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atto secondo 133
con gli occhi miei vogl’io, se giá risorto

dalle stancate sue fatali piume
sia il mio Adméto.
Adméto1   Adméto? Oh, chi mi appella?
Che veggo? oh ciel! tu padre?
Feréo   Al Ciel sia laude!
Verace almeno è il rinsanir tuo pieno:
e l’instantanea guisa onde l’avesti,
prodigíosa ell’è pur anco. Oh! dolce,
unico figlio mio, risorto al fine
ti riabbraccio! e di bel nuovo io posso
in te la speme mia, quella del regno,
e la speme di tutti, omai riporre.
Adméto Che parli tu di speme? Ah, no! me vedi
sano di aspetto forse, ma infelice
piú mille volte che di morte in grembo,
qual io mi stava or dianzi. Alto spavento,
non naturale al certo, di me tutto
s’indonna, o padre: ed i miei passi, e i detti,
e i pensieri, e i terrori, e l’agitata
attonit’alma, e il sospirar profondo;
tutto, (tu il vedi) accenna irsi cangiando
quel morbo rio mortifero di corpo
in nuova, e vie piú fera orrida assai,
egritudine d’animo.
Feréo   Dal pianto
io mi rattengo a stento. — Ah, figlio; hai dunque
vista Alceste, ed uditala...
Adméto   Per anco
vista non l’ho, da che pur io riveggo
con occhi omai non appannati in morte
questa luce del sole. In ogni parte
io della reggia al sorger mio trascorsi
per rintracciarla, e indarno: al fin le sue


  1. Ergendo il capo dal suolo.