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volino, dondolando tutta in un pezzo, col capo inclinato da una parte, l’occhio socchiuso, quasi semispento, come se dormisse in piedi.

— Dunque, niente a nessuno... — declamò colla voce grave di chi intona un salmo.

Aquilino cercò col mettersele davanti di far da paravento: ma la donna scartò di fianco, e afferrato il volume panciuto della Guida di Milano, se lo cacciò sotto il braccio e tornò a cantare, ma con tono più rialzato:

— Niente a nessuno, sor ladrone illustrissimo...

— Piano colle parole, o chiamo le guardie... — disse il signor Tognino, alzandosi di scatto e battendo quasi il suo dito ossuto sul naso della donna.

— Dobbiamo andare adagio colle guardie, sor Tognino riverito? lasciamole stare le guardie? c’è in Verziere della gente che non ha paura delle guardie...

La donna, sbarrando gli occhi pieni di quarantotto, pareva un cagnaccio in atto di scagliarsi su un gatto, e a lei rispose l’uomo con un occhio da vero gatto, un occhio quasi verde, avvelenato, mentre colla mano irritata faceva saltare sul legno un tagliacarte di bronzo massiccio, che mandò un suono forte e squillante.

— Noi non abbiamo prove, tu dici, brutta faccia di mezzo impiccato! — gridò colla sua bella voce spiegata l’ortolana. — Dunque noi non siamo parenti come gli altri... Quel che dice don Giosuè è falso; quel che dice l’avvocato Baruffa è falso; quel che la vecchia aveva detto ad Aquilino è falso. È la carta che tu vuoi, Maccagno. Tu hai bisogno della carta, o furfantaccio. Non contento d’aver raggirata la vecchia balorda, di aver cacciata via la sua cameriera, di aver chiusa la porta in faccia ai parenti, di aver