Alle porte d'Italia/Dal bastione Malicy
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DAL BASTIONE MALICY
Ecco perchè finisco il libro sul bastione Malicy. Il giardino della villa Accusani copre per l’appunto il terrapieno dell’antico bastione Malicy dov’era una delle più grandi fonderie della Francia, e il muro alto che lo sostiene è ancora quello della fortezza di Luigi XIV. A un’estremità di questo muro c’è una finta facciata di castello, dalla quale sporge un terrazzino, che dà sull’aperta campagna. Di lì si vede, a destra, l’imboccatura della valle del Lemina, di fronte, quella della valle del Chisone, più in là a sinistra, quelle delle valli di Luserna, del Po e della Varaita, e al di sopra di un mezzo cerchio di colli e di monti floridi, le alpi Cozie, dominate dal Monviso, il quale par piccolo, come sogliono i grandi a chi li avvicina. Sotto al terrazzo, alle falde del colle di San Maurizio, ci son due poderi di due sorelle, la morte e la guerra: da una parte il cimitero, dall’altra la piazza d’armi, e in mezzo, fiancheggiata dalle ultime case sparse di Pinerolo, passa la strada diritta che conduce a Perosa e a Fenestrelle, attraversando il bel villaggio dell’Abbadia. Più lontano si vede San Secondo, al piede d’un monte, e nel piano, la rocca di Cavour. Un paesaggio vasto, vario, fresco, che sale, trasformandosi gradatamente, dal sorriso verde dei campi e dei giardini, alla maestà bianca e celeste delle più alte montagne d’Italia. Fu quella bellezza che mi fece scrivere. Non si direbbe; ma è della bella natura come delle belle donne, che fanno commettere delle corbellerie. Composi quasi tutto il mio libro sul bastione Malicy: per questo ce lo finisco. Non ci ho quasi colpa; ci fui forzato. Vadano a picchiar dei pugni nel bastione, i critici.
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Ci passai tante belle ore, solo e tranquillo, a meditare dei capolavori che non farò mai e a fabbricarmi delle ville che non avranno mai fondamenta! È vero che anche là, qualche volta, m’arrivano delle amarezze e delle noie, in busta e sotto fascia, suggellate e raccomandate, con francobolli di tutte le forme e di tutti i colori. Ma che volete? Non attaccano. Il vento se le porta via, insieme a tutte quelle piccole teste multicolori di re, di imperatori e di presidenti di repubbliche, che dopo avere un po’ volteggiato per aria, si vanno a posar sui pampini del vignetto di sotto. E poi, ho delle cose ben più importanti da pensare, la mattina per tempo, quando m’avvio al terrazzo con la posta sotto il braccio. Ci sarà o non ci sarà il Monviso stamani? Sarà tutto ammantato, o solamente incoronato, o avrà le spalle coperte e il capo nudo? Con che grillo si sarà levata sua maestà? A che ora potrò riverire il Cornour, il Frioland, il Servin, e le altre eccellenze canute? Che spettacolo avremo a Corte quest’oggi? Il terrazzo è chiuso da una porta. Alle volte, apro la porta del paradiso: è uno splendore immenso di verde, di azzurro, di neve, di sole, e come l’effetto d’un prodigio, che abbia spinto le Alpi innanzi di dieci miglia. Altre volte, è un malumore universale, una musoneria così chiusa e cocciuta, che lascio subito ogni speranza: non mi attento neanche a domandare il più piccolo favore. Certe altre mattine, invece, è una mutabilità di umore, un via vai di nuvoloni, un errare incerto di fiocchi bianchi e di grandi veli grigi lacerati, un lavorìo, un fare e disfare inquieto e faticoso, col quale mi sembra che la natura risponda alla mia domanda: — Non so.... vedremo.... sto cercando.... vede bene che non sto con le mani in mano.... Ripassi fra un’ora. — Ma io resto là, appunto per veder le prove, coi gomiti sulla ringhiera del mio palchetto, fino all’ultima scena del quint’atto, in cui tutto viene in chiaro e s’aggiusta.
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Sotto il terrazzo passa una stradetta, fiancheggiata da un muricciolo, la quale forcheggia in quel punto: un ramo va giù verso il cimitero, l’altro discende, nascondendosi quasi subito, per il fianco del colle di San Maurizio, fino a Pinerolo. Il bivio forma come una terrazza, da cui si vede la pianura e le montagne. Per questo passan di lì, salendo e scendendo, quasi tutti i pinerolesi peripatetici, che fanno il giro del colle verso sera. Anche ai tempi della fortezza, ci doveva correre una strada, o un sentiero, un po’ più lontano, prediletto dagli amanti dell’aria libera, che facevan delle passeggiate extra muros. Ecco, per esempio, è un gran divertimento, per me, nelle lunghe ore che passo là, veder venire innanzi i giovani fratelli Bochiardi, Paolo e Antonino, stretti a braccetto, tutti e due grandi e belli, che concertano a bassa voce il viaggio da Pinerolo al Corno d’oro, dove difenderanno eroicamente la porta d’Adrianopoli contro l’esercito del secondo Maometto; e poi scendere lentamente, tenendosi su la tonaca di domenicano, e fantasticando forse qualche nuova birberia da affibbiare a Zanni di Bergamo, quel capo ameno di Matteo Bandello; e dietro di lui, un’amazzone snella e ardita, la contessa Ortensia di Piossasco, ancora tutta trionfante d’aver salvato la città dalla scalata notturna dei soldati del Lesdiguières; e poco dopo, una cavalcata pomposa dello stato maggiore del cardinale Richelieu, e una frotta d’ufficiali cappelluti del Direttorio, e una folla d’italiani d’ogni provincia, i nostri bei volontari di cavalleria del cinquantanove, che passano declamando i versi del Berchet e di Gabriele Rossetti.... L’ultimo è sempre il generale Brignone, grigio e curvo, con quell’aria di sant’uomo; che passa solo solo, a passi brevi e stanchi, meditando sulle sue battaglie e sulle sue sventure.
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La mattina, peraltro, c’è quasi sempre vita nel piano. Nella piazza d’armi galoppano rumorosamente, lampeggiando, dei drappelli di lancieri, comandati dagli ufficiali della Scuola; ci son non so dove (vicino al camposanto, mi pare) i trombettieri del distretto che s’esercitano a straziare gli orecchi e le anime; e dal cortile d’una caserma, in cui vedo dentro, vengon su sonore e distinte le voci dei soldati che rispondono all’appello su cento tuoni, come una tastiera di cembalo picchiata a caso da un bimbo. Intanto vien giù per la strada di Fenestrelle un gran tintinnio di sonagli, un armento dietro l’altro, dei torrenti enormi di lana, che traboccano nei fossi, e par che minaccin d’allagare la campagna; scendon file di carri carichi di lastre del Malanaggio; sull’aie vicine si batte il grano coi correggiati; arriva il tranvai di Perosa, sbuffando; il Lemina brontola, e qua e là in mezzo ai campi fumano, come tede gigantesche, gli altissimi camini rossi delle officine. Qualche volta, in quell’ora, passa là sotto fra gli alberi, per la strada bassa del cimitero, un feretro, seguito da molta gente con le candele accese; e allora fa un contrasto stranamente drammatico quel mormorio lamentevole di preghiere, che vuol dire: — Tutto è finito, — con quei nitriti violenti, con quelle grida giovanili d’ufficiali, per cui la vita incomincia: — Aaaaavanti! Caaaaricate! — grida alle quali tien dietro la pesta precipitosa di cento cavalli sfrenati.
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Poi seguon dell’ore di silenzio e di solitudine, e allora il mio spettacolo preferito è una casetta rustica, lì accanto, abitata da una piccola famiglia: una vecchia vedova, che fa la lattaia; un suo figliuolo, che lavora da muratore; la moglie del figliuolo, che fa la balia, e una ragazzetta, figliola della vecchia. Tutto il loro avere è un pezzetto di prato e un par di vacche. Campan di nulla, e paion contenti. La sposa è una trovatella, presa bambina dalla lattaia, e allevata da lei. Il figliuolo se ne innamorò e la volle. L’adorano tutti. È allegra, canta dalla mattina alla sera, col suo bacherozzolo in braccio. Io tengo dietro a tutte le loro faccende e conosco tutte le loro abitudini. Quando ritorna dal lavoro, il figliuolo conduce le vacche nel prato, e così, per spasso, gira il braccio intorno al collo ora all’una ora all’altra, mentre è chinata che pascola, le arrovescia la testa in su, e la bacia nel muso amorosamente. Sull’imbrunire, mangiano una minestra, seduti davanti all’uscio. Dopo cena, gli sposi fanno una passeggiata di trenta passi, fino al bivio, dove rimangon un po’ di tempo appoggiati al muro, a guardare i monti. Rincasano; brilla un lume a una finestrina per un quarto d’ora; poi si spegne, e tutto è finito. E così tutti i giorni, e tutto l’anno. E io provo un piacere, una commozione di fanciullo, a raffigurarmi cento volte un vecchio milionario malato, che va a bussare una sera a quella porta con una carta della Maternità fra le mani, ed entra in quella casa; e sento un grido: — mio padre! — e uno scoppio di pianto, e il rumore d’una caduta, e voci confuse di meraviglia e di gioia, e il frullo dell’ali della pace che vola via da quel nido per sempre....
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Quel gran silenzio della mattina, qualche volta, è rotto da molte voci insolite, dai discorsi di un gruppo d’amici, venuti di lontano, che discutono concitatamente per dimenticare una colezione infelice; e quelle mattine si spandono dal terrazzo per la campagna, come uccellacci esotici portati là in una gabbia, le più bizzarre frasi del mondo, delle parole d’una lingua misteriosa e sinistra, che fanno correre un fremito per le fibre dei gelsi vicini.... — ....ma quell’animazione antropomorfa che s’infiltra per tutti i meati del mondo zolesco.... — ....no, tu confondi coi piccoli omotteri della famiglia dei coccidi che si trovan negl’internodii delle piante monoiche.... — dice che l’anima dell’individuo, entrando per opera dell’amor platonico negli ordini operativi, partecipa alla vita universale della psiche cosmica e si congiunge col Logo.... — ....sai che interessa interiormente l’estremità posteriore delle tre circonvoluzioni tempono-sferoidali e una parte della porzione posteriore della circonvoluzione parietale inferiore.... — Ed è un ridere allora a vedere lo stupore profondo delle due vacche della lattaia, e l’aria triste d’incredulità con cui scrollan la testa, come per dire col Manzoni: — Neghiamo tutto e non proponiamo nulla....
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Appena c’è un po’ d’ombra, s’ammucchia lì sotto tutta la spazzatura di bimbi del vicinato. È un altro spettacolo che non darei per molte commedie in cinque atti. Oramai li conosco quasi tutti, quei tometti. C’è dei bei ragazzi, cresciuti all’aria forte di San Maurizio, che arrivano a gran passi, abbambinando fra le gambe larghe i fratellini d’un anno; delle cecine alte tanto da terra, che portano in collo dei bofficioni, con delle faccie come melanzane; e poi dei mangiapagnotte di tutte le misure, delle pance tonde, delle vere palle di cavolfiore, dei minuzzoli che si reggono appena, dei così lunghi che si poppano il dito grosso, col cappello a sghimbescio, una bretella sola, la giacchetta tutt’occhi, i calzoncini a bracaloni, le calze a giambardella, le scarpe a ciabatta, e la camicina che sboccia di dietro. Povere mamme! che canaglia! Bisogna vederli, come si svoltolano nella polvere e strascicano il sedere sui sassi e struscian la pancia sul muricciolo, tutti in riga, col capo spenzolato in fuori e la coda di tela per aria, giocando a chi sputa più lontano. E stan li delle mezz’ore, a contrattare il baratto d’un bottone, d’un chiodo, d’un osso di pesca, d’un cencino rosso, facendo un chiocchiolìo interminabile per ogni uccello e per ogni cane che passa, finchè delle voci minacciose li chiaman per nome di lontano; e allora si sparpaglian tutti ciabattando, ranchettando e ballonzolando, fuorchè uno o due, le anime perse della compagnia, ribelli a ogni legge umana e divina; i quali rimangono appoggiati al muro in atteggiamento affettato di noncuranza, succhiando i mozziconi dei miei virginia.
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Più tardi passano delle coppie d’amanti rustici; delle ragazze tozzotte, con due tendoni di capelli lustri appiccicati alle tempie, e con un nastrino di velluto nero intorno al collo; dei giovani col cappello a cencio e coi calzoni alla francese. Quando arrivan lì, credon sempre di esser soli. Guardano bene intorno, molte volte; ma, poveri giovani! al solito non si ricordan mai di guardare in alto. E poi che si può vedere, con quegli occhi in solluchero? Le teste si chinano sulle spalle, le braccia girano intorno alle vite.... e il fotografo, dal terrazzo, conta i minuti secondi. Qualche volta c’è degl’indiscreti, e allora le ragazze piegano indietro il busto tutto d’un pezzo, come popattole spezzate alla cintura, e ributtano i nasi temerarii con dei colpi di ventaglio da cavare il sangue; e i battuti si vendicano azzeccando dei pizzicotti da intaccar la pelle ai rinoceronti. Poi s’acquetano, e s’appoggiano al muricciolo; discorrono lungamente; la ragazza con gli occhi bassi, facendo scorrere tra le dita l’orlo del grembiale nero; lui, coi gomiti appuntati, in atto d’adorazione; e s’indovina dalle risa dell’uno e dall’occhiate di rimprovero e dai rossori dell’altra, le scioccherie grasse e i complimentacci impertinenti.... coi quali ricomincian gli assalti e le ventagliate.... fin che la ragazza alza gli occhi al terrazzo; e allora restan là, due statue di sale, in un atteggiamento così miserevole, che mi sento preso da paterna pietà, e rientro rapidamente nel mio casotto, come un grosso automa d’orologio.
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Passano anche delle coppie coniugali, borghesi, belline; per metà, s’intende; e scordan quasi tutte, anche queste, di guardarsi dal bastione di Malicy. Una signora fa quattro passi di polka; un’altra si stacca dal braccio del marito per contraffare l’andatura d’un’amica grassa. Sento dei frammenti di diverbio, delle botte e risposte secche, di quelle che fan fare i lucciconi alla signora, e mangiare il sigaro all’altro. — Hai torto, hai torto, hai torto. — Oppure: — Questa non la spunti, sai, Giorgetta! Tientelo a mente. — Delle coppie vanno per un tratto divise, l’uno a destra e l’altro a sinistra della strada, sbadigliando, e guardando da due parti opposte, con tutta l’aria d’esser mortalmente seccati del settimo sacramento; e poi, all’improvviso, sentendo dei passi davanti o di dietro, si avvicinano in fretta, e si parlano, sorridendo da buoni amici, per salvare il decoro del cuore. Delle signore si fermano qualche volta per richiudere un orecchino che scappa, o stringere una cintura che si scioglie, o levare una pietruzza dalla scarpetta scollata. E sarebbe mandata da Dio quella pietra. Ma è un caso tristo: c’è sempre il marito davanti.... e son così opachi! Ma non importa, mi ci diverto; con qualche danno, peraltro; come la malaugurata sera di quel barbone, che riannodando il velo del cappello alla moglie, per di dietro, le stampò nella nuca un maledetto bacio, di cui sentii fra capo e collo il contraccolpo, come un pugno ben assestato di boxeur inglese.
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Passano dei solitarii, e non son quelli che mi diverton meno. Li so già tutti a memoria, quasi. So che a quell’ora precisa vedrò spuntare il tale e il tale altro: degli ufficiali pensionati, degli impiegati in riposo, dei convalescenti che fan la salita tutti i giorni, per ordine del medico; dei “benestanti„ larghi e lenti, che vengon su con lo stecco in bocca, con le mani strette dietro la schiena, guardando qua e là con un sorriso vago, e andando a cercare i ciottoli per buttarli da parte col piede: desiderabili segni di quelle chilificazioni soavissime, che si fanno soltanto nelle città piccole, dopo una giornata di lavoro tranquillo. C’è un vecchio prete mingherlino che passa ogni sera alle sette e tre quarti, tira a destra per la strada del camposanto, ripassa sotto il terrazzo alle otto e mezzo, col breviario aperto fra le mani, senza mai alzar gli occhi, senza mai cambiare il passo, senza soffermarsi mai un secondo; e fa quella passeggiatina in quel modo da più di trent’anni. Un vecchio signore panciuto passa costantemente con la canna ritta contro il braccio destro, e il panama infilato nella canna. Un altro piglia infallibilmente la sua presa di tabacco nel momento che passa accanto a un tiglio che ombreggia la strada. E io mi diverto a indovinare le altre abitudini di quei buoni signori, i pasti regolati appuntino, quelle ore di sonno sacramentali, l’aborrimento profondo di certe salse, certe fissazioni strane invincibili in fatto d’igiene, la fascia di lana intorno alla vita, la piccola cantina scelta pei casi di malattie, e la piccola farmacia di casa, rifornita a tempo con grande cura. E sporgendo il capo indolenzito e stanco dallo scribacchiamento di tutto il giorno, li seguito tutti fin che spariscono, con un sospiro d’invidia.
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Verso sera, passan pure dei soldati, che vanno a spasso per la campagna, quasi sempre a due a due. Sento degli accenti napoletani, siciliani, toscani, lombardi. Alcuni cantano. C’è un toscano che solfeggia dove vai, dove vai, ricciolina, deliziosamente, e molto bene accompagnato da un tappetto di fantaccino che dimena le spalle alla becera. Discorrono delle loro faccende: la consegna, la riparazione alle scarpe, il nuovo orario, la arne attiva, u capurale, quel bagolon d’un furée.... — Qualche volta esprimono dei sentimenti d’ammirazione per delle signore incontrate poco prima. — Chilla è bona! — Ah! che bonbonin! — Ce ne passan degli scompagnati, che si fermano a piluccare le more delle siepi con una ghiottoneria di bambini. Corron dietro alle lucertole, si chinano a frucar coi fuscelli nei formicai. Son capaci di perdere un’ora a cercare un uccello di cui sentono il verso dentro a un cespuglio o tra i rami d’un albero, grondando di sudore a forza di girare, di accoccolarsi, di torcersi come le biscie. Scendon giù verso i campi, tornano indietro con dei mazzi di fiori selvatici infilati nella tunica, felici di poter far quattro passi fuor delle scatole, col cinturino sulla spalla e con le mani nelle tasche, aspirando gli odori dei prati e dell’aie, dove son nati e cresciuti. E qualcheduno si volta a guardare in su, con una espressione di curiosità amichevole, che mi compensa di un mese di rompimenti.
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A una cert’ora, ci ho un altro spettacolo: vedo risalire per la strada di val di Lemina dei gruppi di vecchi e di vecchie del vicino Ricovero, vestiti di rigatino grigio, che ritornan dalla passeggiata. Poveri vecchi! Passando sotto il terrazzo, quelli che possono, alzano il viso; e allora posso dire anch’io che “quaranta secoli mi contemplano.„ Par che tornino da una battaglia. Vengono prima gli uomini, delle facce d’arancie seccate sopra le caminiere, dei corpi segaligni, nodosi come le calocchie, dei nani sbilenchi che paiono usciti di sotto un torchio, delle anime lunghe che spenzolano da tutte le parti, delle figure bizzarre, in cui non si raccapezza più la fisonomia, e rammentano i famosi struldbruggs di Laputa, condannati alla decrepitudine eterna, nel libro del Gulliver; delle andature che presentano insieme tutti i ciondolii e tutti i tentennamenti d’un mazzo di marionette tenuto dalla mano d’un paralitico. Quanto trista e maligna è la natura a imporci insieme a quel modo l’ilarità e la compassione! Poi vengon le povere donne, dei cubi, delle piramidi equilatere, delle esse, degli otto, dei visi pelosi e infunghiti; fra i quali pure si riconoscono degli occhi pieni di benevolenza e di dolcezza, che esprimono ancora un amore lieto della vita, e promettono ancora delle buone azioni, dei piccoli sacrifizi utili a qualcheduno. Ma chi mi dà a pensare più di tutti è uno sbilungone tutto rotto, vecchio come il primo topo, con una barba che pare un granatino sudicio, una faccia buffa, che dev’essere il bell’umore della compagnia, che racconta sempre qualche cosa, con una voce di trombone affiochito, degli aneddoti lepidi, da quanto sembra, perchè provoca intorno delle risate faticose, degli scotimenti di gobbe, degli accessi di tosse, dei milioni di rughe, uno scombussolio da mandare per il medico. Che cosa diavolo dice? È una curiosità che mi tormenta. Deve ancora raccontare degli aneddoti lubrici, quel mummione, delle avventure del 1820, chi sa che birbonate.... e che finezze! Qualche parola m’arriva; ma il senso mi scappa, e mi ci danno.
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Passano alle volte delle squadre di collegiali coi berretti rigati d’oro, in due file, accompagnati dall’assistente; i primi, piccoli, d’otto o dieci anni, gli ultimi sulla quindicina, beati di essere all’aperto, e di aspirare quell’aria a sorsate come un vino generoso; passano allargando e allungando le file, voltandosi da tutte le parti, parlando tutti insieme, con una gradazione ascendente di forza vocale, dalle note femminee della prima ginnasiale ai vocioni velati del liceo, disputando a tre a tre, a quattro a quattro, e spandendo per la strada delle regole di grammatica latina, degli enunciati di teoremi, delle risate, dei nomi storici, dei trilli, dei calcoli di ventesimi, confusamente, con quella mimica sbracciata e angolosa degli scolari, che somiglia un po’ alla gesticolazione delle marionette. Ah! quanto è lontano quel tempo.... che è tanto vicino!... Ci ritrovo delle teste ricciute di antichi miei compagni di scuola in quelle file, ci riconosco delle voci di venticinque anni fa, dei gesti che mi ricordano mille cose. Ma non c’è mica da fidarsi a star sul terrazzo mentre passano, perchè si può dare il caso, come una sera, che i primi discutano del miglior modo d’acchiappare le mosche, e quei di mezzo tacciano, e gli ultimi ragionino ad alta voce, e senz’alcun sospetto, di colui che pende, non visto, sul loro capo; e, certo, può accadere di sentirsi dire delle cose gradevoli, ma si corre anche il rischio....
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Altre volte, dopo una mezz’ora di silenzio, sento un bisbiglio di voci armoniose, e vedo a traverso ai rami degli alberi una confusione variopinta di penne, di fiori, d’ombrellini, di veli; tre o quattro famiglie affollate; delle ragazze di dieci anni, delle signorine di venti, delle signore di trenta, la scala vivente del paradiso, che vien su. E fanno un bel quadro, per alcuni minuti, tutti quei visi rosei sul fondo verde delle viti e delle acacie, e le calzine bianche fra l’erba; e un po’ più in qua, i cappellini vermigli e rosati che spiccano sull’azzurro delle montagne; e anche più vicino gli occhi celesti che scintillano sotto le ciglia nere. E a proposito, com’è il sangue di Pinerolo? Non saprei che dire. Tra il sangue di Torino e quello di Pinerolo non c’è che un’ora di strada ferrata. Arrotondate un po’ più le spalle e colorite un po’ più le guancie.... Intanto le signore son lì sotto; la fatica della salita fa ondulare i seni, l’aria dei monti agita i capelli sulle tempie, e le braccia che si alzano a ravviarli mostrano i contorni graziosi e la pelle bianca.... Ma è la visione d’un momento. Il mormorio armonioso s’allontana, ì veli e le ombrelline si rinascondon fra gli alberi, e non resta più che un po’ di profumo nell’aria e qualche orma di piedino sulla via.
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Poi passano delle coppie d’amici, a molta distanza l’una dall’altra, lentamente, parlando forte, in modo ch’io sento le parole prima di vedere i visi, e raccolgo dei brani di discorsi curiosi, tagliati poi d’un colpo, o continuati con un abbassamento improvviso di voce, quando la coppia arriva in vista dell’osservatorio. — .... Capisce! — dice una voce ribombante che s’avvicina, — mi siringa trecento quaranta lire di ricchezza mobile! E io li schiaffo lì per lì tanto di ricorso, dimostrando come e qualmente.... — Scompariscono: non sento più nulla. Dopo cinque minuti, una voce lenta e placida che espone una biografia: — .... in seconde nozze la signorina Gloriocci, figlia di primo letto del commendator Gloriocci, ch’era capo divisione agl’interni nel 1860; dimodochè egli venne ad essere cognato della contessa Vespretti, precisamente l’anno dopo che s’era separata dal marito per il famoso scandalo col capitano.... — Passano, succede un lungo silenzio, e poi una voce stridula e concitata: — .... a parlar di calunnie e d’intrighi, birbone che non è altro! Con che diritto? Con quali prove? Come ha tanta faccia di accusare gli altri dopo quella birbonata del settantasette? Come non capisce che un giorno o l’altro.... — Poi daccapo una voce grassa e pacata: — .... in un involto di carta, oppure dentro a un pezzo di tela, e lo mette in pentola: ma senz’acqua, badi! e deve cuocere in quattro o cinque ore, a sola bragia, per effetto dei vapori che si svolgono, e che restan lì chiusi: lei mangierà il miglior lesso che sia mai stato assaggiato al mondo dacchè si parla di mangiare e di bere....
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E tutti si fermano un minuto al muricciolo ad ammirare il tramonto. Quando tutta la pianura è già nell’ombra turchina della sera, scendono ancora per la valle del Chisone, per la valle di Luserna e per la valle del Po, come per tre immense finestre, dei fasci di luce calda, che rischiarano tre lunghissime striscie di campagna, indorando case, boschi e torrenti. I monti bassi son già quasi neri; i monti alti d’un azzurro cupo; le montagne altissime ancora chiare, d’un azzurrino limpido, unito e dolce come l’acqua della grotta di Capri; e tutte ornate a ponente di tante mantelline di seta rosea tempestate di gemme e di stelle d’oro. Poi tutte queste mantelline s’accorciano, si stringono, si riducono a una collana, non son più che un diamante, svaniscono. Ultimo resta ancora il Monviso sotto la larga carezza del sole. E il sole lo accarezza, — lo tocca, — lo lambe, — lo abbandona. E allora tutta l’enorme catena bruna si intaglia violentemente nel cielo, e lo squarcia e lo morde coi suoi mille archi acuti e con le sue mille piramidi, disegnando nel fuoco una delle più belle e più formidabili immagini di grandezza che sian mai balenate alla mente umana.
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A quell’ora i contadini tornan dal lavoro e i ragazzi e le vaccaie dai pascoli. Da tutte le parti mi arrivan dei canti all’orecchio; quei canti dei contadini piemontesi, così strani e tristi, cantati a voce altissima, e strascicati con un lungo sforzo, come per farsi sentire a grandissime distanze, e rotti da certi trilli gutturali, fiorettati di certi vezzi, direi quasi, violenti, che fan soffermare per la viottola il cittadino che passa, offeso nell’orecchio, e pure curioso di risentirli. Alcune voci mi suonano vicine, delle voci femminili, piene e poderose, che mi fanno immaginare delle grandi ragazze con la bocca squarciata e col seno ansante; altre più vicine, di cui distinguo le parole, una voce tremula, una canzone patetica, che comincia l’America è grande l’Italia è piccolina, e dice d’un mazzetto di fiori che sarà portato a traverso all’Oceano; altre, lontanissime, delle voci lunghe e dolenti, simili alle cantilene dei marinai e alle grida degli spazzacamini, le quali s’avvicinano, si allontanano, muoiono, e poi tornano a suonar più lontano; e pare che tutte quelle voci si chiamino e si rispondano di qua e di là dal Lemina, e dalla pianura alle colline; grida d’amore tradito, sospiri di miserie senza speranze, addii a soldati lontani, e implorazioni di soccorso: cento voci, la grande voce diffusa e stanca della campagna che si lamenta delle fatiche mal compensate, dei balzelli, della leva, delle guerre, e invoca il sonno consolatore.
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Tutt’a un tratto, un vento impetuoso che vien dall’Alpi disperde tutte quelle voci. E allora, davanti a me, comincia la grande sommossa della folla verde, agitata da mille idee e da mille passioni contrarie. È un rimescolio di tempesta: delle dispute appassionate di tigli che s’insultano; delle denegazioni rabbiose di gelsi offesi che gridano; no — no — mai, mai in eterno; — degli atti disperati e convulsi di acacie atterrite; degl’impeti di furore di pioppi che si curvano per far violenza ad alberelle sottili, le quali si arrovesciano e si divincolano; e delle piccole mischie feroci d’alberelli che s’odiano, e più in là un tentennio lento di grandi alberi saggi che disapprovano tutto quel sottosopra. A poco a poco, tutto si queta. Poi, da capo, come al soppraggiungere improvviso d’una mala notizia, un nuovo scoppio d’ira e di dolore, uno scatenamento di proteste e d’imprecazioni, una disperazione, un dimenìo, un non volersi dar pace, un tumulto di moltitudine minacciante, la quale pure, a grado a grado, si rabbonisce, abbassa le braccia e la voce, si lascia quasi persuadere, s’acqueta a certe condizioni, facendo ancora dei segni di dubbio, con un mormorio leggero di malcontento, per non parer troppo facile a contentarsi. Quand’ecco, giunge un telegramma che smentisce tutto.... e allora scoppia formidabilmente, per non più placarsi nè interrompersi, la rivoluzione sociale.
⁂
Allora, solo sul terrazzo, nell’oscurità che sale, flagellato dal vento, come sul cassero d’un naviglio, mi godo tutto quel fragore d’uragano, pieno di grida, di sibili, di gemiti, di parole dolorose, che mi suonano all’orecchio come susurrate da spettri invisibili che mi passino accanto di volo. Il fragore viene a ondate: sono urrà di Eugenio di Savoia che si slancia all’assalto di Santa Brigida, urli dei prigionieri del Saint-Mars flagellati, pianti dei fanciulli astigiani sepolti nella torre degli Acaja, rantoli di cavorresi sgozzati sulla rocca; e poi, dopo un breve mormorio sordo e come compresso, ecco, la marchesa di Spigno scoppia in singhiozzi, i Valdesi cantano i salmi della vittoria sulle vette d’Angrogna, i cannoni della Varaita tuonano, gli emigranti mandano l’ultimo addio alla patria, trentamila grida di gioia salutano il vincitore di San Quintino; tutto il passato si ridesta e mi parla; tutti quei benedetti dolori, tutte quelle sante gioie, tutta quella grande storia di sangue, di fuoco e di pianto, alla quale io debbo la mia soddisfazione di quel momento: la soddisfazione d’un italiano libero, che contempla i confini della sua patria libera, sul finire d’una giornata operosa, nella quale scrivendo, ricevendo saluti d’amici lontani, e scorrendo giornali e libri d’ogni provincia, è vissuto un poco in tutte col pensiero e col cuore, e ha come sentito sulla fronte il grande alito caldo della Madre comune.
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Intanto, s’è fatto notte; le finestre delle officine e delle caserme, giù nel piano, son tutte accese, e qua e là, per i campi e sulle colline, brillano pochi lumi, come occhi infiammati, che battan le palpebre, sul punto di chiudersi al sonno. Allora, in quella oscurità fitta, in cui le falde dei monti scompaiono, par che tutta la campagna vastissima salga, e sia già falda delle Alpi; e le Alpi nere appaiono immense sul cielo grigio, come le onde d’un mare prodigioso che sì sia levato per sommergere il mondo, e rimanga immobile lassù, minacciando. Quelli sono i momenti in cui mi sento più incatenato ad ammirarle, poichè non c’è più nulla sulla terra che distolga da loro gli occhi o il pensiero. E le guardo, le adoro, le chiamo madri di soldati di ferro e sorgenti eterne di poesia e di salute, terribili, bellissime e buone, nostra alterezza, nostro amore, e nostra forza. E starei chi sa quanto a parlar con loro, se a un certo momento non mi sentissi quattro piccole mani sulle spalle e due voci leggiere negli orecchi, che mi domandano: — Ebbene, che cosa fai qui? A che cosa pensi? — A che cosa penso! Come ve lo posso dire? Penso a queste montagne che han visto tante cose, a questo angolo d’Italia dove si è tanto sofferto e combattuto, e ch’io vorrei far conoscere e amare da tutti, e che un giorno potreste esser chiamati a difendere, anche voi due, miei cari figliuoli. Voi non capite ancora queste cose; ma io scriverò un libro nel quale ci sarà tutto, perchè lo leggiate poi fra molti anni, in faccia alle Alpi; e lo intitolerò Alle porte d’Italia. — E provo un grande piacere allora a udir gridare quelle quattro parole da quelle due voci infantili, con un accento in cui si sente quasi un primo fremito inconsapevole del più grande degli affetti; e m’immagino tutta la loro generazione che le ripeta insieme a una voce, in un giorno di pericolo, dei milioni di voci confuse in un grido amoroso e tremendo, il quale passi sopra la patria come il soffio percursore della vittoria.
FINE.