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atto secondo | 141 |
che il mio Adméto da me vincer si lasci
né in coraggio viril, né in piena e santa
obbedíenza al Cielo. A me, se caro
costi il morir, tu il pensa: e a te, ben veggo,
piú caro ancor forse avverrá che costi
il dover sopravvivermi. A vicenda
e a gara entrambi, per l’amor dei figli,
per la gloria del regno e l’util loro,
e per lasciar religíoso esemplo
di verace pietá, scegliemmo or noi,
l’un di morir, di sopravviver l’altro,
bench’orbo pur della metá piú cara
di se medesmo. Né smentir vorresti
tu i miei voti: né il puoi, s’anco il volessi.
Di tua ragione omai non è tua vita:
† ei n’è solo signore il sommo Apollo,
ei che a te la serbava. E il di lui nume,
che spirto forse alle mie voci or fassi,
giá il veggo, in te muto un tremore infonde,
né replicarmi ardisci: e in me frattanto
vieppiú sempre insanabile serpeggia
la mortifera febbre.
SCENA SESTA
Coro, Alceste, Adméto.
voi quí giungete: alla custodia vostra
brevi momenti, infin ch’io rieda, or resti
quest’infelice: né voi, d’un sol passo
dal suo fianco scostatevi. M’è d’uopo
quí nel gran punto aver pur meco i figli:
con essi io torno; e quí starò poi sempre.