Alceste Seconda (Alfieri, 1947)/Atto terzo
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ATTO TERZO
SCENA PRIMA
Alceste, col figlio Eúmelo, e la figlia per mano; seguíta
e sorretta da varie ancelle. Adméto in disparte; e Coro.
di questa Dea terribile, il mio strato
stendete voi: debbo offerirle io stessa
la sua vittima quí. Voi, figli, intanto
ítene entrambi al padre vostro: ei stassi
(vedetel voi?) muto, e dolente, e solo
colá: ma in lui, quanta ne avesse ei mai,
giá rifiorí l’amabile salute,
ed ei per voi vivrassi. Itene, al collo
le innocenti amorose braccia vostre
avvincetegli or voi.
Eúmelo Deh! padre amato,
fia dunque ver che ti vediam risorto!
Oh qual gioja è la nostra!
Adméto Ah, fra noi gioja
non v’è piú mai. Lasciatemi; scostatevi,
troppo efferato è il mio dolore: affetti
piú non conosco al mondo: io, d’esser padre,
neppur piú il so.
Eúmelo Che sento! oimè, tuoi figli
piú non siam noi? Tai detti io non intendo.
Via, piú forte abbracciamlo, o fida suora;
Adméto Oh figli! oh figli!... Ah, quai saette al cuore
e gl’innocenti detti, e gl’innocenti
baci vostri or mi sono! Io piú non basto
al fero strazio. I dolci accenti vostri
percosso m’hanno, e rintracciato al vivo
il dolce suon del favellar d’Alceste. —
Alceste! Alceste! — Era mia sposa il fiore
del sesso tutto: dal consorte amata,
al par di lei, non fu mai donna: ed essa
pur fu l’ingrata, essa la cruda e l’empia,
che abbandonar volle e il marito e i figli! —
Sí, figli miei, questa è colei ch’a un punto
orbi vi vuol dei genitori entrambi.
Alc.1 Oh dolore! ben odo i feri detti
del disperato Adméto. Ad ogni costo,
a me spetta il soccorrerlo con queste
ultime forze mie. Venite, o Donne;
sorreggendomi, al misero appressatemi,
ch’ei mi vegga e mi ascolti.
Adméto Alceste? Oh cielo!
Ti veggo ancora? e quella or sei, tu stessa,
che in mio soccorso vieni? e sí pur t’odo,
mentre morente stai? Deh, sul tuo strato
riedi: a me tocca, a me, quivi star sempre
al tuo spossato fianco.
Alces. È vana affatto
† ogni cura di me: bensí convienti...
Adméto Oh voce! Oh sguardi! Or questi, ch’io pur miro
entro a mortal caligine sepolti,
son questi, oimè, quei giá sí vividi occhi,
ch’eran mia luce, e mio conforto e vita?
Qual fosco raggio balenar mi veggio
sul chino capo mio! qual moribonda
o troppo fida Alceste; e per me muori!
Coro Ecco il funesto arcano. Or tutte appieno
d’ambo gli sposi le diverse orrende
smanie intendiamo.
Adméto Alceste, e tu sorreggi,
pietosa tu, questo mio grave tanto
capo, ognor ricadente, con l’estreme
vitali forze di tua fievol mano? —
Ah, dal feral contatto, in me giá tutto
il furor disperato si ridesta,
e si addoppia. Giá in piè balzo; giá corro
al simulacro di quel Nume ingordo,
che aspetta la tua vittima: lá, voglio,
pria che tu muoja, immolar io me stesso.
Alces. Ogni furor fia vano: i figli, e queste
matrone alte di Fere, e queste fide
ancelle nostre, e Alceste semiviva,
tutti, ostacol possente or quí stiam noi
contra ogni tua spietata mira insana.
Siate voi, figli, ai furíosi moti
del padre, inciampo: attorcigliati statevi
† cosí pendenti dai ginocchi suoi.
Adméto Vano ogni inciampo; ogni voler dei Numi,
vano. Signor de’ giorni miei, son io:
io ’l sono, e giuro...
Alces. Ah! sí; tu giuri, Adméto, †
di viver pe’ tuoi figli; e a me tu il giuri.
Ogni altro irriverente giuro infausto,
cui tu accennar contro al voler dei Numi
ti attentassi empiamente, profferirlo
no nol potria pur mai, s’anco il volesse,
il devoto tuo labro, incatenato
dai Numi stessi. Il vedi: al parlar mio
prestano or forza i soli Dei: trasfusa
in te, per mezzo mio, comandan essi
Vieni; acquetati; assistimi; sollievo
dolce e primiero a quest’ultimo passo,
cui mi appresso, tu fammiti qual dei:
ma non mi dar in sí funesto punto
martóro tu, via peggior della morte.
Vieni, o fido, accompagnami.
Coro Oh, qual possa
ne’ detti suoi! d’Adméto il furor cade,
al dolce incanto dei celesti accenti
della morente donna.
Alces. Omai non regge
contro agli strali di ragion verace.
Donne, or si torni a lenti passi dove
il mio strato mi aspetta.
Coro E tu pur vieni,
Adméto, al di lei fianco. Intanto, forse
chi ’l sa, s’ora non vogliono gli Dei
soltanto in voi porre in tal guisa a prova
e il coraggio e l’amore e la pietade?
No, noi del tutto non teniam per anco
morta ogni speme.
Alces. Adméto, io ben ti leggo
scolpito in volto quel parlar, che il fero
tuo singhiozzar profondo al labro niega.
Ed anch’io, parlo a stento; ma gli estremi
miei sensi, è forza che tu in cor li porti
fino alla tomba impressi. Odili; pregni
di conjugale e di materno amore,
dogliosi fienti, ma vitali a un tempo.
Non che coi detti, col pensier neppure,
non io l’oltraggio a te farò giammai,
di temer che tu porgere di sposo
possa tua destra ad altra donna un giorno.
No, mai, tu Adméto, a questi nostri amati
comuni figli sovrappor potresti
ci avvampa entrambi, un tal sospetto è indegno.
Ah, non è questo il mio timor, te in vita
or dopo me lasciando. Altro non temo,
se non che tu, troppo ostinato e immerso
nel rio dolore, a danno de’ tuoi figli,
e del tuo regno e di te stesso a danno,
di questa impresa mia furar non vogli
a tutti il frutto, o non curando, od anco
abbrevíando i giorni tuoi. Ma freno
ti saran questi. Or mira, in man ti pongo
questa tua figlia e mia; perenne immago
della fida sua madre, a fianco l’abbi,
ad essa vivi: al tuo cessar, deh, pensa,
non rimarria chi degno eletto sposo
a tempo suo le desse. E a questo nostro
leggiadro unico erede, a questa speme
del Tessalico impero, al cessar tuo
chi potria mai del ben regnar prestargli
e i consigli e gli aiuti e l’alto esemplo?
SCENA SECONDA
Feréo, Alceste, Adméto, Coro, e figli d’Adméto.
mira il tuo figlio misero, cui manca
e voce e senso e lena. Or per lui tremo;
e lasciarlo, pur deggio. Al di lui fianco
tu starai sempre, osservator severo
d’ogni suo moto. — Io taccio: omai compiuto
quasi è del tutto il sagrificio mio.
Feréo Figlio, abbracciami: volgi, al padre volgi,
deh tu gli sguardi.
Adméto Al padre? e il sei tu forse?
Feréo Oh ciel, che ascolto! e nol sei tu pur anco?
dei giá miei figli emmi dolor: la tua,
piú assai che duol mi desta ira, o Feréo.
Feréo Cosí mi parli? e neppur piú mi appelli
col nome almen di padre?
Alces. Oimè, quali odo
dalle labbra di Adméto snaturati
detti non suoi!
Adméto Ben miei, ben giusti or sono
questi accenti, in cui m’è proromper forza.
Or, non sei tu, Feréo, nol sei tu solo,
l’empia cagion d’ogni mio orribil danno?
Tu, mal mio grado, a viva forza, in Delfo
mandavi per l’Oracolo; mentr’io,
presago quasi del funesto dono,
che mi farian gli Dei, vietando andava
che in guisa niuna il lor volere in luce
trar si dovesse. Io, vinto allor dal morbo,
al Destin rassegnatomi, diviso
per lo piú da me stesso, iva a gran passi
senza pure avvedermene alla tomba;
perché ritrarmen tu?...
Feréo Dunque a delitto
or tu mi ascrivi l’amor mio paterno?
E in ciò ti offesi? Ah, figlio! e il potev’io,
in sul vigor degli anni tuoi vederti
perire, e non tentar io per salvarti
tutti e gli umani ed i celesti mezzi?
Adméto E mi hai tu salvo, col tuo oracol crudo?
Non mi morrò fors’io pur anco? e morte
ben altramente dispietata orrenda
la mia sará. Ma, il dí che pur giungea
la risposta fatal di Delfo, or dimmi,
in qual guisa, perché gli avidi orecchi
della mia Alceste anzi che i tuoi la udiro?
Perché, se pur dovuta ell’era all’Orco
perché tu primo, or di’, perché tu solo,
che tanto amor per l’unico tuo figlio
aver ti vanti, allor perché non eri
presto a redimer con la vita tua
il mio morire, tu?
Alces. Sposo, e tu farti
minor pur tanto di te stesso or osi
con cotai sensi? ad empia ira trascorri
contro al tuo padre tu? di chi ti dava
la vita un dí, tu chieder, tu bramare
duramente la morte?
Feréo Oh figlio! acerba
emmi bensí, ma non del tutto ingiusta
or la rampogna tua: benché tu appieno
non sappi, no, ciò che ad Alceste è noto.
Essa dirtel potria, quanta e qual arte
per deludermi usasse, indi furarmi
l’onor di dar per te mia vita.
Alces. Adméto,
il puro vero ei dice. Io fui, che prima
intercettai l’oracolo: poi tutte
preoccupar dell’adempirlo io seppi
scaltramente le vie: chiaro pur troppo
era che a me sí generoso incarco
spettava; ed io l’assunsi: ogni amor cede
a quel di sposa. Il punto stesso, in cui
seppi che andarne in contraccambio a Stige
l’uno tra noi, per te sottrarne, er’uopo;
quel punto stesso udía l’alto mio giuro
di scender per te a Stige. Era in mia mano
da quel punto il salvarti; altrui non chiesi
ciò che potea, voleva, e doveva io.
Feréo Or quí far pompa di maggior virtude,
ch’io non m’avessi, Adméto, non mi udrai.
Qual io per te nudrissi affetto in seno,
tu il sai: tel dice l’affidato scettro,
ch’io spontaneo lasciavati anzi tempo
in mia verde vecchiaja. Annichilato
fu da me stesso il mio poter, per farti
(me vivo pur) Re di Tessaglia e mio.
Prova era questa, credilo, cui niuna
pareggia; e non men pento, ed in vederti
adorato dai sudditi, son pago.
Vinto in me dunque il Re dal padre, acchiusa
nella tua gloria ogni mia gloria ell’era.
Io, d’ogni stolta ambizíon disgombro,
privata vita alla consorte accanto
traea felice. E quí, non niegherotti,
né arrossirò nel dirtelo, che dolce
m’era ancor molto il viver, ch’io divido,
or giá tanti anni, con sí amata donna,
con la tua egregia venerabil madre:
specchio è dell’alma mia; per essa io vivo;
e in essa vivo.
Coro Oh puro cuore! oh rara
virtude!
Feréo Adméto, quell’affetto istesso,
ch’or disperatamente ebbeti spinto
ad oltraggiare il padre tuo; lo stesso
affetto di marito, in me non scemo
dal gel degli anni, mi avria tolto forse
quel coraggio sublime, onde trionfa
or la tua Alceste d’ogni maschio petto.
Per te morir non mi attentava io forse,
la mia donna lasciando: ma, se due,
d’una in vece, dovute erano a Pluto
le vittime; se in sorte alla cadente
moglie mia fida il natural morire
toccato fosse; ah, né un istante allora
io stava in dubbio di seguirla, io sciolto
Non cosí, no, quand’io dovuto avessi
quella compagna mia di tanti lustri
abbandonare, in tale etade, in tale
† egro stato, a se stessa, alla funesta
solitaria vecchiezza. Oh cielo! un fero
brivido a me correa dentro ogni vena,
solo in pensarlo. Eppur, io per salvarti,
diletto figlio mio, (se a me giungea
pria che ad essa l’oracolo) io data
avrei pur anco a cosí immenso costo
per te la vita mia: ne attesto il Cielo;
e la tua Alceste attesto, che primiera
a me recò l’oracolo, e i veraci
sensi scoprí del mio dolore.
Alces. Io sola,
(e con qual arte!) io l’ingannava, e tolto
gli era da me il morire.
Adméto Oh sposa! oh padre!
D’uopo a te no, non eran or cotanti
e sí cocenti sviscerati detti,
con cui tu il cor mi trapassasti in mille
guise tremende, perch’io a te davanti,
pien di vergogna e di rimorso e d’alta
inesplicabil doglia, muto stessi.
S’io t’oltraggiai, fuor di mio senno il fea,
per disperata angoscia. — Alceste! Alceste!
deh quante volte io chiamerotti, e indarno!
Alces. Padre, e tu sposo, amati nomi, in breve
io vi lascio, e per sempre. A voi sian legge
queste parole mie tutte di pace,
ch’ultime a voi pronunzio. In te, Feréo,
come in terso cristallo, traspariva
or dal tuo dir la inenarrabil pura
degli affetti di padre e di marito
sacra dolcezza: e tu pur anco, Adméto,
sacri a te sempre i genitori entrambi
sieno; e la destra tua, pegno or mi sia,
che tu vivrai pe’ figli nostri. A un tempo
dall’adorata tua sposa ricevi
alfin l’amplesso estremo.
Adméto E in quest’amplesso,
sará ver ch’io non spiri?...
Alces. Amiche donne,
spiccate or voi con dolce forza, io ’l voglio,
da me quest’infelice; e con lui pure,
questi teneri figli. Addio, miei figli. —
Tutto è compiuto omai. Feréo, tua cura
fia di vegliar sul misero mio sposo,
né abbandonarlo mai.
Eúmelo2 Deh, dolce madre,
tu ci abbandoni! e ci han da te disgiunti!
Feréo Tolta a noi tutti ogni favella ha il pianto.
Adméto, oimè, piú di lei semivivo,
d’ogni senso è smarrito. Ancor piú lunge
strasciniamolo, o Donne; al tutto fuori
della vista d’Alceste.
Alces. O voi, fidate
ancelle mie, prestatemi ancor questo
pietoso ufficio: in queto atto pudico
da voi composte alla morte imminente
sian queste membra torpide...
Il Coro d’Alceste Oh quai fievoli
accenti manda a stento! Ahi, poco avanza!
CORO
STROFE I
piangiam sommesse:
guai, se quel misero
or si avvedesse
del nostro singhiozzar!
ANTISTROFE I
tu la cadente
testa; e tu, chiudile
l’occhio morente,
dolce ancora a mirar.
EPODO I
pria che davver conquiso,
pria che davver reciso
sia ’l Viver dal Morir!
Morte, Morte,
compi, affretta il tuo lavoro,
e non dar piú omai martoro
alla forte,
alla celeste
unica Alceste
degna di non morir.
CORO
STROFE II
Non basta, or, no, la vista
torgli dell’imminente orribil caso,
colla girevol lista
nostra dintorno a lui muto rimaso:
anco il suo udito è forza ora ingannar.
ANTISTROFE II
mai per niun caso, in chi gl’Iddii ben cole:
spesso il Ciel riconforta
chi rassegnato e puro a lui si duole:
dunque alte voci or vuolsi ai Ciel mandar.
EPODO II
ch’altro ponno i Mortali al pianger nati,
cui sovrastanno adamantini Fati?
Giove, Giove,
reggitor dell’universo,
deh, per te non sia sommerso
nell’angoscioso mar
chi non muove
il piè né il ciglio,
se non qual figlio
ch’altro non sa che il padre venerar.
- ↑ Sorgendo, sorretta, dallo strato.
- ↑ Rivolgendosi addietro.
- ↑ Il Coro, divisosi in due parti, mezzo circonda Alceste, e mezzo si trae in disparte intorno ad Adméto. Quindi a vicenda poi cantano separatamente. Il Coro d’Alceste canta sottovoce la sua Strofe I: poi il Coro d’Adméto la sua Strofe II; e sempre cosí fin a tutto l’Epodo II.