Angelica. Dramma satirico/Introduzione
Questo testo è incompleto. |
Nota sui personaggi del dramma e sulla composizione del volume | ► |
INTRODUZIONE
I.
Leo nacque a Torino, il venerdì 16 ottobre 1903, all’una e tre quarti del pomeriggio. Era una meravigliosa giornata d’autunno. Vedo ancora nella memoria lo splendore di quel giorno indimenticabile.
Sembrava che mia fata benevola avesse deposto nella sua culla tutti i doni: la bellezza, la salute, l’intelligenza, il cuore, l’amore dei genitori e dei nonni, tutte le possibilità e tutte le facilità.
Sua madre ha raccontato giorno per giorno la sua lieta infanzia1. Educarlo fu il più facile dei compiti. Fuorchè la matematica, imparava tutto senza sforzo, con piacere e bene. Crebbe parlando e scrivendo l’italiano, il francese e l’inglese, come fosse nato trilingue. Un’anima che si infiammava a tutti i fuochi celesti: l’amicizia, l’amore, la riconoscenza, l’entusiasmo; una gaiezza, una bontà, e una dirittura naturali; una sincerità quasi esplosiva fecero della sua infanzia la delizia dei genitori. Non conoscemmo neppure l’ombra del tormento di tante famiglie: l’amore paterno e materno alle prese con i difetti della propria creatura. Fin dall’infanzia, pareva un essere quasi perfetto nei suoi rapporti con gli altri.
Subito dopo la sua nascita la famiglia cominciò a prosperare. Si sarebbe detto che con lui era entrato nella casa il successo. Crebbe in un’atmosfera satura di grandi idee, di grandi visioni, di grandi aspirazioni, che si allargava man a mano che la sua intelligenza si apriva. A dodici anni Leo incominciò ad ascoltare, silenzioso ma attento e comprensivo, le discussioni che letterati, pensatori e uomini di Stato illustri di tutti i paesi facevano col padre e con la madre. Il salotto paterno fu la sua prima scuola.
Fin dall’infanzia ci eravamo accorti che Leo era un bambino molto intelligente. A 9 anni aveva incominciato a scrivere delle poesie e a 12 dei drammi, in cui già c’era «qualche cosa»: un sentimento personale, dei bagliori, che facevano sperare. Ma fu verso i 16 anni che ci accorgemmo di poter sperare le più grandi cose. Musica, poesia, pittura, teatro, filosofia, politica — tutto capiva, tutto amava, a tutto si interessava! A vent’anni il suo dramma «Le Campagne senza Madonna» ebbe a Roma un grande successo e fu salutato da Tilgher come il primo dramma della nuova generazione. Descriveva con grande forza un urto di passioni semplici, in un quadro agreste pieno di dolce poesia. A ventiquattro anni compose quel suo saggio estetico «Leonardo o dell’Arte» che Valéry nella sua prefazione giudicò «uno di quegli studi con cui i filosofi conchiudono la loro vita». Sotto al poeta era fiorito in Leo un filosofo e un dialettico, appassionato per le astrazioni. Gli dicevo spesso ridendo che c’era in lui la stoffa di un teologo o che aveva del sangue di talmudista nelle vene; e il discutere con lui di questioni filosofiche era per me un esercizio piacevole ed utile. Fu così che nelle nostre passeggiate vespertine, andando ogni sera dall’Ulivello a Strada in Chianti a prendere la posta, vidi svilupparsi giorno per giorno come una pianta, le idee che ha esposte nel suo «Leonardo». Quella intelligenza giovanile — che si aggirava con tanta facilità e sicurezza in mezzo a difficoltà in cui tanti filosofi si erano perduti, che si rivelava a sè stessa, trovando ai problemi più ardui delle soluzioni così semplici, che tutti, si sarebbe detto, avrebbero dovuto trovare, ma alle quali nessuno aveva pensato — era per me una rivelazione gioiosa, che si rinnovava quasi ogni giorno. Ricordo la sera in cui, mentre tornavamo da Strada e ammiravamo assieme un meraviglioso tramonto che imporporava le nostre belle colline, mi espose l’ultima idea che gli era venuta, per risolvere il problema che da un secolo e mezzo affaccendava i filosofi e agitava le cattedre: in che sono diversi il bello di natura e il bello dell’arte. Aveva trovato una soluzione così semplice, così luminosa, così definitiva che pareva cosa da nulla.
Con lo sviluppo dell’intelligenza, l’anima sfolgorava. Leo è sfuggito a tutte le perversità e a lutti i traviamenti della giovinezza. C’era in lui qualche cosa di angelico: non trovo altra parola per esprimere quel non so che di puro e di nobile, di allegro e di gentile, di dolce e di robusto, di cui l’anima sua riluceva. Non esagero, affermo una cosa che è vera alla lettera: non l’ho visto mai in collera. E non ho conosciuto un giovane più incapace di invidia e di rancore.
Un’incarnazione di Ariele. Ma che tempesta si è scatenata su questo fiore, proprio al momento in cui si apriva!
II.
Un caos di passioni, di delitti, di deliri ripugnanti, che pretendevano salvare la patria o rigenerare l’umanità; l’inferno scatenato sotto la pretesa di formule nobili; tutte le misure falsate; la legge che nell’ombra assoldava il delitto; la scienza, il diritto, la poesia, la religione, la filosofia, che scimmiottavano le urla e le convulsioni della follia, e si inchinavano a tutte le violenze — in questa tempesta Leo ha vissuto dai quindici anni in poi, dopo la fine della guerra mondiale. Ariele era cascato in mezzo ai mostri!
Il mondo non sa ancora che tragedia sia stata per l’Italia la guerra mondiale. Lo saprà, come sempre, quando sarà troppo tardi. È per questo che non è facile per uno straniero di capire il dramma di Leo, di un’anima angelica, condannata a svilupparsi nell’inferno.
Dapprima la sua naturale gaiezza, il suo fervore vitale, il suo candore resistettero al nembo infernale. «Le Campagne senza Madonna», un altro dramma «La Chioma di Berenice», un certo numero di saggi sulla letteratura italiana, «Leonardo», «La Palingenesi di Roma», furono scritti nel primo tempo del grande disordine. In queste opere, la gioconda serenità della sua giovinezza non ha ancora subito alcun oscuramento. Era così lontano dal prevedere quello che stava per avvenire, che aveva deciso di dedicare la sua attività a rinnovare la letteratura e l’arte in Italia, a persuadere la nuova generazione che occorreva stabilire «una tradizione». I suoi studi sulla letteratura italiana s’inspirano tutti all’idea di questa grande riforma. Il successo del resto incoraggiava allora i suoi tentativi. La critica, come ho già detto, aveva salutato le sue «Campagne senza Madonna», rappresentate a Roma nel 1924 — egli aveva 21 anno — non come «promessa» ma come una affermazione già matura della nuova generazione. Pirandello lo chiamò a far parte del «Teatro dei Dodici» un’associazione di drammaturghi che doveva rinnovare il teatro italiano. Entrò in rapporti con J. J. Bernard, con Baty e la «Chimère» per preparare una specie di alleanza tra i teatri di avanguardia dei due paesi. Giornali e riviste italiane gli offrivano le loro colonne e gli articoli di letteratura e d’arte che pubblicava erano segnalati, riprodotti e discussi con simpatia.
«Quella era l’epoca dei grandi progetti», scriverà più tardi nei suoi «Carnets». — «Io facevo allora dei piani... credevo nella loro riuscita...» Ma come sfuggire allo scatenamento di tanti fanatismi, tutti a freddo, intenzionali, interessati, intrattabili, poiché non erano che la maschera dell’odio, della cupidigia, dell’ambizione; e quindi tutti d’una malafede così totale, che non si curavano nemmeno di nasconderla? A poco a poco Leo si vide circondato dalle fiamme. Che fare? Non si ribellò subito; si sforzò dapprima di non rompere, pur senza smentirsi, coi fanatismi che almeno non erano lordi di sangue: primo riscatto dei privilegi che avevano fiorita la sua infanzia.
Leo era un’anima forte nella sua dolcezza. Accettò questa prima prova senza lagnarsi. Ma la prova diveniva più crudele man mano che egli si fortificava resistendo. Un giorno, alla fine, il diabolico caos precipitò in un dispotismo ombroso, inquieto, incapace di sopportare la minima opposizione: i sorrisi dell’ironia come gli argomenti della dialettica e il disdegno dell’astensione. Leo vide questo dispotismo organizzarsi, riprendere nei musei degli orrori tutti gli strumenti d’oppressione di cui s’erano serviti la Contro-Riforma, il regime napoleonico, la Restaurazione per imbavagliare l’Italia; e dapprima colpire le idee, che a lui erano care, poi scagliarsi contro la sua famiglia, contro suo padre ed infine contro lui stesso.
La seconda prova incominciava.
III.
Incominciò allora il più atroce strazio della mia vita, dopo quello della sua morte.
Quando il dispotismo parve definitivamente imporsi, io non esitai neppure un attimo, quanto a me ed al mio dovere. Penso che oggi uno scrittore non è che il più miserabile dei simoniaci, se non serve il vero almeno con probità. Noi viviamo in un’epoca in cui chi maneggia una penna può dimostrare tutto quello che vuole, poiché nessuno è tenuto più a giudicare nulla secondo un principio superiore e obbligatorio. Filosofi, giuristi, storici, poeti, romanzieri, giornalisti possono oggi giustificare tutto, anche il delitto; condannare tutto, anche la santità: basta che scelgano come unità di misura il principio che giustificherà le conclusioni alle quali vogliono arrivare. E Dio sa se la nostra epoca abusa di questa facilità, per sbiancare il nero e annerire il bianco!
Ma lo scrittore che cambia la unità di misura per giudicare il mondo, ogni qualvolta la Ricchezza, la Folla, il Potere lo esigono, non è che un miserabile mercenario dello spirito.
Molti deplorano oggi che nell’epoca più colta della storia nessuna autorità spirituale sussista più. Si dimentica che la «scienza» non basta a stabilire un’autorità spirituale; che occorre pure «la coscienza». L’autorità di decidere ciò che è vero e ciò che è falso, ciò che è bene e ciò che è male, può essere riconosciuta soltanto a coloro che sono pronti a provare la verità, in cui dicono di credere, non solamente scrivendo libri, ma soffrendo. «Martire» non significa che «testimone». Il «martire» è il «testimone della verità», non coll’inchiostro o la parola, ma col dolore ed il sacrificio. Ed io avrei dovuto mettermi in contraddizione con la mia opera di trenta anni, infliggere a me stesso la più umiliante smentita, lodare ciò che avevo combattuto, combattere ciò che avevo lodato perchè il potere aveva cambiato di mano in seguito a un oscuro intrigo di palazzo? No, mai. Ma non tardai ad accorgermi che non ero solo nella lotta. Delle lettere anonime mi avvertirono. Esse dicevano, in sostanza: «noi non possiamo fare gran che contro di te, lo sappiamo, ma ci vendicheremo su tuo figlio, egli sarà l’ostaggio».
La congiura del silenzio, che la Contro-Riforma inventò per spegnere in Italia, dal sedicesimo al diciottesimo secolo ogni fiamma di pensiero è impotente contro una fama già fatta; ma può soffocare un giovane che ha bisogno di farsi conoscere. Al momento in cui stava per avviarsi, Leo vide sbarrate innanzi a sè tutte le strade: giornali, riviste, editori, teatri, sale di conferenze. Non s’è mai lagnato, ma ha atrocemente sofferto. Un’ombra di tristezza silenziosa avvolse e oscurò la sua giovinezza così felice fino ad allora; e l’ombra più o meno densa, secondo i momenti, non si è mai più dissipata, fino all’ultimo giorno. E per me cominciò il tormento delle notti insonni. Avevo il diritto di sacrificarlo? Di lasciare Calibano strozzare Ariele? Dovevo pagare le mie gioie di padre con una palinodia, che avrebbe svalutata tutta la mia opera?
Un giorno, stanco di lottare con me stesso, imaginai una transazione. Dissi a Leo che noi dovevamo lottare contro un nemico che era in quel momento più forte di noi, ma che non sarebbe stato eterno. Occorreva guadagnar tempo. Leo aveva pubblicati i suoi primi articoli con uno pseudonimo, per discrezione: poiché non la sua persona, nè il suo ingegno, ma soltanto il suo nome era perseguitato, perchè non riprendere quello pseudonimo aspettando tempi migliori? Sarei stato molto contento se Leo avesse accettato la mia proposta. Lo vedo ancora — lo vedrò fino all’ultimo istante della mia vita, come se fosse oggi: senza esitare un secondo, tranquillamente, come se si trattasse della più insignificante delle questioni — e rischiava il suo avvenire su quelle parole — mi rispose:
«Ho avuto finora tutti i vantaggi del nome che porto. Non voglio sottrarmi ad alcuno dei suoi inconvenienti, se ce ne sono».
Ma l’asfissia procedeva implacabile. Per quanto forte e fiera fosse quest’anima delicata, ad un certo punto non ne potè più. Un giorno mi disse che non vedeva che uno scampo: rifugiarsi a Parigi, diventare scrittore francese. Una seconda volta l’amore dei suoi genitori fu straziato dall’atroce alternativa di due pericoli ugualmente spaventosi. Sapeva Leo che prova affrontava? Ma quale altro scampo gli restava per sfuggire alla diabolica soffocazione? Così una mattina del mese di ottobre del 1928, all’Ulivello, Leo venne ad abbracciarmi nel mio letto e partì per Parigi. Non sapevo quando avrei potuto rivederlo, perchè non avevo passaporto e non avrei osato dirgli di ritornare. Avevamo dovuto mettere in moto influenze potenti per ottenere che gli permettessero di uscire d’Italia.
IV.
Giunto a Parigi, appena stabilitosi nello studio di Rue Lhomond, scrisse «Angelica». La scrisse verso la fine del 1928 o il principio del 1929, rapidamente in poche settimane, ma la pensava da molti anni. Sua madre trovò fra le sue carte di liceista un dramma, «L’illusione della potenza», in cui già il genio del bene e il genio del male erano alle prese. Il dramma «Quando gli uomini sognano», a cui lavorò dal ’24 al ’26, era dapprima intitolato «L’idealista», e molte delle idee espresse da Orlando al Reggente si trovano in alcune pagine del suo diario del ’24. Ora dal giornale che pubblichiamo in questo volume, si vede che è dalla discussione fra Orlando e il Reggente che Leo prese le mosse per concepire «Angelica» (nella prima versione si intitola «Don Chisciotte»). Le esperienze degli anni in cui il dispotismo si organizzava, le resistenze, di cui fu testimonio e i loro effetti, maturarono, precisarono, ramificarono la prima idea. Parecchie delle scene di «Angelica» sono tracciate già quasi alla lettera in questo diario.
Ma il ’26-’27 fu un anno di troppo intenso lavoro perchè Leo potesse dedicarsi ad «Angelica». Abbandonata nel giugno ’27 la tesi già cominciata su Dante, nella speranza di poter restare in Italia come critico d’arte, ne aveva cominciata una su Leonardo che doveva consegnare all’Università in ottobre. D’altro lato era impossibile scrivere un dramma come «Angelica» sotto un governo tirannico, spiati come eravamo e sotto la minaccia continua di perquisizioni e di confino. Prima di lasciare l’Ulivello per Parigi, aveva accennato a un dramma che aveva ideato, in parte fantastico, in parte reale, nel quale avrebbe introdotte le maschere della commedia italiana modernizzate. Nelle prime lettere da Parigi ci fece qualche vaga allusione al dramma che stava scrivendo «per sfogare», questa la frase che adoperò — me ne ricordo benissimo — il dolore della compressione e dell’esilio. Sfogato il dolore, scritto il dramma, lo lesse a qualche amico e non ci pensò più. Doveva raccogliere le sue forze per la nuova prova che lo attendeva.
Parigi, Parigi, città mito nella immaginazione dei lontani! — Fortunato Leo! Ecco, ora vive a Parigi! — dicevano i suoi amici italiani. Sinceramente, lo credevano tutti l’uomo più felice del mondo. Ma i genitori tremavano per lui. Parigi aveva accolto con generosa cordialità il giovane esiliato. Gentile, pieno di humour, colto, avido di affetti, seppe farsi ben volere anche a Parigi, come in tutti i luoghi dove era passato.
Senonchè Leo non era andato a Parigi per cercarvi un festoso rifugio; ci era andato per lavorare e creare. Ma mutar lingua e patria a ventisei anni, che cimento per uno scrittore, in un’epoca in cui le passioni nazionali si abbarbicano come liane a tutte le attività dello spirito! Leo aveva potuto decidersi a valicare le Alpi spirituali che separano la Francia dall’Italia, più aspre ed erte che le terrestri, perchè non sentiva il suo genio legato ad una formula strettamente nazionale. Aspirava a creare un’opera di valore universale, in cui la poesia darebbe anima e forma a una filosofia originale della vita. Ma in un paese, in cui era soltanto un ospite simpatico, il compito era anche più difficile che in Italia, dove avrebbe potuto far valere i suoi diritti di figlio. Doveva impadronirsi della nuova lingua e farne il suo strumento letterario. Doveva adattarsi al nuovo ambiente senza rompere i legami col suo paese, a cui pensava sempre e dove sperava di tornare. E occorreva risolvere questa specie di quadratura del circolo vivendo a Parigi, con mezzi modesti, in una situazione di pericoloso privilegio.
Parigi è un oceano; e come l’oceano inghiotte spesso coloro che ne affrontano i flutti. Non c’è città al mondo dove la frivolezza e l’eroismo, il vizio e la virtù, la depravazione e la santità, il sibaritismo e l’ascetismo, l’effimero e l’eterno, il convenzionale e l’assoluto, il brutto e il bello, le peggiori tentazioni ed i migliori esempi si mescolino e si azzuffino in un caos, meglio equilibrato dal furore di una lotta incessante, che ricomincia sempre e non finisce mai. Non c’è città in cui sia più facile di vivere, se si vuole, al di là delle contingenze, sull’orlo dell’assoluto, assorti nell’eterno; ma in cui sia necessaria maggiore energia per lottare contro la mobile voracità della moda, contro la pigrizia tirannica delle convenzioni, contro gli allettamenti fallaci dell’effimero: piaceri e successo.
Che tormento era per noi — per sua madre e per me — laggiù a l’Ulivello, il pensiero di Leo lontano, solo, nella immensa città, alle prese con un compito così diffìcile; solo, poiché i nuovi amici che egli attirava a sè, non potevano nè capire la prova in cui era impegnato, nè aiutarlo a superarla. Egli lottava con la tranquilla e tenace energia della sua dolcezza e benché soffrisse molto, non dimenticò mai, mentre noi eravamo quasi prigionieri all’Ulivello, di consolare ogni giorno la nostra solitudine con delle lettere affettuose e gaie. Il primo risultato di questa lotta fu il libro su Parigi.
«Paris, dernier modèle de l’Occident» non è come tanti altri libri su Parigi una lanterna magica di impressioni e di descrizioni; è un libro costruito. Suo padre e sua madre sanno che sforzo è costato, con quale minuzia è stato elaborato, attraverso quali alternative di entusiasmo e di scoraggiamento fu concepito, scritto, corretto, demolito e rifuso.
Perchè Leo si affaticò per due anni su questa prosa agile, leggera imaginosa, luminosa? Egli voleva impadronirsi della lingua, che doveva diventare lo strumento letterario del suo esilio. Voleva scoprire le cause, che hanno generato il disordine della civiltà occidentale. Voleva trovare il rimedio al male che tormentava il suo paese. Che cosa ha cercato nel disordine oceanico di Parigi, dove si può trovare ogni cosa? Il modello limitato ma preciso di un mondo ordinato, di un cosmos. Leo era un anima gentile e uno spirito geometrico, che aveva bisogno dell’ordine e che era caduto in un caos. La sua passione per S. Tomaso, che aumentava con l’età, è una manifestazione di questo bisogno d’ordine. Ma in Parigi non cercò solamente il piccolo modello del grande «cosmo»; vi cercò anche quell’equilibrio di forze contrarie garantito dalla libertà, che avrebbe dovuto sostituire un giorno, anche in Italia, il monopolio tirannico di una forza unica, destinata a perire nella sua sterile solitudine, dopo aver annientato tutte le forze rivali. In fondo a questa contemplazione di Parigi, c’è una apologia della libertà.
Tale era il piano del libro al quale Leo lavorò due anni. Il piano era molto audace e mise a dura prova le forze del giovane scrittore; ma nella misura in cui poteva essere attuato, Leo trionfò degli ostacoli. Egli aveva provato a se stesso di poter essere uno scrittore francese, aveva tratto dal caos un primo modello d’ordine, ancora imperfetto, che se non dominava il caos totalmente, lo dominava in parte, con la forza della libertà. Mentre attendeva al suo «Paris», moltiplicava le letture in tutte le direzioni; studiava le filosofie e le religioni dell’Oriente; si concedeva di quando in quando delle vacanze per visitare l’Europa. Di queste letture, riflessioni e viaggi, resta una specie di turbine che gira attorno ad un asse aereo; note, frammenti, pensieri, più o meno raggruppati attorno ad una dottrina generale della vita, che cominciava a organizzarsi nel suo spirito. Questo turbine doveva passare nella sua opera letteraria, cristallizzarsi in scene, in personaggi, in tipi viventi.
Leo si proponeva di incominciare con un romanzo ciclico, che raccontasse la storia di un gruppo di personaggi dalla loro prima giovinezza fino all’età matura, prima della guerra e poi pel fascismo. I tempi di disordine rivelano gli uomini.
Aveva concepito il piano di questo ciclo tra il 1931 ed il 1932; e l’aveva finito nel settembre del 1932, quando partì per completare la sua preparazione spirituale con un ultimo viaggio attorno al mondo.
In America, a New Haven, dove si fermò sei mesi, scrisse il primo volume. Un gruppo di adolescenti e di giovani dai quindici ai ventidue anni è sorpreso a Firenze, nel 1915, dall’uragano della guerra mondiale; è il loro primo affacciarsi alla vita: il dramma psicologico della giovinezza, l’aspirazione all’amore, l’effervescenza dei sensi, i sogni dell’avvenire, le prime disillusioni. Sullo sfondo — il grande tumulto armato del mondo, che incomincia. Nei romanzi seguenti gli adolescenti sarebbero divenuti degli uomini, in mezzo al grande tumulto.
Tale era l’affresco, di larghe dimensioni e brulicante di figure, che egli desiderava dipingere al suo ritorno. Contava di stabilirsi in campagna e di lavorare intensamente. A New Haven aveva molto letto, meditato e conosciuto giovani studiosi di tutti i paesi. La cultura e l’umanità dei Cinesi e degli Indiani gli avevano fatto la più grande impressione. Le lettere, sopratutto quelle scritte dal Messico, dove era andato nel giugno del ’33, esprimevano la gioia dei risultati ottenuti e dei progetti che si precisavano nella sua mente.
Uscito vittorioso dalla prima prova dell’esilio, s’accingeva a raccogliere finalmente i primi frutti del suo sforzo e del suo sacrificio. Fra qualche giorno si sarebbe imbarcato per il Giappone e per la Cina! All’improvviso il 26 Agosto, un telegramma ci annunziò che tutto era finito, in un istante. Era stato invitato ad una gita in automobile nei dintorni di Santa Fè, da una signora che aveva per lui grande ammirazione. Un’ora prima egli le aveva detto: «la morte non è una tragedia, tragedia è talvolta la vita quando è guasta e insozzata». Durante la gita parlava del suo romanzo e della scena che più lo preoccupava, la morte di uno dei suoi personaggi. A un certo punto, si volge alla signora e le domanda: «Qual’è, secondo lei, l’ultimo pensiero di un morente?». In quell’istante avvenne il cozzo; ed il suo spirito volò verso l’infinito.
V.
Il 22 settembre la salma arrivò a Ginevra. Un amico, che aveva accompagnato i resti mortali da Parigi, e che noi avevamo pregato di prendere in Rue Lhomond le carte di Leo, ci consegnò il manoscritto di «Angelica». Il 23 lo seppellimmo nel meraviglioso cimitero di Plainpalais, ai piedi di un albero secolare, a pochi metri dalla tomba di Calvino. La notte seguente lessi «Angelica»... Come potrei esprimere quel che il mio povero cuore sentì quella notte, quando morso dalla disperazione di aver perduto, lui, il figlio incomparabile, lo ritrovai a un tratto più ancora che vivo, immortale nello spirito, in quelle pagine?
L’opera che leggevo era forse un dramma qualunque destinato a distrarre la sera un pubblico stanco dalle preoccupazioni quotidiane? No, no: era un poema fantastico, dalla struttura aerea, che ricordava Shakespeare, Musset, Aristofane; un poema che nel giro di una commedia di tre atti racchiudeva ed evocava sotto tutti gli aspetti in un succedersi di situazioni, azioni e personaggi simbolici, niente meno che il più grande dramma della storia: la lotta dell’uomo per la conquista della libertà.
Ho detto: «sotto tutti gli aspetti». Che raffigurano ed esprimono le scene tumultuose di questo breve poema, i personaggi che sono ad un tempo simboli ed esseri viventi, le frasi lapidarie, che sembrano sgorgare da una fonte inesauribile?
Raffigurano ed esprimono le debolezze, gli egoismi, le ciarlatanerie, i sofismi, le mistificazioni, con cui il dispotismo s’impone alla complice debolezza delle sue vittime.
Raffigurano ed esprimono le tappe successive della liberazione: la solitudine atroce della resistenza che nasce in alcune coscienze superiori simbolizzate in Orlando; le diffidenze che circondano paurose chi resiste; il coraggio, la perseveranza, lo spirito di sacrificio necessari a scuotere il senso morale intorpidito dagli schiavi; l’esplosione d’entusiasmo sincero che scuote le folle, quando la tirannide incomincia a vacillare; tutta la tragicommedia dell’uomo che nella lotta per la sua libertà si rivela ancora una volta un essere contradditorio, un mostro angelico, un bruto sublime.
Raffigurano ed esprimono la perversione aggressiva del maschio che si inebria ad opprimere; e quella passiva della donna che si compiace di essere oppressa: due facce dell’eterna contraddizione nella quale è il nodo centrale dell’immane problema. La perversione aggressiva è rappresentata dal Reggente, la passiva da Angelica, la figura più enigmatica del dramma, la più profonda ed in pari tempo la più simbolica e la più reale.
Raffigurano ed esprimono, infine — ed in ciò credo stia la grande originalità del poema — la ricaduta nella schiavitù, nella quale tutte le liberazioni rischiano di terminare, se i liberati non sono ancora degni della libertà; le illusioni, gli egoismi, le passioni malvage che rendono così difficile agli uomini il rispettarsi reciprocamente e il riconoscere che ciascuno ha diritto a proprie aspirazioni. Per quale ragione è una donna che uccide il liberatore?
Il dramma è completo. È per questo che si cercherebbe invano l’entusiasmo romantico dell’89, del ’48 e della letteratura della prima metà del XIXo secolo. La libertà non è più la trasfigurazione magica del destino dell’uomo, compiuta nell’entusiasmo di un istante. Reso maturo dalle esperienze di un secolo, il giovane poeta canta la libertà, quale sarà per l’umanità di domani: un’ascensione superiore ma dolorosa della storia, di cui l’uomo non diventa degno che dominando l’amore di se stesso; una vittoria eccelsa ma che costa cara, dell’angelo sul mostro, dell’essere sublime sul bruto.
Tale è la conclusione luminosa e velata di questo dramma che sembra non averne alcuna. Non è il dramma della delusione stanca e senza speranza, ma del dolore eroico. Ho detto che più ancora che un dramma, è un poema. Ma è più ancora: è un grido dell’umanità, il primo grido di dolore di un’immensa prova che comincia. La Rivoluzione francese non fu che il primo prologo, breve, confuso, romantico, della lotta dell’uomo per la libertà. Spaventata e affascinata, l’Europa si affrettò a chiudere il prologo troppo tempestoso venendo a una transazione con il vecchio regime La transazione fu ingegnosa; diede ai popoli che l’hanno conclusa mezzo secolo di felicità; ma era fragile e valeva solo per una frazione dell’umanità; la guerra mondiale l’ha distrutta. Non c’è ormai che un piccolo gruppo di popoli che possono dirsi liberi; ma anche questi trascinano la loro libertà come una catena di forzati e non se ne servono che per screditarla o maledirla. Saranno inghiottiti nel disordine universale di un’epoca, costretta a superare un passo arduo e pericoloso: uscire dall’epoca in cui l’uomo era sufficientemente difeso contro la tirannide dell’uomo, dalla sua debolezza, dalla sua timidezza, dall’attaccamento alle tradizioni, dalla superstizione dell’autorità e da Dio in cui credeva ancora. Entrare nei tempi in cui l’uomo dovrà difendersi con una saggezza e una morale superiori contro la tirannia dell’uomo, servita da tutte le forze della natura e da tutti i deliri dello spirito scatenato. I Moloch del passato non sono stati che mostri inoffensivi, in paragone degli stati onnipotenti, stupidi e feroci che sorgono oggi nel mondo. I popoli dell’Occidente fatui ed orgogliosi che si credevano già liberi, si accorgeranno un giorno non lontano di essere i più miserabili schiavi della terra. Il problema della libertà che credevano risolto è stato appena posto, e dovrà esser risoluto.
Donde è venuta a questo poeta di ventisei anni l’ispirazione di questo poema quasi profetico, che non si riattacca alle altre opere che ha lasciato al quale nessuno dei libri che avrebbe scritto, se fosse vissuto, si sarebbe probabilmente avvicinato; che non ha nè fratelli nè cugini nella famiglia letteraria? Giovanissimo, Leo fu coinvolto da una concatenazione misteriosa di eventi, nelle prime scaramucce di questa lotta che occuperà per secoli la storia; ne sofferse, e dal suo dolore, dalle sue vicende, dal suo esilio ha cavato questo poema. Giovane aedo, si è lanciato all’inizio della battaglia, cantando l’inno di guerra. Non è caduto in battaglia; gli Dei l’hanno rapito in una nube nel folto della mischia.... Ma sofferse per la libertà; per la sua libertà, per la libertà dei suoi, per la libertà della sua patria, per la libertà; degli uomini e del mondo. Sentì confondersi il suo dolore ed il suo destino con una delle più gigantesche tragedie della storia. Vide, attraverso le sue vicende personali, il dramma universale, e potè — a ventisei anni — esprimere uno dei momenti più tragici della coscienza umana in lotta col suo destino. Sarà in ciò la grandezza della sua breve esistenza.
Noi — sua madre, suo padre, sua sorella — l’amammo teneramente. Egli ci contraccambiò con uguale intensità. È difficile, credo, immaginare una unione più perfetta degli animi in una maggiore differenza di temperamenti. Ciò che ci univa era il sentir di dover compiere insieme, ciascuno nella propria sfera e coi propri mezzi, l’opera comune; di essere votati tutti assieme a quest’opera come ad un supremo dovere. Questo spiega come egli non abbia esitato un istante ad arrischiare tutto il suo avvenire nella lotta per la libertà, nella quale suo padre, seguendo il proprio destino, lo aveva coinvolto. Egli sentì fin dal primo momento il dovere comune; accettò la lotta con tutti i suoi pericoli; e ne trasse questo poema che appartiene a lui solo, ma in cui i suoi genitori si ritrovano piangenti, disperati e fieri. Leo avrà fra non molto, ne sono sicuro, con questo piccolo libro postumo, il più disinteressato e il più puro dei trionfi.
La gloriosa legione dei secoli futuri, gli eroi e i martiri futuri, attingeranno in questo dramma un po’ della loro forza e delle loro ispirazioni. La voce d’Orlando morente e le lacrime della popolana sul suo corpo sosterranno i cuori gagliardi e le anime nobili nelle grandi prove che si avvicinano.
VI.
Tutto è stato straordinario, unico, inesplicabile in questo essere misterioso: i doni di cui fu colmato e le difficoltà che dovette affrontare; le fortune che gli arrisero e le sventure che lo colpirono; le avventure e l’opera; la vita e la morte. La sua vita e la sua opera sono un mistero come la sua morte. Perchè questo essere meraviglioso è stato ucciso da uno chauffeur ubbriaco.
Questo mistero è stato per trent’anni la nostra ineffabile gioia. Ci sprofonda oggi — sua madre, suo padre, sua sorella — in un dolore inesprimibile. Fissiamo gli occhi pieni di lagrime su questo mistero, che ci lascia intravedere dietro a sè qualche luce soprannaturale, di cui speriamo di avere un giorno la chiave. Perchè, o la vita non ha alcun senso, o bisogna dire che egli è scomparso perchè era già maturo per un’esistenza superiore a quella che avrebbe vissuto quaggiù — malgrado o a ragione di queste qualità — prigioniero dello spazio, del tempo, della materia, di tutte le miserie alle quali l’umanità è incatenata. Era venuto con un messaggio per gli uomini; la parte essenziale di questo messaggio è in questo poema; compiuta la sua missione egli è partito.
Addio. O arrivederci, Leo!
ANGELICA
Non bisogna mai dire: “questo sforzo
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Dal Diario di Leo - 1924.
- ↑ Vedi Gina Lombroso: «Lo Sboccio Di Una Vita». Note su Leo Ferrero-Lombroso dalla nascita ai venti anni. Nuove Edizioni di Capolago-Lugano. In questo libro la madre ha raccolto le note che essa aveva tenuto sul figlio, le poesie che egli aveva scritto prima dei anni, i principi secondo i quali l’aveva educato, la testimonianza degli amici che conobbero Leo nell’esilio.