte di bronzo, come un coltello, masticò senza inghiottirle delle parole amare e avvelenate, trovando nell’irritazione dell’oltraggio la forza che non gli veniva data dalla buona coscienza.
Nel livore dell’odio e della reazione selvaggia, l’egoismo, ingannando sè stesso, confondeva il legittimo diritto della difesa col diritto del più forte, che non è sempre il migliore, come pare al lupo della favola. L’uomo arido e sprezzante ritrovava nella necessità della battaglia quasi un senso di orgoglio, che si accompagna sempre al valore, qualunque sia la causa per la quale si combatte. E come si sa, l’orgoglio si confonde spesso coll’onorabilità e aiuta con questa a confondere le idee, o almeno quelle che non desiderano troppo d’essere chiarite.
Erano nell’affarista quasi due nature in cozzo tra loro. L’una, la primitiva, capace di idee buone e generose; e una seconda, quella del mestiere, che non intendeva che una ragione sola, l’interesse. Queste due nature s’eran fatte quasi due abitazioni nella sua coscienza, e come due vicine in discordia, cercavano sempre di non incontrarsi e di non farsi vedere insieme; si può dire che invecchiassero nella stessa casa, quasi senza conoscersi, odiandosi, respingendosi a vicenda, in una paurosa attesa, quale di loro due sarebbe morta prima, e quale sarebbe rimasta padrona assoluta della casa.
— Grida, squàrciati, strega! — brontolò, pensando che tutti i cenci di quei pidocchiosi miserabili non avrebbero mai potuto mettere insieme il piccolo cencio di carta che le fiamme del caminetto avevano divorato insieme alla malizia dei preti e degli avvocati.
— Sgòlati, crepa! Una carta abbruciata non c’è Dio che la risusciti.
Da questa parte potevano assalirlo in cinquecento, ma la prova che la vecchia avesse fatta una carta non l’aveva che lui, e nemmeno lui era più in grado di presentarla. Le ingiurie e le insolenze pubbliche non facevano che dargli qualche ragione di più, se non si vuol dire che le sue ragioni cominciassero da queste. Un cagnolino debole ha bisogno d’essere aizzato per risolversi a mordere. Bene! le ingiurie e le insolenze aiutavano a farlo comparire vittima perseguitata. Si aggiunga che un torto fin che dorme (e in fondo sentiva d’aver torto in questa guerra) è come un lupo addormentato che si lascia ammazzare stupidamente a colpi di bastone. Queste punture obbligavano la bestia a dormire con un occhio aperto e a mandare di tanto in tanto un sordo ruggito d’avvertimento ai ragazzacci e ai villani della contrada.
— Piglierò le mie note, stupida creatura.
Tornò al tavolino, e tolto un foglio di carta, notò il giorno e l’ora, come se pigliasse gli appunti per un processo verbale.
— Tognino, ladro di testamenti — urlò la donna.
— Benissimo — e scrisse anche queste parole sulla carta.
— Assassino della povera gente!
— Brava, dinne un’altra, brutta cagna.
— Schifoso!
— C’è abbastanza per cacciarti in galera. Aspetta.
Si mosse ancora dal suo posto e buttata nella viuzza un’altra rapida occhiata, notò molta gente sulle botteghe, riconobbe l’albergatore, il tabaccaio, il lattivendolo, qualche altro, dei quali volle scrivere i nomi nel verbale, per chiamarli tutti come testimoni d’accusa nel terribile processo d’ingiuria, oltraggio e diffamazione ch’egli avrebbe domani intentato all’ortolana, e a’ suoi compari. Oh se li avrebbe fatti ballare!
— Ferruccio! — chiamò a mezza voce, aprendo un poco l’uscio verso la scala.
Il giovinetto, colle convulsioni nelle gambe, era disceso in corte e andava cercando cogli occhi qualche sorvegliante o una guardia di questura che facesse smettere la spiritata. Non pareva più Milano. La strada in poco tempo fu piena di curiosi e di sfaccendati e anche di gente che aveva qualche cosa di meglio a fare, ma che il caso nuovo e stuzzicante teneva lì, fermi a guardare e a pestar la premura coi piedi.
Chi rideva, chi canzonava, chi eccitava la donna, credendola ubriaca a dirne sempre delle più grosse. Intorno a lei si parlava (come si può parlare tra gente male informata) della vecchia Ratta, che aveva lasciato un milione: del canonico Pianelli che aveva, d’accordo col Maccagno, rubato il testamento e s’eran diviso mezzo milione ciascuno: dell’avvocato Baruffa, il quale aveva le prove in mano che la vecchia era stata avvelenata: e altre siffatte fanfaluche, che parevan vere a chi le diceva, in proporzione del gusto che ci pigliava a dirle.
E siccome questo gusto è sempre un po’ meno di quello che prova chi le ripete, in poco tempo la storia del testamento e del veleno si sparpagliò in tutto il quartiere, e a furia d’esser data per vera, divenne verosimile. Chi rideva come alla commedia, chi, più interessato e quindi meno ragionevole, parlava d’impiccare, di bastonare, di cavare il denaro dalle budella. E come di fuori, così nel vano del cortile sporgevano teste di donne, berretti di cuochi e di lavoranti, correvano voci da muro a muro, da scala a scala, mentre dai retrobottega uscivano i commessi e i facchini di studio a domandare, a sentire, a vedere, a mettere il naso.
Ferruccio, impaurito dal crescente bisbiglio, vistosi quasi preso di mira dai curiosi, chiamato dalla voce dell’Augusta che strepitava in cima alle scale, risalì le quattro scalette a corsa, e stava per entrare nell’ammezzato, quando nell’arco della porta risonò un grido acutissimo, un grido terribile di donna spaventata o ferita, un grido che fece balzare Tognino Maccagno dalla scranna, e suscitò un immenso sussurro di voci adirate e scandalizzate. Tognino Maccagno, stringendo sempre quel tagliacarte acuto e lucente come un coltello, uscì, afferrò Ferruccio che vacillava sul pianerottolo, se lo tirò dietro per un braccio, scese a precipizio, passando, urtando, tra la gente, livido in faccia, e arrivò nel momento appunto che Arabella stramazzava mezza morta ai piedi della scala.
Tornava dall’aver fatto una visita a Maria Arundelli che abitava verso le parti di Porta Genova. Giunta in via Torino, invece d’entrare in casa per la porta principale, svoltò ancora nella viuzza, per ripetere e per aggiungere una nuova raccomandazione a Ferruccio in favore della povera Stella, e per incaricarlo di qualche sussidio.
Svoltato appena l’angolo, era stata ravvisata dall’Angiolina, che a vederla, fu presa da una nuova idea. Lasciato il posto, dove sbraitava all’aria, l’ortolana andò incontro alla moglie di Lorenzo Maccagno, che veniva rallentando il passo, coll’animo sospeso allo spettacolo della folla insolita che ingombrava la strada, le piombò subitamente addosso come un’aquila che ghermisce una tortora, e presala per un lembo del vestito cominciò a chiamarla ladra, moglie di ladri, nuora di ladri, manutengola...
Arabella, còlta all’improvviso, trasalì, stentò a capire, e per l’istinto prese a correre verso la porta. E l’altra dietro:
— Mettilo giù quel cappellino, smorfiosa, figlia di ladri...
Arabella vide come una gran fiamma rossa, un fuoco agli occhi, affrettò di nuovo il passo, mentre sentiva il sangue precipitare. E l’altra sempre dietro, a incalzarla, a tormentarla fin sotto la porta, dove allungò la mano al collo della giovine, che inorridita gettò un grido, quel terribile grido, si rivoltò, vacillò, si resse colle mani al muro, poi vide scendere il buio, sentì la morte venire... e cadde sugli ultimi scalini.
Molti uomini, disgustati a quella scena, presa in mezzo l’ortolana, la cacciarono via, bistrattandola e battendola. Essa corse e sparì come una grossa talpa, tirandosi dietro un nugolo di ragazzi.
— È niente. State lontano, non toccatela... È niente, Arabella. Un po’ d’acqua. È meglio portarla di sopra.
Fate stare indietro la gente, per bacco! Arabella, è nulla, mi creda; è uno sbaglio. Pigliala, Ferruccio, che la portiamo su.
Era il signor Tognino Maccagno che parlava così, che ordinava, che teneva lontano la gente, sorreggendo il corpo della giovane svenuta, trascinandola con uno sforzo verso la scala, mentre Ferruccio, cogli occhi velati da un fiume di lagrime, la prendeva fasciandole modestamente i piedi nel vestito, e aiutava a portarla su per le quattro scalette fino all’ammezzato. Pareva che portassero una morta.
Aquilino si collocò ai piedi della scala e col tono irritato di chi non ama le vigliaccherie, persuase i parenti a non far scene, ch’era una vergogna. Pigliarsela colle donne è più che una vigliaccheria, è una sporchezza. Il veterano, fremendo, cominciò egli stesso colle mani e col fazzoletto rosso di cotone a mandar via la ragazzaglia, che si caccia dappertutto come le mosche.
Quando fu tutto finito, arrivarono le guardie.
Arabella, posta a sedere sopra la poltroncina di pelle, cominciò leggermente a sospirare. Il suocero le sorresse colle mani la testa cadente, premendosela sul petto, mentre due o tre buone donne accorrevano con dell’acqua, con dell’aceto, con del rhum. Essa riaprì gli occhi, li girò mollemente intorno con aria trasognata, sospirò, si ricordò, strinse la mano del parente per ringraziarlo, e dopo aver mormorato delle parole chiuse, uscì a dire:
— Non c’è più quella donna?
— Nossignora, non c’è più — disse in fretta Ferruccio, che tremava sempre come una foglia.
— Non c’è più nessuno. È stato un equivoco... Ha creduto che fosse chi sa chi... Come si sente? vuol andare di sopra, Arabella?
Il vecchio Maccagno parlava con una voce così alterata, che egli stentò a riconoscerla per sua.
— Se queste buone vicine mi accompagnano...
Entrano l’Augusta e la Gioconda, che si strinsero amorosamente intorno alla padroncina. Arabella si sforzò di alzarsi, ma non potè reggersi. Sentiva la testa in fiamme e la vita fuggire. Le due donne presero la poltrona e la sollevarono così, mentre Ferruccio correva innanzi a spalancar gli usci. Il giovine gemeva senz’avvedersene, come quando si soffre in sogno. Fu portata su e messa subito a letto.
Una delle vicine, la moglie del mercante, capì che bisognava il dottore e ne avvertì subito il signor Tognino.
— Perchè, perchè? — domandò il vecchio sbarrando gli occhi.
— Ho paura che perdiamo le belle speranze.
Tognin Maccagno si portò i pugni stretti e angolosi alla bocca; ma non volendo mostrarsi avvilito, voltò le spalle e uscì. In anticamera trovò Ferruccio, fermo in mezzo, come un mobile dimenticato.
— Hai visto Lorenzo?
Il ragazzo disse di no colla testa.
— Sai dove sta il dottor Taruzzi?
— Sì, lo so.
— Va a chiamarlo.
Il giovane s’avviava già per uscire, quando il principale lo richiamò di nuovo:
— Se vedi Lorenzo, non dirgli nulla com’è stato. Chiama il dottore e poi to’... son dieci lire... — Tognin Maccagno trasse con mano tremante il portamonete e dette il denaro. — Vai a Porta Romana, pigli il tram di Lodi, e se non c’è, pigli una carrozza e avverti la sua mamma, sai? alle Cascine..
— Sì, sì — disse il ragazzo, non accorgendosi che per la prima volta il principale gli dava del tu. E tornò a discendere le scale correndo.
— Il soggetto è per natura delicato — osservò il dottor Taruzzi sul pianerottolo, dopo aver visitata la malata — però, dato l’accidente, il fenomeno è regolare e non presenta pericolo. C’è bisogno di un’assoluta quiete per una ventina di giorni e raccomando una continua vigilanza. Poi farebbe bene l’aria della campagna. Del resto gli sposi son giovani e non sono i figliuoli che mancano a questo mondo. In quanto al nonno, caro signor Tognino, abbia pazienza anche lui per questa volta.