— 137 —

E siccome questo gusto è sempre un po’ meno di quello che prova chi le ripete, in poco tempo la storia del testamento e del veleno si sparpagliò in tutto il quartiere, e a furia d’esser data per vera, divenne verosimile. Chi rideva come alla commedia, chi, più interessato e quindi meno ragionevole, parlava d’impiccare, di bastonare, di cavare il denaro dalle budella. E come di fuori, così nel vano del cortile sporgevano teste di donne, berretti di cuochi e di lavoranti, correvano voci da muro a muro, da scala a scala, mentre dai retrobottega uscivano i commessi e i facchini di studio a domandare, a sentire, a vedere, a mettere il naso.

Ferruccio, impaurito dal crescente bisbiglio, vistosi quasi preso di mira dai curiosi, chiamato dalla voce dell’Augusta che strepitava in cima alle scale, risalì le quattro scalette a corsa, e stava per entrare nell’ammezzato, quando nell’arco della porta risonò un grido acutissimo, un grido terribile di donna spaventata o ferita, un grido che fece balzare Tognino Maccagno dalla scranna, e suscitò un immenso sussurro di voci adirate e scandalizzate. Tognino Maccagno, stringendo sempre quel tagliacarte acuto e lucente come un coltello, uscì, afferrò Ferruccio che vacillava sul pianerottolo, se lo tirò dietro per un braccio, scese a precipizio, passando, urtando, tra la gente, livido in faccia, e arrivò nel momento appunto che Arabella stramazzava mezza morta ai piedi della scala.

Tornava dall’aver fatto una visita a Maria Arundelli che abitava verso le parti di Porta Genova. Giunta in via Torino, invece d’entrare in casa per la porta principale, svoltò ancora nella viuzza, per