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LIBRO UNDECIMO | 407 |
XXVIII. Non mossero tali cose, il principe; anzi incontanente contraddisse, e chiamando il senato così cominciò: „I miei antichi (tra i quali il più antico Clauso, di nazione Sabina, fu fatto cittadin romano e senatore a un’otta) m’insegnano governar la repubblica col senno loro, di condur qua ciò che altrove è d’eccellente, sappiendo che i Giuli da Alba, i Coruncani da Camerio, i Porzj da Tuscolo, e per non ricercar l’antichità, dalla Toscana, dalla Lucania, da tutt’Italia furon chiamati uomini in senato; e in ultimo fino dall’Alpi, a fine d’accrescere, non a un uomo per volta, ma a cittadi, a nazioni, il nostro nome. Stemmo dentro in ferma pace e di fuori fiorimmo, allora che facemmo que’ d’oltre al Po cittadini, e che mostrando di metter soldati nostri per tutto il mondo, gli mescolammo col nerbo di que’ paesani, e ne rinvenne lo imperio stanco. Sacci egli male ch’e’ ci sieno venuti i Balbi di Spagna, e non meno grandi uomini della Gallia Nerbonese? I loro descendenti ci sono, e amano questa patria al par di noi. La rovina de’ Lacedemoni e degli Ateniesi, sì forti d’arme, che fu, se non il cacciar via i vinti come strani? Ma il nostro padre Romolo, ebbe tal sapienza, che molti popoli vide suoi nimici e cittadini in un dì. Avemmo de’ re forestieri; si son dati de’ magistrati a figliuoli di libertini: non oggidì, come molti s’ingannano, ma dal popolo antico. Oh, i Senoni, combatterono; i Volsci, e gli Equi non ci voltarono mai punte? I Galli ci presero; demmo anche ostaggio a’ Toscani; patimmo il giogo dai Sanniti. Ma se tutte le guerre riandi, quella co’ Galli fu la più corta, con pace continuata e fedele. Da che quésti son mescolati con esso noi