fide matrone, agli occhi miei quí occorse,
dentro inviai ver essa, e quí frattanto
aspettandola stavami. Deh, quante,
quante mai cose, Alceste mia narrarti
deggio, tremando! entro il tuo cor celeste
d’ogni mio affetto sfogo almen ritrovo:
in calma alquanto ritornar miei spirti,
(se v’ha chi il possa) il puoi tu sola.
Feréo Oh cielo!
Misero figlio!... Ascoltami: or fia ’l meglio
un cotal poco rendere a quíete,
pria di vederla, i tuoi mal fermi ancora
troppo agitati sensi. In egre membra
quasi non cape una istantanea piena
salute: or forse vaneggiar ti fanno
le troppo a lungo infievolite fibre
del travagliato cerebro.
Adméto Deh, fosse
pur vero, o padre! ma piú intera mai
del corpo in me non albergò salute,
di quella ch’or vi alberga: e in me pur tutte
nitide sento del pensier le posse,
quant’io mai le provassi. Ah! non vaneggio,
no, padre amato: ma il repente modo
ond’io risorsi; e la seguíta tosto
mia visíon palpabile tremenda,
avrian disturbo anco arrecato ad ogni
piú saldo e indomit’animo. — Sommerso,
ha poch’ore, in mortifero letargo
io giaceami; tu il sai. Gli occhi miei, gravi
di Stigia nebbia, nulla omai scernevano:
adombrata la mente, annichilati
presso che tutti i sensi, ov’io mi stessi,
né tra cui, nol sapea. Forse, in tal punto,
e dall’amante moglie e da’ miei fidi
un cotal poco a un apparente sonno