Abèle (Alfieri, 1947)/Atto secondo
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ATTO SECONDO
SCENA PRIMA
Capanna d’Adamo.
Adamo, Eva.
eppure ancor non tornano i diletti
nostri due figli: or, che mai fia?
Adamo Deh! dolce
amatissima mia consorte e suora,
deh, di ciò non turbarti! Anco piú tardi
giá tornare altre volte li vedemmo.
La greggia nostra, il sai, mercé la tanta
bontá d’Iddio, si fa di giorno in giorno
numerosa vieppiú; tal che omai solo
non è bastante il giovinetto Abèle
a frenarla; onde spesso, a Caín tocca
di abbandonar la marra sua nel campo
del sudor lungo, e andargli ravviando
i troppo baldi agnelli. Oggi ciò forse
accadea: non fan quindi ancor ritorno.
Eva E ciò appunto contristami. È sí fievole
di questo nostro Abèle ancor la tempra,
ch’io sempre temo, per lo strazio grande
ch’ei tutto giorno fa di se.
Adamo Che vuoi?
Iddio Signor cel diede, Iddio Signore
anche Caíno in sul fiorir suo primo?
Ed ei pur sol, senza fraterno aiuto,
la custodiva.
Eva È vero; ma di tanto
era minor la greggia nostra allora.
Adamo Ma in somma, poi ch’egli è voler sovrano
che in immenso propaghisi la nostra
prosapia; or vuolsi, antivedendo, a tutti
accertar l’esca con industre senno.
Eva Che mi rammenti, Adamo? ahi me infelice!
Son io cagion del faticoso ingrato
travaglio lungo, onde a sussister hanno
i tuoi figli e nepoti! Io mai non porgo
alla mia bocca il cibo a noi prodotto
dalle dure fatiche di Caíno,
ch’io non ne pianga, ed in me non mi adiri.
Adamo Parte di me, piú di me stesso cara,
altro dolor che il tuo sai ch’io non provo.
Pel nostro amor ten prego, a questo amaro
tosco non dare entro al tuo petto il loco.
Nulla fa invano Iddio. Se cosí è stato,
esser cosí dovea. Nulla a me duole
il presente esser nostro. Ozio e diletto,
lá nel terrestre Paradiso ameno,
troppo in ver ci assaliva. Or l’alta speme
di rieder lá, quando che sia; la speme
di un Paradiso meritar con l’opre,
che ai nostri orecchi balenava il tuono
della voce d’Iddio; sprone a laudarlo,
sprone al ben far, ne sará quella.
Eva Adamo,
oh qual dolcezza ne’ tuoi detti io scorgo;
qual veritá! la voce tua rischiara,
amabil raggio, e acqueta ogni tempesta
del mio cuore. Si affaccian molte nubi
in cui d’amore e d’innocente gioja
scintilla il puro, ogni mio duol dilegua.
Se tu sapessi, con quanto piacere,
per te, pei figli io m’affatichi...
Adamo Io scerno
te, dal non tuo fallir, Eva mia dolce,
piú che nol pensi, assai. Quel che ci apponi
candido latte alla frugale mensa,
candido è men del tuo tenero cuore.
Io chiedo sempre una figliuola a Dio,
che te somigli; onde altre figlie poscia
nascan, beando i pronipoti nostri,
come tu fai beato me.
Eva La bramo
io, piú di te: compagna a me di sesso,
«figlia negli anni, ed in amor sorella»
sarammi, io spero: e l’indole sua mite
pari fia (cosí prego) alla leggiadra
indole amabil del mio Abèle.
Adamo Ognora
piú per Abèl che per Caíno madre
ti vai mostrando: or, perché fia?
Eva Tra queste
mie braccia Abèle io l’ultimo portava,
ei quindi in me piú tenerezza desta,
non giá piú amore. È ver, che s’io d’entrambi
madre non fossi, un non so che in Abèle
di piú innocente e docile, piú forza
fariami al cor, che il ruvido maschio aspro
contegno di Caíno. Or dimmi; un certo
non so qual tetro inesplicabil segno,
come se fosse una nube di sangue,
non ti sembr’egli pur tra ciglio e ciglio
veder scolpito di Caíno in fronte?
Adamo Occhi ho di padre: in ambo un figlio scorgo:
Col vivo esempio di virtude, al bene
indirizziamli noi. Tardo al ben fare
non fu Caín finora: il padre intanto
veglia sovr’esso sempre. Eccolo, agli anni
bollenti è giunto, ove, leon feroce,
rugge indomito l’animo. Ben io,
ben la rimembro l’inquíeta fiamma,
ch’entr’ogni vena allora mi scorrea:
eppure allor tenea sovra il mio capo,
ben altro padre, il Creator, la mano:
mia norma e fren, l’Onnipossente allora.
Per quanto il può mia debolezza, in opra
tutto porrò per trarlo al retto. Agguaglia
fra lor tu intanto, come ognora il festi,
ed i precetti ed i materni amplessi,
quasi fosser sol uno. — Eccoli appunto.
SCENA SECONDA
Caíno, Abèle, Adamo, Eva.
Perché tenerci in angoscia sí a lungo?
Abèle Madre amata, perdonaci; cagione
son io di ciò.
Caíno Tu ’l vedi: in collo io porto
quest’agnellina.
Abèle È la diletta mia.
Sempr’ella fugge: è vispa troppo: in una
ripid’erta scoscesa oggi tant’oltre
intricavasi, ch’ella nel burrone
iva giú giú...
Caíno Sí, che a gran pena e rischio
vi si potea per prenderla poi scendere.
Caíno È salva.
Abèle Ma in questa spalla è gravemente offesa;
poverina! e lamentasi...
Caíno Piú male
hai tu di lei: via, non dolerti, o dolce
Abèle mio: vo’ farle un caldo impiastro
d’erbe e di latte, e l’avrai sana tosto.
Ma poi di viminetti un guinzaglino
ti tesserò, perché tu ben l’affreni.
È petulante troppo: cosí sempre
l’avrai sott’occhio, e meglio l’altre tutte
custodirai, con tuo diletto.
Adamo O figli,
in voi mi beo: l’udir quei puri accenti,
fraterni tanto, immensa gioja spande
nel mio paterno cuore. O tu, che tanta
del tuo minor fratello cura prendi,
benedetto sii tu! Cosí prendeva
di te, quand’eri fanciullino, io cura.
Nei campi e boschi, il tuo fratello, o Abèle,
è il tuo padre secondo.
Abèle E tale io ’l tengo:
e il sa ben egli. Ah, se sapessi, o padre,
quanta fatica egli ha per me, per questo
lascivo gregge mio! mi scoppia il core,
d’esser costretto a sturbarlo sí spesso.
Caíno Taci, via: che siam noi se non sol uno?
Tu crescerai; s’imbrunerá il tuo mento;
s’inforzerá il tuo braccio; e allor nel duro
campo a me pur soccorrerai; mentr’altri
fratelli nostri (che assai ne speriamo,
come il padre ci disse) al gregge allora
attenderanno.
Eva Adamo, ecco allestita
giá la cenetta nostra. Amati figli,
tosto che il padre avrá, d’Iddio nel nome,
benedetta quest’esca ch’ei ci dona.
Adamo1 Almo Padre celeste
che invisibil ci vedi,
deh tua presenza a queste
gioje nostre concedi!
Te, quando spunta il Sole,
te, quando a mezzo è il corso,
te, quando il cela
dell’alto monte il dorso;
te sempre invoca e vuole
chi un nulla fora senza tua tutela.
Tutti Quattro
Almo Padre celeste,
che invisibil ci vedi,
deh tua presenza a queste
gioje nostre concedi.
Adamo Or sediamo, e pasciamoci; or, che ognuno
si è procacciato il vitto suo coll’opra.
Voi, giovinetti, al certo, piú che stanchi
sarete anco affamati. Ad essi pria
dunque ministra, o Donna.
Eva Oggi v’ho fatto,
dolci miei figli, un ritondetto impasto
di farina e di latte, in su le vive
brage indurato: eccoven parte: io spero
v’abbia a piacer; gustatelo: e daravvi
forza ben altra.
Abèle Oh buono! o madre mia,
quant’è mai dolce e buono! come dirci
debbo? non so: mai non cen desti.
Caíno Or tieni,
Eva No, no; che non è giusto: tu lavori
piú assai di lui; dei piú gran parte averne.
Caíno Piú che in mangiarlo io stesso, assai piú godo
in darlo a lui.
Abèle Tu sei pur buono. O madre,
piglio, o non piglio? ei mel vuol dare: e tanto
mi piace, e tanto...
Adamo Via; l’abbia Abelino:
e a te, figliuolo, in contraccambio voglio
dar questa pera: ell’è di quelle appunto
da me innestate: to’; vedi bellezza!
La ti riempie ambe le mani quasi:
mangiala tu, per amor mio.
Caíno Che grato,
che prezíoso succo! ma, vo’ darne
anco ad Abèle uno spicchietto.
Eva Oh! mira
ghiottoncello: mai cosa ei non rifiuta.
Abèle Io? gli obbedisco in tutto, come a padre.
Eva Sei pur vezzoso.
Adamo Benedetti entrambi!
Siete i nostri occhi voi; sarete i fidi
bastoni un dí della nostra vecchiaja.
Abèle Ma, che cosa è questa vostra vecchiaja,
di cui sí spesso favellare io v’odo?
Adamo Ah, figlio! ell’è tutto il contrario, in tutto,
di quello ch’or sei tu. Giorno per giorno
alla tua forza, alla bellezza tua,
alla statura, all’intelletto, al senno,
alcuna cosa sempre ti si accresce:
cosí, giorno per giorno, alcuna cosa
di queste tutte scemasi ed annullasi
nei genitori tuoi.
Abèle Ma, donde avviene?
Voi, che pur siete sí benigni, e tanto
in ogni cosa, e piú di noi.
Adamo Vedevi,
Abèl, tu mai, nello spuntar dell’alba,
al primo uscir dalla capanna nostra,
vedevi mai la rosa, pregna tutta
di notturna benefica rugiada,
star tumidetta aspettando che il Sole,
almo apritor delle sue foglie, irraggi?
Abèle Oh, questo sí vedeva io spesso; ed anzi
anco osservava, al ritornar la sera,
che inaridita e mezz’arsa, e inchinata
ell’era; e mezza appena, il giorno appresso;
e il terzo dí, non v’era piú.
Adamo Vedesti,
figlio mio, ciò che dopo alquanti Soli
adiverrá del viver mio, di quello
della tua madre...
Abèle Oh cielo! e verrá giorno,
ch’io cercherovvi, e che in nessuna parte
non troverò i miei buoni genitori,
mai piú?
Adamo Mi sforza al pianto (oimè!) con questo
suo innocente parlare. Ah! che mai femmo,
Eva mia; che mai femmo?
Caíno Or, di che piangi,
padre amato?
Abèle E la madre anch’ella, oh Dio!
si asconde il viso lagrimando. Ah! forse
co’ miei detti vi spiacqui? or, perdonatemi,
piú non sarò con domande importuno.
Ad.2 Di me non duolmi; io meritai pur peggio:
questi innocenti, dolgonmi. Deh, quale
immenso ben il mio fallir lor toglie! —
grave e pensoso, con se stesso.
Adamo O figli,
giá s’inoltra la notte; ite al riposo.
Vi benedice il padre: in Dio felici
dormite voi. Su la nascente aurora,
io desterovvi dal fraterno strato.
Dormite or queti nel sonno profondo
dell’amena innocenza.
Abèle Andiam; che omai,
dalla stanchezza, io piú non posso.
Caíno Andiamo.
Ma tu pur, madre, pria dei benedirci.
Eva Ed abbracciarvi, amati figli, a un tempo.3
SCENA TERZA
Adamo, Eva.
facevi tu del mio perduto bene?
Eva Mai non la fei: tu l’inibisti: io tacqui.
Adamo Ed io, mal cauto, e da mia doglia vinto,
io quasi or dianzi mi tradiva. Ah, noto
mai non sia lor tal fatto! io tema avrei,
ch’essi perciò ci amasser meno. Or, vieni;
posiam noi pure. — Onnipossente padre,
deh, su noi l’occhio tuo sempre mai vegli!