Alceste Seconda (Alfieri, 1947)/Atto secondo

Atto secondo

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ATTO SECONDO

SCENA PRIMA

Coro, Adméto.

Coro Ma, che vediam? fia vero? Adméto il passo

prospero e franco e frettoloso volge
ver noi! Stavasi dianzi ei moribondo,
ed or sí tosto?... Adméto, agli occhi nostri
crederem noi?
Adméto   Sí, donne; risanato
di corpo appieno in un istante io sono;
ma non di mente, no.
Coro   Che fia? tu giri
intorno intorno perturbato il guardo...
Adméto Ditemi, deh; la mia divina Alceste
dov’è? per tutto, invan la cerco.
Coro   In questo
limitar sacro della reggia, or dianzi
c’invitava ella ad alta voce; e tosto
poi c’imponea cantare inni devoti...
Adméto A Proserpina?
Coro   Sí. Balda frattanto
ella inoltrava in ver sue stanze il piede;
a prepararsi al sagrificio forse,
che quí apprestar c’impone.
Adméto   Itene ratte
su l’orme sue voi dunque: ite; fors’ella

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nel sacello d’Apolline devota

le rituali abluzíoni or compie:
deh, trovatela, ed oda ella da voi,
ch’io sano, eppur di tremito ripieno,
prostrato ai piè di questa fatal Dea,
aspettando lei stommi.


SCENA SECONDA

Adméto.

  Oimè! comanda

di quí apprestarle un sagrificio? — Ah! m’odi
Dea possenta d’Averno; o tu, ch’or dianzi
in suon feroce tanto me appellavi,
qual non dubbia tua vittima; deh, tosto,
ove pur mai questa recente orrenda
mia visíon, verace esser dovesse,
deh tu ripiglia questa fral mia spoglia.
A tai patti, io non vivo. Ecco, mi atterro
al simulacro tuo, d’atre corone
di funereo cipresso adorno all’uopo:
e t’invoco, e scongiuroti di darmi
ben mille morti pria, che non mai trarre
tal visíone al vero.


SCENA TERZA

Feréo, Adméto.

Feréo   A queste soglie

del caro figliuol mio sempre ritorno
ansíoso, tremante: eppur lontano
starne a lungo non posso. I feri detti,
della misera Alceste un solo istante
non mi lascian di tregua. Almen chiarirmi

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con gli occhi miei vogl’io, se giá risorto

dalle stancate sue fatali piume
sia il mio Adméto.
Adméto1   Adméto? Oh, chi mi appella?
Che veggo? oh ciel! tu padre?
Feréo   Al Ciel sia laude!
Verace almeno è il rinsanir tuo pieno:
e l’instantanea guisa onde l’avesti,
prodigíosa ell’è pur anco. Oh! dolce,
unico figlio mio, risorto al fine
ti riabbraccio! e di bel nuovo io posso
in te la speme mia, quella del regno,
e la speme di tutti, omai riporre.
Adméto Che parli tu di speme? Ah, no! me vedi
sano di aspetto forse, ma infelice
piú mille volte che di morte in grembo,
qual io mi stava or dianzi. Alto spavento,
non naturale al certo, di me tutto
s’indonna, o padre: ed i miei passi, e i detti,
e i pensieri, e i terrori, e l’agitata
attonit’alma, e il sospirar profondo;
tutto, (tu il vedi) accenna irsi cangiando
quel morbo rio mortifero di corpo
in nuova, e vie piú fera orrida assai,
egritudine d’animo.
Feréo   Dal pianto
io mi rattengo a stento. — Ah, figlio; hai dunque
vista Alceste, ed uditala...
Adméto   Per anco
vista non l’ho, da che pur io riveggo
con occhi omai non appannati in morte
questa luce del sole. In ogni parte
io della reggia al sorger mio trascorsi
per rintracciarla, e indarno: al fin le sue

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fide matrone, agli occhi miei quí occorse,

dentro inviai ver essa, e quí frattanto
aspettandola stavami. Deh, quante,
quante mai cose, Alceste mia narrarti
deggio, tremando! entro il tuo cor celeste
d’ogni mio affetto sfogo almen ritrovo:
in calma alquanto ritornar miei spirti,
(se v’ha chi il possa) il puoi tu sola.
Feréo   Oh cielo!
Misero figlio!... Ascoltami: or fia ’l meglio
un cotal poco rendere a quíete,
pria di vederla, i tuoi mal fermi ancora
troppo agitati sensi. In egre membra
quasi non cape una istantanea piena
salute: or forse vaneggiar ti fanno
le troppo a lungo infievolite fibre
del travagliato cerebro.
Adméto   Deh, fosse
pur vero, o padre! ma piú intera mai
del corpo in me non albergò salute,
di quella ch’or vi alberga: e in me pur tutte
nitide sento del pensier le posse,
quant’io mai le provassi. Ah! non vaneggio,
no, padre amato: ma il repente modo
ond’io risorsi; e la seguíta tosto
mia visíon palpabile tremenda,
avrian disturbo anco arrecato ad ogni
piú saldo e indomit’animo. — Sommerso,
ha poch’ore, in mortifero letargo
io giaceami; tu il sai. Gli occhi miei, gravi
di Stigia nebbia, nulla omai scernevano:
adombrata la mente, annichilati
presso che tutti i sensi, ov’io mi stessi,
né tra cui, nol sapea. Forse, in tal punto,
e dall’amante moglie e da’ miei fidi
un cotal poco a un apparente sonno

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lasciato in grembo, io rimaneami solo:

o il credo, almen; poiché niun ente al fianco
mi trovai nel risorgere. Ma intanto,
fra l’esistere e il no stavami, quando
piú ardente assai che di terrena fiamma,
raggio improvviso mi saetta, e a forza
gli occhi miei schiude. Ecco, il sovrano Iddio,
quel giá cotanto a noi propizio Apollo,
qual giá il vedemmo in questa reggia il giorno, †
che non piú a noi mortal pastor, ma eccelso
aperto Nume consentía mostrarsi:
tal egli s’era; e in suo splendor divino
al mio letto appressandosi, con lieve
atto celeste un’alma panacea
mirabile odorifera vitale
alle mie nari ei sottopone appena,
e la benigna sua destra ad un tempo
mi stende, e grida: Adméto, sorgi: i preghi
dei genitori e di tua rara sposa
sono esauditi: or, vivi. — E i detti, e il fatto,
e il mio guarire, e il suo sparir, son uno.
Dal letto io balzo giá: pien d’alta gioja,
ch’ogni voce mi toglie, ecco mi prostro
al Dio, che ancor della immortal sua luce
splendido un solco ergentesi nell’aure
si lasciava da tergo. Indi, nel cuore
il pensier primo che sorgeami, egli era
di abbracciar la mia Alceste; che mai niuna
gioja, cui seco non divida io tosto,
a me par gioja.
Feréo   Oh sacro Apollo! oh, vero
Nume di noi proteggitor sovrano!
L’alte promesse tue ben or ravviso,
che al tuo partir ne festi.
Adméto   Ma tu, padre,
il tutto ancora non udivi: alquanto

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sospendi ancora i voti tuoi. — Men giva

io dunque ratto della sposa in traccia;
quand’ecco, in su la soglia a me da fronte
appresentarsi in spaventevol forma
la Morte. In sul mio capo la tagliente
orrida falce ben tre volte e quattro
minacciosa brandisce; indi, con voce
di tuono irata: Adméto, grida, Adméto,
un prepotente Iddio per or t’invola
dalla non mai vincibil falce mia;
ma di me lieta riportar la palma,
nol creder tu. Vivrai, pur troppo: indarno
del Destino immutabile si attenta
romper Febo le leggi: or, sí, vivrai;
ma in tali angosce, che non mai vorresti
esser tu nato: il dí, ben mille volte
invocherai me fatta sorda allora
ai preghi tuoi, come finor tu il fosti
alle minacce mie, volente Apollo. —
Disse: ed un nembo di caligin atra
diffondendomi intorno, in un dirotto
pianto lasciommi semivivo. A stento
pria brancolando inoltromi per girne
fuor della reggia: e vieppiú sempre poscia,
quasi incalzato, io corro e non so dove:
Alceste chiamo, Alceste; ella non m’ode;
donne quí trovo, e un sagrificio intendo
apprestarsi a Proserpina: mi atterro
al simulacro suo: tremante stommi.
Che sperar? che temer? che dir? che farmi?...
Ah, padre! io son misero assai.
Feréo   Che deggio
pur dirgli?... oh cielo!... Ma, che veggo? Alceste?
Oh figlio! oh figlio!

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SCENA QUARTA

Alceste, Feréo, Adméto.

Alces.   Oh me felice! Adméto,

parte miglior dell’alma mia, tu vivi,
e sano sei quanto il mai fosti. I Numi
cel promisero giá; rendiamli or dunque
devote grazie; e i loro alti decreti,
quai ch’ei pur sieno, or veneriamo a gara.
Adméto Oh ciel! son questi, amata sposa, or questi
son gli atti, e i detti, che il tuo immenso amore
soli per me t’inspira, il dí ch’io riedo
a inaspettata vita? Egra ti veggio,
squallida il volto, addolorata il petto;
nel favellar, mal certa; e, non che un raggio
spunti di gioja in su l’ingenua fronte,
gli atri solchi vegg’io tra ciglio e ciglio
d’angoscia profondissima. Ahi me misero,
qual mi son dunque io mai, poiché da morte
scampato pur, prima a me stesso, e quindi
ai miei piú cari tutti espressa doglia,
non giá letizia, arreco? Ah, fien, pur troppo,
veraci fieno i miei terrori!
Alces.   Padre,
in questo nostro limitar pur anco
io non credea trovarti. Irne all’antica
misera madre del tuo Adméto, e mia,
e consolarla con la fausta nuova
del risanato figlio, il promettevi
a me tu stesso, or dianzi.
Feréo   Alceste, intendo
il tuo dire: la nuova io giá recava
alla consorte mia; ver essa or torno:
col tuo sposo ti lascio. Acqueta intanto

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nel tuo petto ogni dubbio: ah, no; non ebbi

l’ardir, né il cor di assumermi col figlio
niun de’ tuoi dritti sacrosanti.
Adméto   Or, quali
detti fra voi?...
Feréo   Chiari a te fieno, in breve:
me, figlio amato, rivedrai quí tosto.


SCENA QUINTA

Adméto, Alceste.

Adméto Ma, che fia mai? ciascun di voi quí veggo

del risanar mio ratto starsi afflitto,
quanto del morir mio pur dianzi il fosse?
Alces. Adméto, ognor venerator profondo
degl’Iddii, te conobbi...
Adméto   E il son, piú sempre;
or che dal divo Apollo in don sí espresso
la vita io m’ebbi. Ah, fida sposa, allora
dov’eri tu? perché non t’ebbi al fianco,
in quell’istante sí gradito, e a un tempo
a me tremendo e sovruman pur tanto?
Allo sparir del sanator mio Nume,
forse l’aspetto tuo mi avria del tutto
francata in un la mente: al reo fantasma,
che mi apparia poi tosto, ah tu sottratto
forse mi avresti!
Alces.   Oh sposo! io non t’avrei
per certo, ahi no, racconsolato allora,
come or neppure io ’l posso.
Adméto   E sia che vuolsi;
cessi al fine il mortifero silenzio
di tutti voi. Saper dai labri io voglio,
ciò che cogli atti e col tacer funesto
mi si va rivelando. Unica donna,

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sposa adorata mia, sa il Ciel s’io t’ami;

e se ragion null’altra omai mi fesse,
a paragon dell’amor tuo, la vita
bramare: con te sola, a me fia dolce
i di lei beni pochi e i guai pur tanti
ir dividendo. Ma giovommi or forse
scampar da morte, quando a me sul capo
una qualch’altra ria sventura ignota
mi si accenna pendente? Né tu stessa
negarmel’osi. Io raccapriccio; e udirla
voglio; e d’udirla, tremo.
Alces.   Adméto, in vita
restar tu dei: scritto è nei Fati. È sacra,
e necessaria la tua vita a entrambi
i tuoi cadenti genitori; a entrambi
i tuoi teneri figli; all’ampio regno;
ai tuoi Tessali tutti.
Adméto   Alceste, oh cielo!
E tutti, a cui fia d’uopo il viver mio,
fuorché te stessa, annoveri? Che miro?
E il mal represso pianto al fin prorompe
su la squallida guancia? e un fero tremito
la lingua e tutte le tue membra in guisa
spaventevole scuote!...
Alces.   Ah! non piú tempo
è di tacermi: un sí funesto arcano
fia impossibil celartelo; né udirlo,
fuorché da me, tu dei. Deh, pur potessi,
misera me! com’io la forza e ardire
di compier m’ebbi il sacrosanto mio
alto dover, deh pur cosí potessi
gli effetti rei dissimularten meglio!
Ma imperíosa, su i diritti suoi
rugge Natura: oimè! pur troppo io madre
sono: e tua sposa io fui...
Adméto   Qual detto?...

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Alces.   Ah, dirti

piú non poss’io, che il sono.
Adméto   Un mortal gelo
al cor mi è sceso. Oh ciel! non piú mia sposa
nomarti puoi?
Alces.   Son tua, ma per poch’ore...
Adméto Che fia? chi torti a me ardirebbe?
Alces.   I Numi;
quei, che giá mi ti diero. A lor giurato
ho il mio morir spontanea, per trarti
da morte. Il volle irrevocabil Fato.
Adméto Ahi dispietata, insana donna! e a morte
sottratto hai me, col dar te stessa a morte?
Due n’uccidesti a un colpo: ai figli nostri
tolto hai tu, cruda, i genitori entrambi,
e madre sei?
Alces.   Fui moglie anzi che madre:
e ai figli nostri anco minor fia danno,
l’esser di me pria che del padre orbati.
Adméto E ch’io a te sopravviva, o Alceste, il credi
possibil tu?
Alces.   Possibil tutto, ai Numi:
e a te il comandan essi. Or degg’io forse
ad obbedirli, a venerarli, o Adméto,
a te insegnar, che d’ogni pio sei norma?
Essi infermo ti vollero; essi, addurre
poscia in forse il tuo vivere; poi, darti
quasi vita seconda; e, di te in vece,
vittima aversi alcun tuo fido: ed essi
(dubitarne puoi tu?) me debil madre,
me sposa amante, al sagrificio eccelso
degli anni miei per gli anni tuoi guidaro
con invisibil mano, essi soltanto.
Adméto I Numi? ah, no: forse d’inferno i Numi...
Alces. Ch’osi tu dire, oimè! dal Ciel mi sento
spirare al core inesplicabil alto

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ardir, sovra l’umano. Ah, mai non fia

che il mio Adméto da me vincer si lasci
né in coraggio viril, né in piena e santa
obbedíenza al Cielo. A me, se caro
costi il morir, tu il pensa: e a te, ben veggo,
piú caro ancor forse avverrá che costi
il dover sopravvivermi. A vicenda
e a gara entrambi, per l’amor dei figli,
per la gloria del regno e l’util loro,
e per lasciar religíoso esemplo
di verace pietá, scegliemmo or noi,
l’un di morir, di sopravviver l’altro,
bench’orbo pur della metá piú cara
di se medesmo. Né smentir vorresti
tu i miei voti: né il puoi, s’anco il volessi.
Di tua ragione omai non è tua vita:
ei n’è solo signore il sommo Apollo,
ei che a te la serbava. E il di lui nume,
che spirto forse alle mie voci or fassi,
giá il veggo, in te muto un tremore infonde,
né replicarmi ardisci: e in me frattanto
vieppiú sempre insanabile serpeggia
la mortifera febbre.


SCENA SESTA

Coro, Alceste, Adméto.

Alces.   In tempo, o Donne,

voi quí giungete: alla custodia vostra
brevi momenti, infin ch’io rieda, or resti
quest’infelice: né voi, d’un sol passo
dal suo fianco scostatevi. M’è d’uopo
quí nel gran punto aver pur meco i figli:
con essi io torno; e quí starò poi sempre.

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STROFE I

Coro            Qual grazia mai funesta

     piovea dal Ciel su la magion d’Adméto,
     poich’ora al doppio mesta,
     dopo il sanato sposo,
     l’egregia figlia del gran Pelio resta?
     Ed ei fa intanto a ogni uom di se divieto,
     e in atto doloroso
     stassi immobile; e muto
     stassi, trafitto il cor da stral segreto:
     e par, piú che il morire, a lui penoso
     il riviver temuto.

ANTISTROFE I

           D’atra orribil procella

     l’impeto mugghia, e spaventevol onda
     ambo i fianchi flagella
     di alato nobil Pino,
     il cui futuro immenso corso abbella
     speme di altero varco a intatta sponda.
     Il pietoso Destino
     nol vuol de’ flutti preda:
     ma che pro’, se di onor quanto il circonda,
     vele, antenne, timone, ardir divino,
     tutto ei rapir si veda?

STROFE II

Coro            Tal è Adméto, cui tolto il morir era;

     ma non per questo ei vive,
     perch’or gli nieghi il fato morte intera.
     Uom, che nulla piú spera,
     non è fra i vivi, no: penna ei di vetro,
     che in adamante scrive,
     s’infrange ognora all’odíosa cote
     di sorte avversa, al cui feroce metro

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     nulla star contro puote.

     Sculto ha d’Adméto in fronte il duol che il preme,
     che in eterno è per lui morta ogni speme.

ANTISTROFE II

           O di Latona tu splendido figlio,

     Nume eccelso di Delo,
     se di Morte involasti al crudo artiglio,
     con un girar di ciglio,
     questo germe d’un sangue a te sí caro,
     al cui devoto zelo
     premio te stesso in pastorale ammanto
     giá concedevi nel tuo esiglio amaro;
     ah, perch’ei sempre in pianto
     vivesse poscia, ah no, tu nol salvasti:
     tragli or dunque ogni duol, tu ch’a ciò basti.


  1. Ergendo il capo dal suolo.