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introduzione xxi


V.

Il 22 settembre la salma arrivò a Ginevra. Un amico, che aveva accompagnato i resti mortali da Parigi, e che noi avevamo pregato di prendere in Rue Lhomond le carte di Leo, ci consegnò il manoscritto di «Angelica». Il 23 lo seppellimmo nel meraviglioso cimitero di Plainpalais, ai piedi di un albero secolare, a pochi metri dalla tomba di Calvino. La notte seguente lessi «Angelica»... Come potrei esprimere quel che il mio povero cuore sentì quella notte, quando morso dalla disperazione di aver perduto, lui, il figlio incomparabile, lo ritrovai a un tratto più ancora che vivo, immortale nello spirito, in quelle pagine?

L’opera che leggevo era forse un dramma qualunque destinato a distrarre la sera un pubblico stanco dalle preoccupazioni quotidiane? No, no: era un poema fantastico, dalla struttura aerea, che ricordava Shakespeare, Musset, Aristofane; un poema che nel giro di una commedia di tre atti racchiudeva ed evocava sotto tutti gli aspetti in un succedersi di situazioni, azioni e personaggi simbolici, niente meno che il più grande dramma della storia: la lotta dell’uomo per la conquista della libertà.

Ho detto: «sotto tutti gli aspetti». Che raffigurano ed esprimono le scene tumultuose di questo breve poema, i personaggi che sono ad un tempo simboli ed esseri viventi, le frasi lapidarie, che sembrano sgorgare da una fonte inesauribile?

Raffigurano ed esprimono le debolezze, gli egoismi, le ciarlatanerie, i sofismi, le mistificazioni,