Abèle (Alfieri, 1947)/Atto primo
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ATTO PRIMO
SCENA PRIMA
Reggia di Lucifero.
Lucifero, Il Peccato.
al negro abisso io torno,
dopo aver fatto per piú dí soggiorno
su nella terra, dove l’Uom si annida,
e altero sfida
il poter nostro, ch’ei si prende a sdegno.
Lucifero Scusa non entra, il sai, dolce mio figlio,
in questo eterno esiglio.
Render ragion dell’oprar tuo mi dei,
sí ch’io ne appaghi poi gl’inferni Dei.
Non eseguivi dunque l’ordin mio?
Quel fango vil, che costá su si appella
l’Uomo, non è (qual merta) infame e rio,
e innocenza pur troppo ancor lo abbella?
Il Pecc. Lá, dove splende il Sole,
io messaggier n’andava invan spedito,
padre, da te: regnar, lá non m’è dato;
per ora, almeno. Il tuo potere a scherno,
a dileggio lo Inferno
dall’uom si tiene; ond’io, mesto, avvilito,
e, disperato, all’orride latèbre
torno di queste incessanti tenèbre.
Lucifero Ma, che festi lassú?
Come a’ miei cenni obbedisti, perverso?
Qual lusinga, qual arte, qual forza
da te adoprata fu?
Qual minaccia, qual ferro hai converso
contro quella per se sí fievol scorza
dell’uom di carne nato,
ed al peccar creato?
Quattro son soli infino ad ora in terra
i precursori delle umane genti.
Giá i duo primi parenti,
sol mostrandomi a lor, senz’aspra guerra,
molto fec’io dolenti.
Duo figli ad essi aggiunti,
spiranti aure di vita il Sole or vede,
e il fargli or tutti rei tua forza eccede?...
Il Pecc. Troppo son tutti ancora in Dio congiunti.
Bench’egli, acceso in formidabil ira,
fuor dell’Eden cacciasse Adamo in bando,
non gli ha del tutto pur sua man sovrana
abbandonati a lor natura vana,
ma sovr’essi si aggira.
Di ciascun uomo, stassi al fianco sempre
un dei celesti messaggeri alati
dell’Eterno fattore;
che, abbagliante splendore
fa balenar nell’aure, ignudo brando
dall’infuocate tempre:
e noi, messi d’Inferno, saettati
dall’alta possa de’ vibranti rai,
lontani stiamo, attoniti, tremanti;
né ci dan loco mai.
Que’ vili schiavi del sovran comando,
nemici a noi; quei, che il servaggio innaura,
che il nostro mal ristaura;
si glorian quelli or d’occupar tal loco,
di custodir quell’uomo,
che in se stesso sí poco,
tutto perdeva al luccicar d’un pomo.
Lucifero Che ascolto? oh rabbia! e dai celesti scanni
non basta loro vincitori averne
cacciati, e astretti, e schiacciati, e sepolti
in queste mute luride caverne?
Per darci ognor piú affanni,
l’uom, per mia astuzia fatto
di ragion nostra, or vonno a noi sottratto,
sí ch’ei neppur ci ascolti?
Tosto, or tosto al riparo. — Olá, s’intuoni
dalla sonante spaventosa tromba
il carme, onde si aduna
de’ possenti miei figli
la gigantesca immensa schiera bruna.
Su, su: del ripercosso eco rintroni
ogni mia grotta in questa vasta tomba. —
Tu narra loro i corsi tuoi perigli;
narra dell’uom, lassú; qual v’abbia ei cuna;
onde al riparo omai per noi si corra,
né di obbedirci piú quel vile abborra.
SCENA SECONDA2
Lucifero, Il Peccato, Coro di Demonj.
o possenti feroci guerrieri;
Angeli neri.
Venite, udite la fera voce
del vostro Re tonante,
che rimbombante
tutti vi appella in questa immensa foce.
Una voce del Coro
Voi, che nel lago di sangue giacete,
e di quel vi pascete;
voi, che in bitume sepolti vi siete
tra zolfi bollentissimi;
e voi, che tra fierissimi
muggiti, latrati,
ruggiti ululati
de’ tanti nostri
orrendi mostri
lagrimosi rabbiosi vivete;
Coro Venite, udite la fera voce
del vostro Re tonante,
che rimbombante
tutti vi appella in questa immensa foce.
Altra voce del Coro
Ecco, viene il tremendo Astarotte,
che Gigante su tutti torreggia;
ai suoi passi traballa la reggia,
e si addoppia la nostra atra notte.
Coro A consiglio, a consiglio adunatevi,
o possenti feroci guerrieri.
Altra voce del Coro
Or, qual silenzio ingombra
il procedente stuolo?
Ognuno, ecco, disgombra
per dar loco ad un solo!
Or veggio; è il venerando
nostro secondo Re,
che di fiamma ha lo brando;
Belzebúb è.
Angeli neri.
Altra voce del Coro
Ma, chi vien d’oro sí carco,
e di gemme sí splendente,
con tanta gente?
Salve, o Mammona, di tesori parco.
A te s’inchinino,
a te si prostrino,
te primo adorino lassú i mortali,
nostri nemici frali:
tu in lor saetta da infallibil arco.
Coro Venite, udite la fera voce
del vostro Re tonante,
che rimbombante
tutti vi appella in questa immensa foce.
Altra voce del Coro
Omai giá piena piena
la Regal sala vasta,
a folla tal non basta:
ve’ come lenta va,
al brandir dello scettro
che Lucifero fa,
intorno intorno ogni paréte indietro:3
cessato è il cenno; e sta
la cerchia, dove il nostro re l’affrena.
Coro Adunato è giá l’alto Consiglio;
e riverente ognuno,
della cagion digiuno,
da Lucifero pende col ciglio.
SCENA TERZA4
Lucifero, Astarotte, Belzebub, Mammona, Il Peccato,
Demonj che non parlano, Coro.
in brevi detti a voi narrare io deggio;
«cose, ch’io porto in cor gran tempo ascose,»
e me fan mesto in sul Tartareo seggio.
Quí non rammento il tristo dí, che pose
quaggiú noi prodi, in Ciel serbando il peggio:
della ingiustizia del Divin fattore
opra or vi svelo di piú rio rancore.
Quel bipede animal, del sozzo limo
creato in terra, ed a regnar sovr’essa
pur destinato fin dal nascer primo;
(benché pentito dell’opra sua stessa
sia ’l Creatore omai, s’io dritto estimo)
quell’animal, per piú nostr’onta espressa,
ora in terra non sol ventura ottiene,
ma in Ciel, quando che sia, salire ha spene.
E Dio il consente; ed al ben far gli è sprone
questa ardita speranza in cui si estolle;
come il timor d’esser fra noi, (cagione
primiera e sola) dal mal fare il tolle.
Tal di se stolta e audace opiníone
trargli è mestieri; e sbaldanzire il folle,
sí ch’egli aver fra noi l’ultimo loco
agli infami suoi falli estimi poco.
Questo mio primo e piú diletto figlio,
lassú lasciato a far valer mia forza
da ch’io dato ebbi ad Eva il gran consiglio,
e spogliata ivi mia squammosa scorza;
ma piú gran possa lá mia possa ammorza:
puro ivi l’uom, dietro all’usbergo stassi
d’Angiol celeste, che ne scorta i passi.
E, perch’a voi piú aperto sia lo scherno,
che di noi tutti il verme vil si prende;
e, perché piú frustrato omai l’Inferno
non sia di prede, ch’egli immense attende;
piacciavi udir, da chi ’l notò, l’interno
stato dell’Uom, che ancor beato il rende.
Quindi ogni gioja sua per noi si sterpa
sí che, a ciò nato, in duolo e falli ei serpa.
Il Pecc. Vero è, pur troppo! ed in voce di pianto
voi mi udrete frementi or la sua vita
ritrarvi appieno, ancor felice, ahi quanto!
Eva sorge coll’Alba; e tosto invita
dalle tepide foglie a sorger anco
lui, che ad ogni sua impresa è socio e aita.
Questa la mente, e riposato il fianco,
volgonsi entrambi al lucido Oríente;
e, a quel Dio, che non mai vien loro manco,
prosternandosi, adoran caldamente:
né in lor (bontá d’Iddio soverchia udite)
quel supplizio de’ rei niun d’essi sente,
quel rimorso che addoppia le ferite:
giá perdonato è il loro fallo appieno;
giá, quasi pure, son lor preci udite.
Poscia, con volto placido e sereno,
a destare i lor figli ambo sen vanno,
fraterna coppia a un solo strato in seno.
Caino e Abèle in dolci nodi stanno
abbracciati giacendo in queto sonno,
che li ristora del diurno affanno.
E, sorti appena anch’essi, all’alto Donno
porgono accetti preghi; indi a lor opra
ritornan baldi, e fan quant’ei piú ponno,
onde al padre la mensa ognor si copra.
Dunque il sudore,
con cui mercarsi
donde sfamarsi
gl’iniquí denno,
a lor né il senno
toglie, né il core
d’orror contrista?
Il Pecc. Il giovinetto Abèl sue pecorelle
tragge fuor dell’ovile ai lieti paschi,
candide sí ch’egli si specchia in elle.
Ma piú adulto Caín, suoi spirti maschi
volge a lavoro piú gravoso e duro;
la terra ei squarcia, ove il buon seme caschi
fra rotte glebe, e poggi indi maturo:
ed egli e Abèle, con fraterna gara,
danno ai parenti il cibo e il latte puro.
Ma si aiutan l’un l’altro: Abèl, piú cara
tien la fraterna ampia dorata messe,
Caín, piú il gregge che il terren ch’egli ara.
Le bianchissime lane intanto tesse
la industre madre, ond’ei si vestan tutti,
poiché le vesti han d’innocenza smesse.
Nell’innestare Adamo e potar frutti,
suoi dí consuma; e in rifiorir la vile
Alga che ammanta i lor meschin ridutti.
Pur, cosí speso in opera servile
intero il dí, non tornano dolenti
alla sudata mensa lor sottile,
ma ringraziando Iddio, di se contenti.
Coro Vil germe fetido,
al sudor di tua fronte
pasciti, pasciti;
e di tua colpa l’onte
lava, se il puoi, cosí.
Vita, or sí díspari
dalla tua vita prima,
traggi, e non mormori?
e lo cor non ti lima
il tuo ben, che fuggi?
Coro Abbattuto, avvilito, scacciato
dal ridente tuo bel Paradiso,
a cui fosti in mal punto creato,
or non sei da’ tuoi stenti conquiso?
E ancora, il viso
innalzando, ringrazj quel Dio,
ch’or ti è fabbro di un viver sí rio?
Il Pecc. Per ogni parte io dunque adito volli
aprirmi ad essi: or tra i parenti e i figli,
or tra i consorti, or tra i fraterni molli
giovani petti, scarsi di consigli;
ma ognor la spada orribile rovente
d’Angiol celeste a me troncò gli artigli:
sí che, al core afferrarmi di tal gente
mai non potendo, testimone io stetti
dei gaudj loro; io, di furor fremente.
Dardi temprati in fuoco d’ira eletti
or io scoccai d’Adamo in cor; perch’Eva
sia da lui carca di oltraggiosi detti,
come colei che il viver loro aggreva;
ma invan miei dardi in lui: l’Angiol v’infonde
pietá, che al perdonare il cuor solleva:
or, nel donnesco sen piaghe profonde
giá sto per far, volgendo in odio l’onta
del proprio fallo, e a me giá giá risponde
Eva; quand’ecco a lei con destra pronta
l’Angiol soccorre, e l’odio stempra, e cara
le fa di Adamo la virtú giá conta.
Indarno in somma la bevanda amara
di Discordia lor mesco in guise mille;
d’amor vie piú destando in lor faville.
Coro E perdente fia l’Inferno
contro al Cielo un’altra volta,
or che lite, in ver non molta,
chi dell’uom s’abbia il governo,
dá la palma al vincitor?
Poca gloria il vincer fora,
che per l’uom l’Inferno è fatto:
ma soffrire, a nessun patto,
non vogliam ch’ei lotti ancora;
saria troppo a noi disonor.
Belzebub Possente re del tenebroso Abisso,
poiché a consiglio i tuoi ministri or chiami,
certo, udir tu l’ignudo vero brami;
ond’io dirtelo appieno in core ho fisso.
Dacché tu sotto le serpentee spoglie
la debil donna al grave error traesti,
sgombrar sí tosto di lassú, mal festi;
tel provi il pianto, ch’or da noi sen coglie.
Vince, chi dura. A sottentrarti in terra
se niun tra noi tu giudicavi degno,
men ratto il piè ritorcere al tuo regno
dovevi tu, se il mio parer non erra.
Ma, e chi lasciavi a sostener tal pugna,
che l’uom di colpa in colpa strascinasse?
Il sol Peccato; quasi ei sol bastasse,
quando a lui nostra forza non si aggiugna.
Ben di Superbia egli a te nacque, e tutti
ei chiude in se d’ogni mal’opra i semi:
ma quindi appunto i mezzi in lui fian scemi
per far che l’uom pieno un delitto frutti.
O legione di Demonj in armi
dovea dunque sgombrargli il varco a forza;
o mandar si dovea, sott’altra scorza,
peste maggior con lusinghieri carmi.
gran Belzebú:
o forza vera,
o fraude intera
d’ogni alto mostro
vittoria fu.
Ben dice il nostro
gran Belzebú.
Mammóna Perché a vittoria — mandar tue squadre,
se da meno sudore uguale gloria
può ridondartene, — almo gran Padre?
Tiene una livida — gemma lo Inferno,
al cui mostrarsi ognun di noi si abbrivida;
di fera Invidia — l’alito eterno.
Quella terribile, — che noi dal Cielo
precipitò nel fuoco inestinguibile,
all’uom mortifera — porti il rio gelo.
Essa, col placido — mentito aspetto,
gli fará il cor fin da radice fracido;
essa, iniquissimi — l’animo e il petto.
Coro Esci, esci, Invidia pallida,
dalla chiostra tua squallida:
vanne, del Cielo a scorno,
lassú il sereno giorno
ad offuscar.
Una voce del Coro
Teco arreca gli orribili
serpi tuoi gelidi,
che coi lor sibili
fan l’aure tremar.
L’irto tuo crine fasciane
lo sen riempine,
e alcun lasciane
tue vesti affibbiar.
Coro Esci, esci, Invidia pallida,
dalla chiostra tua squallida.
Con sua lurida teda,
la Discordia preceda
i tuoi passi a rischiarar:
rechi essa fiele e sangue,
se mai tua rabbia langue,
per poterti dissetar.
Coro Vanne, del Cielo a scorno,
lassú il sereno giorno
ad offuscar.
Altra voce del Coro
Giá il suo fiato, gelato, ammorbato,
da sua chiostra alla nostra ne mostra
procedente l’alitar.
Ecco viene; ecco viene; ella tiene
un serpente, morente, fra ’l dente,
che il finisce di sbranar.5
Astar. Questa, sí, questa, al di cui giunger farsi
muto e tremante il gran Concilio veggo,
questa in terra da noi debb’or mandarsi:
che s’io nel libro del Sará ben leggo,
costei mai piú dal fianco dell’uom torre
non si vorrá, né palma altra raccorre.
Piú può sol’essa, che a migliaja accolte
legíoni vestite tutto ferro:
e in disgombrarne le tartaree volte,
col crearla d’Inferno in terra sgherro,
doppio guadagno fa la eterna notte,
e in un dell’uomo le speranze ha rotte.
Ma vuolsi aggiunger anco a lei la sorda
figlia seconda del Re nostro, Morte;
quella, che invan quí sta di prede ingorda,
poiché il suo artiglio fia nell’uom sol forte:
pascer sol debbe, e non lentar mai corso.
Dietro ai passi d’Invidia, esca, ed accarni
con sua gialla spolpata mano adunca
l’uom, che ancor non la vide, e il squatri e scarni:
la terra omai di messe tal si ingiunca;
né d’uman sangue la terra è satolla,
se da radice pria svelta non crolla.
Coro Morte, Morte, a dischiuder le porte
dell’Inferno doloroso,
vanne in terra, ed afferravi forte
quel vermetto sí orgoglioso,
che sua sorte — ancor tutta non sa.
Vanne, o Morte, — in terra va.
La Morte Chi mi chiama?
Dove sono?
Dove vò?
Chi tuonò?
Che farò?
Chi mi sfama?
Coro Morte, Morte, a dischiuder le porte
dell’Inferno doloroso,
vanne, o Morte, in terra va.
La Morte Si fará.
La mia falce,
la clessidra,
ed ogn’Idra
farò calce.
In terra vò. — 6
Chi, chi tuonò?
Lucifero Figlia, quel che l’orecchia ora t’introna
alto fragor, è del mio Popol grido,
a cui pur anco il mio voler consuona,
Va dunque in terra, ed a null’uom perdona;
ma sempre arreca pria l’ultimo strido
ai men rei, che con mano accenneratti
questa, che fida norma ognor saratti.
Entrambe intanto lo squallor natío
ammantate or di falso e blando aspetto:
tu, dai serpenti, un giovenil tuo brio
fingi, e in somma beltade un molle petto:
tu, dalla falce, le ignude ossa e il rio
tuo ceffo appiatta in matronale assetto:
madre e figlia parrete. A voi da presso
verrò lassú col mio figliuolo io stesso. —
Sí, Dei d’Inferno, a ritornar mi appresto
anch’io lassú, col figlio amato al fianco.
Non fia tra voi, chi a mia possanza infesto,
me tacci omai d’Imperator non franco:
mandar potrei tal che al parlare è presto,
ma che all’oprar saría presto assai manco.
Io vado, vinco, e riedo: al tornar poscia,
darò a chi ’l merta col disnor l’angoscia.
Coro Viva, viva il nostro Re.
In lui senno, in lui coraggio;
del suo popolo al vantaggio
sempre sempre intento egli è.
Viva, viva il nostro Re.
Una voce del Coro
Duci, e Guerrieri,
Cherubin neri,
tutti a far corte,
fin su le porte
arroventate,
su, tutti, andate
dietro al magnanimo
d’Inferno Re.
Coro Viva il magnanimo
d’Inferno Re.
- ↑ Questa scena sará notata a recitativo andante, con note lunghe; ma la cantilena sará variata, e imitante le parole.
- ↑ Questa Scena sarà divisa in Cori, ed ariette; il tutto con maestrevole varietá, a giudizio dell’intendente Compositore.
- ↑ Questo pensiere è tolto dal Milton. Un ingegnoso macchinista avrá campo di sbizzarrirsi nell’eseguirlo: come pure un abile Maestro di Musica nell’imitare coi suoni questa retrocessione lenta delle scene.
- ↑ Questa Scena ripiglia un recitativo come la prima, variata però sempre la cantilena a seconda dei metri.
- ↑ Silenzio universale. — S’inoltri lentamente l’Invidia, mentre tutti i Personaggi ed il Coro si tacciono.
- ↑ Qui s’alza un grido universale, che interrompe il cantar della Morte.