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atto secondo 137



SCENA QUARTA

Alceste, Feréo, Adméto.

Alces.   Oh me felice! Adméto,

parte miglior dell’alma mia, tu vivi,
e sano sei quanto il mai fosti. I Numi
cel promisero giá; rendiamli or dunque
devote grazie; e i loro alti decreti,
quai ch’ei pur sieno, or veneriamo a gara.
Adméto Oh ciel! son questi, amata sposa, or questi
son gli atti, e i detti, che il tuo immenso amore
soli per me t’inspira, il dí ch’io riedo
a inaspettata vita? Egra ti veggio,
squallida il volto, addolorata il petto;
nel favellar, mal certa; e, non che un raggio
spunti di gioja in su l’ingenua fronte,
gli atri solchi vegg’io tra ciglio e ciglio
d’angoscia profondissima. Ahi me misero,
qual mi son dunque io mai, poiché da morte
scampato pur, prima a me stesso, e quindi
ai miei piú cari tutti espressa doglia,
non giá letizia, arreco? Ah, fien, pur troppo,
veraci fieno i miei terrori!
Alces.   Padre,
in questo nostro limitar pur anco
io non credea trovarti. Irne all’antica
misera madre del tuo Adméto, e mia,
e consolarla con la fausta nuova
del risanato figlio, il promettevi
a me tu stesso, or dianzi.
Feréo   Alceste, intendo
il tuo dire: la nuova io giá recava
alla consorte mia; ver essa or torno:
col tuo sposo ti lascio. Acqueta intanto