Anime allo specchio/La signora è tornata
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LA SIGNORA È TORNATA.
«La persona di cui ti parlai arriverà domani a mezzogiorno. Ti prego di andarla a ricevere alla stazione e di condurla a casa mia, dov’io la raggiungerò la sera medesima.»
Umberto Deiva rilesse l’affrettato biglietto del suo amico Claudio Montale e guardò l’orologio. Mancavano venticinque minuti a mezzogiorno e «la persona» non doveva tardare, quindi egli si diresse passo passo verso la stazione riflettendo al bizzarro caso che lo mandava ad accogliere l’amante del suo amico ed a farle per primo gli onori di casa.
Montale glie ne aveva lungamente parlato alcune settimane innanzi, con quel particolare rapimento degli amori all’inizio che gli mozzava a tratti il respiro, come nell’ansia di un palpito troppo intenso. Era stato un incontro d’albergo impreveduto e rapido, un primo incrociarsi di sguardi balenanti, un inseguimento taciturno, un breve colloquio misterioso, quasi febbrile e quasi ostile. E Claudio Montale, che viveva da più di un anno e mezzo solitario e triste nel rimpianto inguaribile d’una donna perduta e ancora amata, s’era creduto all’improvviso liberato dall’incubo del ricordo, sentendo di poter riposare ed esaltare in costei il fervore di un desiderio antico e nuovo, di poter placare e addolcire in questa ignota creatura il tormento ostinato che la mancanza dell’altra gli procurava. Dopo tanti mesi della più torturante fedeltà, della più necessaria costrizione egli aveva trovato finalmente fra quelle braccia esili e bianche la smarrita gioia della sua vita e tale ne era stata la stupita felicità che egli aveva promesso a sè medesimo di non più lasciarla sfuggire.
Ora la donna, invece di tornare alla sua lontana città dove il marito, un maturo professore universitario e i due suoi bambini l’attendevano, s’era lasciata indurre dalla travolgente passione dell’amico ad abbandonare l’uno e gli altri per lui e, partendo sola per non destare i sospetti di certe vigili conoscenti, lo precedeva di alcune ore in quella sua nascosta villetta dov’egli doveva raggiungerla per non lasciarla mai più.
Egli stesso avrebbe voluto accoglierla ed accompagnarla nel mistero di quel rifugio di amore, dove già l’altra aveva a lungo e tante volte soggiornato, ma vi si erano opposte diverse piccole circostanze della realtà materiale ed egli aveva affidato all’intimo amico quella delicata e segreta missione.
L’intimo amico, Umberto Deiva, aspettava alla stazione il treno in ritardo e si domandava con qualche curiosità quale figura di donna gli sarebbe apparsa fra poco. Se lo chiedeva anche con una certa inquietudine perchè questa avventura fulminea e bizzarra di Claudio Montale non piaceva al suo spirito calmo o riflessivo. Egli aveva anni prima compresa e quasi secondata la passione di Claudio per l’altra, che era una giovine attrice libera e sola, ma non perdonava facilmente all’impetuosa natura dell’amico questo traviamento di una donna maritata, questo distoglierla da uno stato onestamente famigliare e tranquillamente sicuro per un altro, sia pure più attraente, ma creato dalla passione e perciò instabile ed agitato.
Il convoglio entrò nella piccola stazione fumosa e bituminosa con uno squillare rauco di trombetta, discesero alcuni contadini e un prete, quindi allo sportello di uno scompartimento di prima classe apparve una figura snella vestita di nero, avvolta in un fittissimo velo. Umberto Deiva le andò incontro e le si presentò col cappello in mano:
— Sono l’amico di Claudio Montale, signora, e vengo per parte di lui a riceverla.
— Grazie, — ella mormorò porgendogli la mano, — sapevo d’incontrarla qui e ciò mi ha dato coraggio. La casa è lontana?
— Mezz’ora di carrozza, signora, — disse egli cercando di scrutarla in viso fra l’ombra del velo che la copriva.
Ad un rapido balenare dei suoi occhi grigi, dietro la rete nera, gli parve d’aver già veduto quello sguardo altra volta, senza poter dire dove, senza saper dire quando. Eppure quella donna gli era completamente sconosciuta, ed il suo nome, Elisa Laprati, assolutamente ignoto. Indagava nella memoria tra le confuse reminiscenze del passato, mentre le sedeva accanto in carrozza e scambiava con lei quelle brevi frasi della cortesia abituale alle quali non li sottraeva neppure la singolarità della circostanza, ed intanto il profilo irregolare e grazioso della donna, la fronte ombreggiata dai capelli scuri che scendevano a coprirle le orecchie, il naso breve, la bocca un po’ grande e carnosa, il mento piccolo e il lungo collo s’accentuavano sotto la trasparenza del velo e vi si fondevano insieme come in certi ritratti circondati di penombra che appaiono vivi e misteriosi ad un tempo.
Ella parlava a mezza voce e con parole rare e staccate guardandosi attorno con un senso alternato di smarrimento e di stanchezza che dava volta a volta alla sua persona un’inquietudine un poco paurosa od un accasciamento pieno di malinconia. E nell’atteggiamento dell’inquietudine col busto proteso, le mani nervose, le palpebre palpitanti, ella richiamava al pensiero di Umberto Deiva il turbamento di un’altra donna composto in una simile espressione di grazia ansiosa, e rimasto sommerso nella sua memoria per un tempo non ben definibile.
— A chi rassomiglia dunque costei? — egli si chiedeva invano da mezz’ora ed intanto la carrozza percorreva il viale d’ingresso e si fermava nel piccolo cortile rettangolare lastricato di pietre bianche e nere. Sulla porta, fra i due oscuri cipressetti che la fiancheggiavano come due attenti custodi, la vecchia governante di Claudio Montale aspettava l’ospite e non appena Elisa Laprati balzò dal predellino e sollevò il suo velo per osservare bene ad occhi scoperti il rifugio che l’amore offriva d’ora innanzi alla sua vita, la governante le corse incontro con un sorriso di confidenza accogliente.
— La signora è tornata! Ha fatto bene, ha fatto molto bene a ritornare con noi. Chi sa come sarà contento il signor Claudio!
La giovine donna sorrise perplessa guardando Umberto Deiva ed i suoi occhi grigi tra diffidenti e stupiti lo interrogavano. Ma la governante la precedeva per le stanze piene di luce, parlando con familiare gaiezza.
— Ecco il salottino, il suo salottino, signora, rimasto come allora, quando vi restava tante ore a suonare; si ricorda? Io mi ricordo del giorno della sua festa quando il signor Claudio lo riempì tutto di fiori di pesco e di fiori di glicine. Che bella giornata fu quella! Ed ecco la stanzetta da pranzo con la poltrona lunga piena di cuscini, dove la signora si sdraiava tanto volentieri a leggere, ed ecco la stanza da letto, la sua, dove nessuno ha più dormito da quasi due anni.
Elisa ed Umberto la seguivano in silenzio, l’una fremendo tutta d’oscura angoscia e di sorda irritazione, l’altro spiegando finalmente a sè stesso l’enigma di quella indefinibile rassomiglianza.
Ora, il mantello aperto sulla flessibile persona, il velo sollevato sul bel volto gli concedevano la visione intera di Elisa Laprati, la nuova amante del suo amico Claudio. E la nuova amante del suo amico Claudio rassomigliava all’amante antica. V’era, fra l’una e l’altra, diversità di sguardo e di voce, differente appariva la linea delle spalle e l’attaccatura del collo, dissimile il disegno delle sopracciglia e la forma delle mani, ma agli occhi della vecchia governante le figure entrambe sottili ed alte, i capelli egualmente bruni, il vestire d’una medesima eleganza si confondevano nella incertezza del ricordo e non formavano che una sola persona, l’ antica amica del suo padrone, la sua signora di due anni prima.
Elisa Laprati sospettò questo inganno e tacque finchè l’anziana donna fu presente, ma non appena questa s’allontanò per ritornare alle sue domestiche cure, ella s’abbandonò nella lunga poltrona soffice di molti cuscini e chiuse un momento gli occhi con un profondo sospiro represso.
— Voi mi dovete spiegare lo strano equivoco di quella donna, — ella disse dopo una breve pausa con voce bassa ma quasi dura, curvandosi d’un tratto verso Umberto Deiva che le sedeva di fronte. E poichè egli taceva nell’incertezza della risposta, ella proseguì sorridendo amaramente:
— La signora è tornata! Che significa ciò? Io non fui mai in questa casa e non vidi mai quella donna.
Riflettè alquanto contraendo la fronte quasi per intensificarvi lo sforzo del pensiero e soggiunse: — Qui abitò a lungo un’altra, non è vero? Quella che Claudio ha molto amato, ma che ora non ama più, che ora ha completamente dimenticata; non è vero?
La sua voce metallica martellava le parole quasi per imprimerle meglio in sè stessa, ma entrambi sentivano che esse suonavano false.
— È vero, — rispose Umberto Deiva ormai fermo nella convinzione di non doverle mentire, — qui abitò lungamente un’altra donna che Claudio ha molto amato, un’altra che assai vi rassomigliava, che vi rassomigliava tanto da trarre in inganno la governante e da indurla a credere voi ed essa la medesima persona. Questa è la semplice verità. Non c’è altro.
— Sì, c’è altro, — ella replicò premendosi nervosamente alle tempia le palme. — Il fatto in sè stesso non è grave, ma è gravissimo il significato che esso rappresenta ai miei occhi ed al mio cuore. E voi lo comprendete perfettamente.
— Io comprendo questo, — mormorò Umberto sorridendo con arguzia, e stringendosi nelle spalle, — che Claudio predilige ed ama uno stesso tipo di donna o se volete che io mi esprima con un maggior scetticismo, che Claudio non cerca in amore la varietà.
Ella balzò in piedi con una lunga risata stridula e si appoggiò con le reni alla tavola puntandovi le mani in un atteggiamento di sfida.
— Voi non siete sincero, non volete darmi il dolore d’essere sincero.
Ella continuava a ridere tra le pause lunghe, scuotendosi tutta in una vibrazione che l’agitava dalle spalle al piede.
— Ebbene lo sarò io, brutalmente, perchè è necessario che io guardi bene in faccia la verità, prima di prendere una decisione che deve cambiare la mia vita. Ora io mi spiego la strana condotta di Claudio verso di me. Claudio Montale non mi ama, ora lo comprendo. Egli ha amato in me l’immagine dell’altra, quella che io suscitavo inconsciamente nel suo ricordo. Egli stesso forse fu inconsapevole di questo inganno, ma il fulmineo desiderio che lo spinse a cercarmi dopo il primo sguardo fu ancora il desiderio dell’altra. Era l’altra che egli voleva, l’altra che egli inseguiva; io non fui che il riflesso, il fantasma di lei, ma intanto gli credevo, intanto mi abbandonavo alla sua follìa, ciecamente.
Si coprì con le mani gli occhi e lungo i polsi scivolarono due rapide lagrime che ella asciugò quasi con ira.
— Claudio non vi parlò mai dell’altra? — le domandò Umberto senza smentirla, ma tentando di spingerla accortamente verso qualche benefica soluzione.
— Sì, e molte volte. Ma come di un grande amore passato e finito per sempre. Egli non mi accennò mai a questa rassomiglianza, forse la subì senza rendersene ragione, se ne sentì attratto per una misteriosa suggestione. Egli si credeva da lungo tempo guarito, mentre continuava invece a soffrire dello stesso male ed io stessa non sono che una crisi più acuta di quel male.
Ella pronunciava duramente le sue frasi di analisi fredda, scandagliava coraggiosamente quel fondo d’umanità oscura, distruggeva con le parole aride, ad una ad una, tutte le belle lusinghe, tutti i dolcissimi incanti cresciuti all’ombra di quell’inganno.
Elisa Laprati sostò soltanto alcune ore nel solitario rifugio d’amore che doveva ospitarla per tutto il resto della sua vita, ed in quel breve tempo le parve di sentirsi spogliata della sua personalità, le sembrò di non essere più che un’ombra dell’altra, di parlare con quella voce, di guardare con quegli occhi, di attendere l’amico con un cuore diverso dal suo. E questa ossessione la turbò così profondamente che ella comprese la necessità oramai implacabile di liberarsene.
Al tramonto ella sedeva sulla terrazza di fianco ad Umberto Deiva, guardando silenziosamente spegnersi nel cielo le ultime fiamme; quando scese la prima ombra, lentamente ella trasse una lettera suggellata e con gesti tranquilli e misurati la lacerò in minutissime parti, la sparse al vento con mano leggera.
— Era l’addio supremo ch’io mandavo a mio marito, — mormorò con amara ironia e si volse e rientrò. Tornò dopo qualche minuto avvolta nel suo mantello da viaggio, col volto coperto dal fittissimo velo.
— So che passa un treno fra mezz’ora; a mezzanotte io sarò a casa mia. Voi mi accompagnate? Claudio non deve trovarmi qui.
Ella parlava a scatti, infilandosi i guanti nervosamente, sbattendo le palpebre sotto il suo velo, ansando, dominata da un’inquietudine impaziente e paurosa.
Quando fu seduta in carrozza presso Umberto Deiva, la governante apparve sulla porta, sostò fra i due cipressetti, riparando dal vento con la mano la fiamma di una piccola lampada e gridò nell’ombra con la sua voce stridente:
— Vanno incontro al signor Claudio? Li aspetto fra un’ora. Buona sera signor Umberto, buona sera signora Fausta!
La carrozza correva nella notte profonda, ed Elisa si stringeva nel suo mantello battendo i denti in una febbre d’angoscia.
— Fausta si chiama? Fausta? — gemette d’un tratto rivolta verso il compagno, e soggiunse tremando, quasi senza voce: — Ah se almeno avessi ignorato il suo nome!
E il compagno le strinse la mano nell’ombra, ma non seppe o non volle darle conforto.