Alceste Seconda (Alfieri, 1947)/Atto primo
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ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Feréo.
palpitante, aspettando semivivo
stai dell’Oracol Delfico le note.
Chiaro faranti irremissibilmente,
se nel Destin sia scritto che tu debba
orbo restar dell’adorato Adméto,
unico figlio tuo. — Deh tu, di Cirra
Nume sovrano, a me benigno Apollo,
se di tua Deitade un dí degnasti
lieta pur far questa mia reggia, in cui
t’ebber pastore ignoto i nostri armenti;
se in guise tante di tua grazia eccelsa
abbellir me non degno ospite tuo
piacqueti allor; deh, risanato rendi
ad un cadente genitore il figlio,
che in sul bel fior degli anni suoi languisce
della tomba or su l’orlo! — Io piú non trovo
né sonno mai, né pace. Ecco, sparita
or ora è appena questa notte eterna,
cui precorse il mio sorgere. Né posso,
per piú sventura mia, l’acerbo duolo
sfogare intero di mia fida antiqua
consorte in seno: ah! troncherei d’un colpo
a lei svelassi l’imminente fine
del figlio unico nostro. Ella, dagli anni
affievolita, il piede omai non volge
fuor di sue regie stanze: onde finora,
in parte, il duol che tutta Fere ingombra,
è ignoto a lei. Ma il saprá pure! Ah, sola
tu mi rattieni in vita, egregia, amata
degli anni miei compagna! ov’io non fossi
necessario al tuo vivere, dai Numi
implorerei la morte mia, per torre
a Pluto Adméto... Ma, che veggio? Alceste
frettolosa ver me! Forse a lei prima
noto il risponder dell’Oracol era?
SCENA SECONDA
Alceste, Feréo.
o Re: la morte del tuo figlio omai
non ti avverrá di piangere.
Feréo Che ascolto!
Oh gioja! Apollo dunque?... Havvi una speme?...
Alces. Speme, a te, sí; vien dal fatidic’antro:
né di un sí fatto annunzio ad altri volli
ceder l’onor; dal labro mio dovevi
averlo tu.
Feréo Deh! dimmi; il figlio in vita
rimarrassi?
Alces. A te, vivo ei rimarrassi:
certezza n’abbi. Apollo il disse; e Alceste
tel ridice, e tel giura.
Feréo Oh detti! oh gioja,
vivo il tuo sposo!...
Alces. Ma perciò non fia
oggi la gioja.
Feréo E che? pianto esser puote,
dove Adméto risorge?... Oh ciel! che fia?
Tu, che tanto pur l’ami, udendol salvo,
e il fausto avviso a un disperato padre
or tu stessa arrecandone, di morte
tinte hai le guance? e al balenar repente
di un mezzo gaudio in su l’ingenua fronte,
succeder tosto in negro ammanto festi
un torbido silenzio? Ah, parla...
Alces. I Numi,
l’impreteribil norma loro anch’essi
hanno; e del Fato le tremende leggi
non si attentano infrangere. Non poco
donarti i Numi, or nel donarti Adméto.
Feréo Donna, or piú che i tuoi detti, il guardo e gli atti
raccapricciar mi fanno. E quai fien dunque,
ahi, quali i patti, a lato a cui funesta
dell’adorato Adméto tuo la vita
a noi riesca, ed a te stessa?
Alces. O padre,
se, col tacerl’io, restarti ignoto
l’atro arcano potesse, ah! nol sapresti,
se non compiuto il sagrificio pria:
ma udirlo, oimè! tu dei purtroppo; or dunque
da me tu l’odi.
Feréo Entro ogni fibra un fero
brivido giá scorrer mi fai: non sono
io genitor soltanto: affetti molti
squarcianmi a gara il core: egregia nuora,
io piú che figlia t’amo; amo i tuoi figli,
ambo i dolci nepoti, all’avo antico
speme immensa e diletto: e ognor piú sempre
dopo lustri ben dieci in cor mi avvampa
pura ed intera alta amichevol fiamma
Pensa or tu dunque in quali atroci angosce
stommi, aspettando i detti tuoi; cui veggo,
ah, sí, ben veggo che di augurio infausto
qualcun del sangue mio percuoter denno.
Alces. Furare a Morte i dritti suoi, né il ponno
anco i Celesti. Con le adunche mani
ella giá giá stava afferrando Adméto,
vittima illustre: Adméto, unico erede
del bel Tessalo regno: in sul vigore
della viril sua etade; appien felice
nella reggia; e dai sudditi, e dai chiari
suoi genitori, e dai vicini stati,
venerato, adorato: e che dir deggio
poi, dalla fida Alceste sua? tal preda
certa giá giá la insazíabil Morte
teneasi; Apollo or glie la toglie; un’altra
(pari non mai, che pari altra non havvi)
in di lui vece aver debb’ella: e questa
esser dee del suo sangue, o a lui di stretta
aderenza congiunta; e all’Orco andarne
spontaneo scambio, pel risorto Adméto.
Ecco a quai patti ei salvo fia.
Feréo Che ascolto!
Miseri noi! qual vittima?... chi fia
per se bastante?...
Alces. Il fero scambio, o padre,
è fatto giá. Presta è la preda; e indegna
non fia del tutto del serbato Adméto.
Né tu, il cui santo simulacro in questo
limitar sorge, o Dea magna d’Averno,
disdegnerai tal vittima.
Feréo Giá presta
è la vittima! oh cielo! ella è del nostro
sangue; e tu dianzi a me dicevi, o donna,
ch’io rasciugassi il pianto mio?...
e tel ridico, non dovrai tu il figlio
piangere; io pianger non dovrò il marito.
Salvo Adméto, lamento altro non puossi
udir quí omai, che di gran lunga agguagli
quel che apprestava il morir suo. D’un qualche
pianto, ma breve, e misto anco di gioja,
si onorerá la vittima scambiata
per la vita d’Adméto. Ai Numi inferni
la omai giurata irremissibil preda
spontanea, son io.
Feréo Che festi! oh cielo!
Che festi? e salvo l’infelice Adméto
credi a tal patto? Oh ciel! viver puot’egli
senza te mai? degli occhi suoi la luce
tu sei: tu, l’alma sua; tu, piú diletta
a lui, piú assai, che i suoi pur tanto amati
genitori; piú cara, che i suoi figli;
piú di se stesso, cara. Ah, no; non fia
ciò mai. Sul fior di tua beltade, o Alceste,
perir tu prima, per uccider poscia
non che il tuo sposo stesso, anco noi tutti
che t’adoriam qual figlia? Orba la reggia,
orbo fia ’l regno, ove tu manchi. E i figli,
pensastil tu? quei teneri tuoi figli,
che farian senza te? Tu, d’altri eredi
liete puoi far le Tessale contrade:
d’ogni gioja domestica tu fonte,
tu sei di Adméto la verace e prima
e sola vita. Ah, non morrai, tel giuro,
finché morir poss’io. Questo è, ben questo,
è il capo, cui tacitamente or chiede
l’Oracolo. Io, tronco arido omai,
quell’io mi son, che dee morir pel figlio.
Gli anni miei molti, e le speranze morte,
e il corso aringo, e la pietá di padre,
per giovin donna, di celesti doti
ricca pur tanto; ah! tutto omai scolpisce
in adamante il morir mio. Tu, vivi;
tel comanda Feréo; né mai l’amore
di giovinetta sposa fia che avanzi
di antico padre il generoso amore.
Alces. E l’alma tua sublime, e il vero immenso
affetto tuo di padre, a me ben noti
erano: e quindi, antivenirli io seppi.
Ma s’io prestai queta udíenza intera
ai detti tuoi, Feréo, vogli or tu pure
contraccambiar d’alto silenzio i miei;
cui tu, convinto appieno tosto, indarno
ribatter poi vorresti.
Feréo E che vuoi dirmi?
che udir poss’io? salvar davvero Adméto
io vo’: tu il perdi, con te stessa: all’are
io corro...
Alces. Arresta il piè: tardi v’andresti. †
Giá il mio giuro terribile dai cupi
suoi Regni udía Proserpina; ed accetto
anco l’ebb’ella indissolubilmente.
Secura in me del morir mio giá stommi,
cui nulla omai può togliermi. Tu dunque
ora i miei sensi ascolta: e tu, qual vero
padre, al proposto mio fermo consuona.
Non leggerezza femminile, o vano
di gloria amore, a ciò mi han tratto: il vuole
invincibil ragione. Odimi. Il sangue
tutto di Adméto, a me non men che caro,
sacro è pur anco: il genitor, la madre,
e i figli suoi, questo è d’Adméto il sangue:
or, qual di questi in vece sua disfatto
esser potea da Morte? il figlio forse?
Ei, due lustri non compie; ancor che in esso
non è per anco di spontaneo vero
voler di morte: e se il pur fosse, io madre,
d’unico figlio il soffrirei? Lo stesso
dico vieppiú della minor donzella.
Riman l’antica, e sempre inferma madre;
specchio d’ogni alta matronal virtude;
pronta, (son certa) ove il sapesse, a darsi
vittima a Stige del suo figlio in vece:
ma tu poi, di’, tu che sol vivi in essa,
dimmi, in un col suo vivere non fora
tronco all’istante il tuo? Dunque in te solo,
ecco, che a forza ricadea l’orrendo
scambio, se primo eri ad udir del Nume
la terribil risposta. Onde mia cura
fu di carpirla io prima; io, che straniera
in questa reggia venni, e a me pur largo
concede il Fato, che salvarne io possa
tutti ad un tempo i prezíosi germi.
Feréo Pianger mi fai: di maraviglia immensa
piena m’hai l’alma, e il cuore a brani a brani
mi squarci intanto. Oh ciel!...
Alces. Pianger, tu il puoi,
sul mio destin; ma tu biasmare, o padre,
l’alto proposto mio, né il puoi, né il dei.
Quanto piú a me costa il morir, piú degna
di redimere Adméto, a Pluto io scendo
tanto gradita piú. Voler del Cielo
quest’era al certo: e di convincerne anco
io stesso Adméto mio, la cura assumo.
Il disperato suo dolor, giá il veggo,
ma affrontarlo non temo. Il Ciel darammi
forza anco a ciò: le mie ragion farogli
con man palpare; e proverogli, spero,
che il conjugal puro suo immenso amore,
s’io ’l possedea, mertavalo. Al Destino
senza infranger pur l’animo, discerne
dal volgar uom l’alteramente nato.
Nel mio coraggio addoppierassi il suo:
salvo io l’avrò coi genitori e i figli;
viva, egli amommi: onorerammi estinta.
Feréo Muto rimango, annichilato: in petto
nobil’invidia, alto dolore, e dura
di me vergogna insopportabil sento.
Farò...
Alces. Farai, che la memoria mia
quí sacra resti, al mio pensier tu stesso
or servendo, qual dei. Salvar tu il figlio,
ed io ’l marito, deggio: ecco d’entrambi
l’alto dovere, e il solo. E giá di nuovo
il fatal voto al tuo cospetto io giuro...
E giá compiendo ei vassi... Ah! sí; ne provo
giá i crudi effetti. Una vorace ardente
febbre giá giá pel mio mortal serpeggia.
Dubbio non v’ha: Pluto il mio voto accolse;
a se mi chiama; ed omai salvo è Adméto.
Feréo A lui men corro; egli fors’anco...
Alces. A lui
non è chi giunga anzi di me: giá pria
chiusi ad ogni uom n’ebb’io gli accessi tutti.
Io risanarlo, ed annunziargliel’io
debbo; non altri. Or tu, che pur tant’ami
l’egregia tua consorte, a lei ten vola,
e il lieto avviso del risorto figlio,
bench’ella infermo a morte nol credesse,
recagliel tu.
Feréo Noi miseri...
Alces. Voi lieti,
che riaveste il giá perduto figlio.
Vanne; ten prego: invan ti opponi; io fatta
son piú che Donna. Ogni timor sia muto:
obbediscan me quí. — Deh, voi di Fere
degne Matrone, or della reggia uscite,
ed un augusto sagrificio tosto
apprestate a Proserpina. Si canti
l’Inno dovuto alla terribil Diva,
l’ara apprestando appiè di questo altero
simulacro di lei: tra breve io riedo
a compier quí ’l solenne rito, o Donne.
SCENA TERZA
Coro, Feréo.
amor di sposa!... Ahi sventurato Adméto,
se a tal costo pur vivere tu dei!
SCENA QUARTA
Coro.
STROFE
dell’Averno terribile;
s’è pur possibile,
che d’Acheronte oltre la infausta riva
di mortal prego scenda ai cupi regni
mai voce viva:
gli occhi di pianto amaramente pregni,
tremanti tutti al perigliar di Adméto,
supplici oriam che il Nume tuo si degni
far per ora divieto
alla vorace insazíabil Morte
di ferir uom sí pio, sí amato, e forte.
ANTISTROFE
cui pur troppo è probabile
che inconsolabile
lutto torría dal libro dei Viventi:
Adméto, speme di Tessaglia tutta,
che vedria spenti
con lui suo lieto stato, e in un distrutta
l’alta possanza, in cui secura or giace;
s’ei pria non ha sua prole al regno instrutta
coll’animo sagace:
tropp’uopo è a noi la sua terrestre salma;
che Adméto e Alceste son duo corpi e un’alma.
EPODO
dell’Etna tu, né il rapitor discaro
tenevi pur, né amaro
t’era il tenor de’ suoi cocenti detti;
piena tu il cor di conjugali affetti,
ai mali altrui pietosa,
Dea, troncar deh non vogli oggi i diletti
di fida amante e riamata sposa!