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rughe, uno scombussolio da mandare per il medico. Che cosa diavolo dice? È una curiosità che mi tormenta. Deve ancora raccontare degli aneddoti lubrici, quel mummione, delle avventure del 1820, chi sa che birbonate.... e che finezze! Qualche parola m’arriva; ma il senso mi scappa, e mi ci danno.



Passano alle volte delle squadre di collegiali coi berretti rigati d’oro, in due file, accompagnati dall’assistente; i primi, piccoli, d’otto o dieci anni, gli ultimi sulla quindicina, beati di essere all’aperto, e di aspirare quell’aria a sorsate come un vino generoso; passano allargando e allungando le file, voltandosi da tutte le parti, parlando tutti insieme, con una gradazione ascendente di forza vocale, dalle note femminee della prima ginnasiale ai vocioni velati del liceo, disputando a tre a tre, a quattro a quattro, e spandendo per la strada delle regole di grammatica latina, degli enunciati di teoremi, delle risate, dei nomi storici, dei trilli, dei calcoli di ventesimi, confusamente, con quella mimica sbracciata e angolosa degli scolari, che somiglia un po’ alla gesticolazione delle marionette. Ah! quanto è lontano quel tempo.... che è tanto vicino!... Ci ritrovo delle teste ricciute di antichi miei compagni di scuola in quelle file, ci riconosco delle voci di venticinque anni fa, dei gesti che mi ricordano mille cose. Ma non c’è mica da fidarsi a star sul terrazzo