Vita di Giacomo Leopardi/Capitolo XXI
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422 Capitolo XXI. LA « PALINODIA » E « LA GINESTRA 1835-1837. Sommario: Trasferimento dei sodali a Capodimonte: la Paolina va con loro. — Vantaggi della nuova dimora, e migliora- mento nella salute del poeta. — Edizione delle Opere del Leopardi cominciata dallo Starita. — Ridicolo l'affaccendarsi per il miglioramento civile e politico dei popoli. — La Pu' Unodia, pensata a Firenze nelle conversazioni da Vieus- seux. — Lettera del Capponi al Leopardi. — Intendimenti e valore della Palinodia. — Cultura napoletana. — La satira I nuovi credenti. — La scuola di Basilio Puoti. — Il De Sinnor propone al Leopardi di restituirgli i manoscritti filologici. — Alternative e incertezze del Leopardi fra il desiderio di ri- vedere la famiglia e la difficoltà di abbandonare Napoli. — Nella villetta Ferrigni alle falde del Vesuvio. — Vita salu- . tare e tranquilla. — // tramonto della luna e La ginestra. Nel maggio del 1835 il Ranieri potè finalmente avere, come accennai, l'agognato quartiere di via Capodimonte; e, fatti trasportare in esso i mobili dal palazzo Cammarota, ivi si trasferì con l'amico. Il nuovo quartiere aveva il doppio vantaggio di essere in una delle parti più alto della cittjY, dove l'aria ò ottima, di essere vicinissimo all'abitazione di uno zio, e vicino alla casa paterna di Antonio. Per questa vicinanza, scrivo il Ranieri, < fu infino permesso alla suora di carità il tanto ambito aposto- lato. >' Intorno al medesimo tempo, jmco prima o poco dopo, andò ad abitare coi due sodali Pasquale Ignarra, anei amico die familiare di casa Ranieri, brav' uomo,
- 8«Hé anni di »odali»to oo., pag. 87. LA « PALINODIA > E < LA GINESTKA >. 423
patriota, e fmissimo cuoco, die assistè il Leopardi insino all'ora suprema.* < La mia Paolina, soggiunge, non senza un po' di enfasi e di esagerazione, il Ranieri, era sì fatta, che dovunque arrivava, recava seco la tranquillità e la gioia; quanta maggiore, almeno, se ne può avere sulla terra da chi sente e pensa. > L'angelica creatura infondeva la vita in tutti noi tre. Su gli occhi di Leopardi vidi apparire un barlume di letizia che non gli avevo mai scorto dal dì che lo ritrovai tanto mesto in Firenze. >* Nella nuova dimora ebbe il Leopardi tutto ciò che di meglio si poteva desiderare al suo misero stato: onde non è meraviglia se in una lettera al De Sinner del 3 ottobre, nominando il Ranieri, aggiunge al nome di lui queste parole: < col quale io vivo, e che solo il fulmine di Giove potrebbe dividere dal mio fianco. >* In quell'aria, forse unica ai suoi malanni, il poeta andava rifacendosi ogni dì più; * aveva dalla Paolina quell'assistenza amorevole e quelle cure pazienti che solo una donna afiettuosa e gentile sa dare a un ma- lato ; aveva nel Ranieri un segretario sempre pronto ai suoi bisogni, che gli scriveva a dettatura, non so- lamente le lettere, ma tutto ciò che gli veniva fatto di comporre; aveva in lui e nella sorella due lettori instancabili e, come il Ranieri dice con falsa mode- stia, tion dispregevoli ; aveva, spessissimo nel dopo pranzo, e quasi sempre la sera, la compagnia dell'ot- timo Margaris, col quale egli e il Ranieri ragiona- vano di letteratura. In questo tempo il Leopardi stava relativamente così bene, che non solo potè uscire la sera per an- dare in conversazione, ma i suoi ospiti poterono con-
- Sette anni di sodalìzio ec, pag. 36.
- Idem, pag. 87, 38, 39.
3 Epistolario, voi. Ili, pag. 20.
- Sette anni di sodalizio ec, pag. 39. 424 CAPITOLO XXI.
durlo al teatro detto allora del Fondo, < dove, scrive il Kanieri, mi par di vederlo ancora appoggiato del gomito destro sul parapetto del palco, farsi il solec- chio pe' lumi che lo ferivano, ed, insieme con Mar- garis, che gli era in piedi alle spalle, godersi amen- due il famoso Socrate Immaginario dell'abate Galiani, musicato da Paisiello e cantato da Lablache, ed il famoso coro veramente aristofaneo : AvSptSv ànavTWv Scoxpccxvjg oo^óxaxoj: del quale i racconti miei e di Margaris lo avevano renduto ghiottissimo. > ' Quando avvenne il trasferimento al quartiere di via Capodimonte, Giacomo trasse una cambiale di co- lonnati 39 sullo zio Carlo Antici, che sperava di ri- fondere con una somma dovutagli da un negoziante, il quale poi gli mancò di parola.* Il negoziante doveva probabilmente essere il libraio Starita, che nell'estate di quell'anno cominciò una edizione delle Opere del Leopardi, della quale pubblicò agli ultimi di settem- bre un primo volume, che conteneva i Canti. A quel primo volume dovevano seguitare in due volumi le Operette morali accresciuto, ed altri tre volumi di coso inedite. Il volume pubblicato aveva di nuovo quattro poesie composte a Napoli, cioò le tre di cui abbiamo parlato nel capitolo precedente, e la Palinodia^ di cui parleremo fra poco. La com posiziono dello nuove poesie e l'aver potuto il Leopardi attendere alla stampa del volumetto sono una conferma delle migliorate condizioni di sua saluto, delle quali scriveva il H ottobre al Do Sinner così: < Io dopo quasi un anno di soggiorno in Napoli, cominciai finalmente a sentire gli effetti benefici di
- 8ttt« anni di todalUto •e., pag. 40.
- Vodi Epittólarto, voi. Ili, pag. 16. LA < PALINODIA > E < LA GINESTRA >. 425
quest'aria veramente salutifera: ed è cosa incontra- stabile ch'io ho ricuperato più di quello che forse avrei osato sperare. Nell'inverno passato potei leggere, com- porre e scrivere qualche cosa; nella state ho potuto attendere (benché con poco successo quanto alla cor- rezione tipografica) alla stampa del volumetto che vi spedisco (il volumetto dei Canti, edito dallo Starita); ed ora spero di riprendere ancora in qualche parte gli studi, e condurre ancora innanzi qualche cosa durante l'inverno. >' Il volumetto delle poesie lo aveva mandato anche al Bunsen, e lo mandò poi al Giordani, il quale pare non lo ricevesse. Oltre le accennate quattro poesie, il Leopardi do- veva aver cominciato, fin dall' inverno 1834, se non anche prima, qualche altro lavoro ; probabilmente i Faralipomcni della Batracomiomachia, e i Pensieri, che fanno seguito alle Operette morali. E probabil- mente questi lavori dovevano entrare, insieme con le traduzioni dal greco in prosa rimaste inedite, nei tre ultimi volumi della collezione dello Starita. Dei sei volumi promessi l'editore, oltre il primo volume, ch'era quello dei Canti, pubblicò solamente il secondo, eh' era il primo delle Opa-ette morali accresciute. Dopo questo volume l'edizione rimase interrotta, un po' perchè il Leopardi era disgustatissimo del pidoc- chioso libraio, il quale avendo raccolto col suo mani- festo un numero maggiore di associati che non credeva, sicuro dello spaccio, aveva dato la più infame edizione che aveva potuto;* un po', e massimamente, perchè la censura non aveva permesso la pubblicazione del se- condo volume. < La mia filosofia, scriveva in questo proposito il Leopardi al De Sinner, è dispiaciuta ai preti, i
- Epistolario, voi. Ili, pag. 19.
- Idem, pag. 30. 426 CAPITOLO XXI.
quali e qui ed in tutto il mondo, sotto un nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eterna- mente tutto. > * Fin da quando nella prima gioventù il Leopardi si volse alla meditazione dei problemi filosofici e re- ligiosi, e dalla forza del suo pensiero fu condotto alla negazione e all'aborrimento delle dottrine cristiane, che da ragazzo aveva professate con tanto entusiasmo; €d attraverso le sue nuove idee filosofiche ed i suoi dolori giunse ad una prima concezione pessimistica della vita ; fin d'allora egli andò sempre innanzi nel nuovo cammino pel quale il suo pensiero si era messo, senza spaventarsi delle più terribili conclusioni, anzi provando talora un'amara voluttà a calpestare e di- struggere quelle stesse illusioni nelle quali aveva pro- clamato consistere i,soli beni della vita. A ventun anno, pieno d'ardore patriotico, aveva gittato il suo grido rivoluzionario nella canzone Al- l'Italia ; e per qualche tempo si mostrò appassionato di quella letteratura civile che colla educazione del popolo mirava alla rigenerazione della patria; ma quando nel 1827 andò a Firenze, dove quella lette- ratura aveva forse i suoi migliori rappresentanti in- torno al Vieusseux ed alla Antologia^ il concetto della infelicità necessaria di tutti i viventi si era già così fortemente radicato nell'animo suo, che gli parve ri- dicolo l'affaccendarsi di tutta quella brava gente in- torno a studi che avevano per iscopo il miglioramento civile e politico dei popoli e il risorgimento della na- zione, cioè, secondo lui, duo utopie. E pensava e scri- veva, come vedemmo, al Giordani che, < considerata la perfetta inutilità degli studi fatti da Solono in poi per ottenere la perfezione degli stati civili e la foli- ' KpMolario, voi. Ili, pag. 80. LA < PALINODIA > E < LA GINESTRA >. 427 cita dei popoli, non gli entrava nel cervello come la somijtiità del sapere umano stesse nel sapere la poli- tica e la statistica. > Il Giordani, pure professando in molta parte la filosofia del Leopardi, non solo non partecipava que- sto suo disprezzo per gli studi di letteratura civile, dei quali era egli stesso un nobile cultore; ma in or- dine ad essi si trovava pienamente d' accordo col Vieusseux e con gli scrittori della Antologia. La mag- gior parte di questi, oltre il Giordani, erano, come sappiamo, amici del Leopardi, e da lui stimati ; erano anche suoi benefattori, né egli in cuor suo negava loro la sua riconoscenza. Uno dei più autorevoli, e degni di considerazione come uomo e come scrittore, era indub- biamente il Capponi. E a lui appunto, quando gli venne l'idea di contrapporre pubblicamente alle dottrine ci- vili e filantropiche di quella nobile scuola le disperate dottrine del suo pessimismo, rivolse il Leopardi il suo dire, per conferire ad esso maggiore solennità. La Palinodia, per quanto composta a Napoli, si ge- nerò e si maturò nella mente del Leopardi negli anni eh' ei fu a Firenze, frequentatore assiduo del gabinetto Vieusseux. Mentre egli in quelle dotte e famose con- versazioni, seduto in un canto dove la luce non offen- desse i suoi occhi malati ed egli rimanesse quasi na- scosto alla vista altrui, sentiva celebrare le nuove scoperte della fisica e della meccanica, che avrebbero, si diceva, mutato faccia al mondo ; sentiva discutere i postulati delle scienze economiche, i progressi delle industrie e dei commerci, che avrebbero apportato agli uomini tanto benessere ; sentiva ragionare di po- litica, ed affermare che le idee di libertà e d'indipen- denza si sarebbero col tempo fatte strada fra le nazioni, ed avrebbero modificato razionalmente l'ordi- namento degli stati e i loro vicendevoli rapporti, e i rapporti fra i principi e i popoli ; mentre egli sen- tiva questi ed altri simili discorsi, tutto chiuso in sé, 428 CAPITOLO XXI. pensava : — Ma ciò varrà forse a far diventare gli uomini migliori di quello clie sono? meno egoisti, meno prepotenti, meno crudeli? La virtù vera; la modestia, la fedeltà, la giustizia non saranno concul- cate sempre e dovunque? I protervi, i frodolenti, i mediocri non regneranno sempre dappertutto ? I forti non opprimeranno sempre i deboli ? I miserabili non saranno sempre schiavi de' ricchi e de' potenti ? I po- poli cesseranno forse dal farsi guerra gli uni con gli altri? Quando gli uomini potranno -vestirsi di vesti più morbide ed eleganti, potranno fornire le loro case di mobili più comodi e più leggiadri, potranno cor- rere in un giorno da Parigi a Londra, da Londra a Liverpool, quando avranno meglio illuminate le piazze e le strade delle loro città, saranno perciò più felici ? E il risorgimento d'Italia, ch'io sognai negli anni miei più giovani, e pel quale mi sarebbe parso bello e caro dare il sangue e la vita, è egli possibile con una generazione come questa ? — Simili pensieri at- traversavano la mente dell'infelice poeta, mentre in- torno a lui si parlava calorosamente di civiltà, di progresso, mentre le più ardite speranze accendevano le nienti ed i cuori. Di quei tristi pensieri si formò la Palinodia; la quale, come ho detto, fu composta a Napoli, fra la primavera e l'estate del 1835. Io non so se vera- mente qualcuno desse al Leopardi, com'egli dice, il consiglio, ammonimento, di non corcare più mate- ria al canto dentro di so, di non cantare più i suoi affetti, ma i bisogni e lo speranze del secolo. Questo consiglio, HO nessuno propriamente glie lo diede, egli lo sentì circolaro nell'aria dintorno a 8(\ se lo sentì dare da nessuno e da tutti. Nella poesia lo mise sulle labbra di uno degli scrittori della Antologia più av- versi alle sue idee, che designò coi noti versi: Un già de' tuoi, lodato Gino, un franco Di poetar maestro, anzi di tutto LA < PALINODIA > E < LA GINESTRA >. 429 Scienze ed arti e facoltadi umane, E menti che fur mai, sono e saranno. Dottore, emendator, ec. Il Capponi credè vedere indicato in questi versi il Manzoni, che a Firenze, quando e' era il Leopardi, soleva mettere innanzi l'economia sociale, come fonda- mento a ogni altro studio;^ ciò che il Leopardi non poteva digerire. Ma è più probabile, come oggi si crede generalmente, che l'uomo designato dal Leo- pardi come suo ammonitore fosse il Tommaseo. La Palinodia pare ad alcuni critici uno dei com- ponimenti poetici del Leopardi men bene riusciti, uno a dirittura degli inferiori, forse l'inferiore di tutti. Oggi che non pochi dei beni caldeggiati e promossi dalla letteratura civile e patriotica derisa dal poeta si sono ottenuti, massimo di tutti il risorgimento della patria, quella derisione pare ai detti critici che vada a ferire i nobili ideali e i generosi sforzi degli uomini che contribuirono a quel risorgimento; e lo stesso epiteto di candido dato al Capponi in principio della poesia, tutta d'intonazione ironica, pare a taluni irri- verente. Ma il Capponi, benché si sentisse amicamente punto dai versi della Palinodia, mostrò d' intenderne diversamente lo spirito e la portata; e lungi dal mostrarsi offeso della puntura, scrisse al poeta una bella lettera, con la quale, professandoglisi sincera- mente grato per avergli intitolato i suoi nobili versi, gli diceva fra le altre cose : < In questo punto capi- tale sono d'accordo con voi, e ne vo superbo, e m'avete proprio grattato il solletico, nel ridere cioè della mi- naccia de' peli e della fiamma de' sigari e della sa- pienza de' giornali e (qui avrei voluto che la potente parola vostra fosse venuta a difendermi le spalle, ma voi prudente vi siete taciuto) della virtù redentrice delle società filantropiche e d'altre cose simili. >'
- Vedi Capponi, Lettere, voi. IV, pag. 417, 418.
' La lettera del Capponi è inedita nelle carte napoletane. 430 CAPITOLO XXI. Appare da queste parole che il Capponi aveva ben compreso che la satira del Leopardi intendeva ferire, non già i patrioti veri, ma i falsi, non già quel che v'era di buono nelle dottrine della scuola della lettera- tura civile, ma le esagerazioni di essa, a proposito delle quali il Capponi medesimo scriveva nella citata lettera al Leopardi : < In tutto il dimenarsi di questo secolo, se v' è qualcosa di buono, la pedanteria de' nostri pro- fessori di civil sapienza la rende intollerabile. > Indipendentemente dallo spirito e dal contenuto della poesia, alcuni ritengono che anche come opera d'arte sia un lavoro mediocre, perchè, dicono, < non serba e non rivela costante ed uguale la intenzione e intonazione ironica, > e perciò < manca della più essen- zial condizione d'ogni componimento satirico. >' A me, al contrario, il frequente e talora quasi inavvertito passaggio dal tuono ironico al serio, quel misto di satira e di poesia grave, pare uno dei pregi della Pali- nodìa; e non mi fa gran forza, anzi nessuna, il fatto che il Parini (e su lui ci sarebbe da osservare qual- cosa) ed altri abbiano trattato l'ironia diversamente. Un solo difetto trovo in quel componimento: mi pare in alcune parti un po' lungo, cioù non abbastanza con- densato. II periodo dalla primavera del 1835 all'autunno del 183G fu il tempo miglioro della vita del Leopardi a Napoli. Il cerchio delle suo conoscenze, specialmente letterarie, si era andato allargando; ciò che in parto gli procurava distrazioni, in parte lo lusingava; ben- ché quasi tutti quei letterati professassero, come ac- cennai, opinioni contrarie alle sue, ed egli disprezzasse lo loro idee filosofiche. • / Cantt di Giacomo f^opat'ill, oommuiilati da AlfioiJo Strnc- oaU; Firanzo, HAiiaoni; ItiWi, pa({. IW. LA < PALINODIA > E < LA GINESTRA >. 431 Indice e rappresentante della cultura napoletana di quel tempo, secondo lo Zurabini, da cui riassumo queste notizie,' era la Rivista di scienze, lettere ed arti II Progresso, cominciata a pubblicarsi nel 1832, durata fino al 1840. Vi scrivevano il Galluppi, il Te- nore, il Troya, il Pilla, l'Avellino, l' Imbriani, il Bal- dacchini, il Dalbono, il Pisanelli, il Tari, il lluggero ed altri : vi collaboravano anche scrittori di fuori, come il Centofanti e il Tommaseo. Quando in quella Rivista, scrive lo Zumbini, < bì parlava dei nostri maggiori autori moderni, il Leopardi d'ordinario non era anno- verato fra questi ; > e tanto in essa quanto in altri gior- nali letterari del tempo < di rado o non mai si accen- nava al Leopardi, mentre si levavano al cielo i nomi di altri scrittori viventi, e in ispecie del Mamiani, che pareva avere in Napoli suscitata l'ammirazione uni- versale non meno coi suoi Inni che col suo Rinnova- mento. >' Il Liberatore, parlando di questi inni ristam- pati nel 1833 a Napoli, e mettendo a riscontro l'inno del Mamiani Ai patriarchi con quello del Leopardi sul medesimo argomento, finisce con dire: < Se l'inno del poeta recanatese parrà a molti più ricco di pro- fondi concetti, meglio ideato nella sua macchina e, come dicono, più filosofico, nessuno dirà che al tutto più poetico non sia quello del nobil rampollo dei Dalla Rovere. >' Altri, esaltando gl'Inni del Mamiani, non nominava neppure il Leopardi, come se non esistesse. È vero che questi fatti avvenivano nel 1832 e nel 1833, quando il nostro poeta non era ancora arrivato a Napoli, ci era arrivato appena, e che più tardi, nel 1835, es- sendosi ristampati gl'inni del pesarese con quello del Leopardi Ai Patriarchi, si parlava del Leopardi come di stupendo ingegno, ma ancora poco conosciuto dai Napoletani.
- Vedi Zumbini, Studi sui Leopardi, voi. II, pag. 241 e seg.
' Idem, pag. 246. ^ Idem, pag. 247 in nota. 432 'CAPITOLO XXI. L' alta stima in cui era tenuto, come poeta e come filosofo, il Mamiani in confronto a lui, non poteva essere ignota al Leopardi, e non poteva fargli piacere. Credo di non ingannarmi pensando che se ne vendicasse più tardi col noto verso della Ginestra cavato dalla prefa- zione del Mamiani ai suoi inni, e con la nota che vi ap- pose. Certo, sfogò in quel tempo il suo dispetto contro i filosofi religiosi napoletani, scrivendo la satira Innovi credenti, che fa in certo modo riscontro alla Palinodia. Anche questa satira è in forma di epistola, ma non in versi sciolti, in terzine ; ed ha un' intonazione più leggera della Palinodia. L'intendimento della Pa- linodia è più alto; il poeta prende sul serio le idee contro le quali combatte e gli uomini che le rappre- sentano; nei Nuovi credenti deride spietatamente i suoi avversari e ne fa la caricatura. Chi fossero essi, chi fossero in particolar modo quei tre che introduce nella satira, non importa gran fatto sapere: i nuovi credenti erano quei letterati che, increduli e volterriani finché r incredulità dominò in Francia, si erano convertiti alle idee religiose dopo il trionfo della reazione, e dopo che questa con lo Chateaubriand aveva rimesso di moda il cristianesimo. Naturalmente questi convertiti erano i più intolleranti, e quelli che più altamente biasimavano lo sconsolate dottrine del Leopardi, ac- cusandole di empietà. Tutta Napoli, dice il poeta, riprova le mie dot- trino, e si arma alla difesa de' suoi maccheroni, per- chè non sa comprendere come i maccheroni non deb- bano bastare alla felicità della vita umana, non sa comprendere come si possa proferire la morte ai mac- cheroni. Perciò la voce dei dotti o dei letterati si leva, piena d'affanno, contro di me Alla difesa dolio cobo bollo, chiamandomi un empio, un perduto. — Qui il poeta scbixza bravamente il ritratto di quei tre tipi che LA < PALINODIA > E < LA GINESTRA >. 433 abbiamo accennati: Elpidio, un uomo d'età, che si scompiglia sulla fronte i peli della parrucca, che ha un'amante di cinquant'anni, che fervente di zelo canta le giovani e abbraccia le vecchie, e spera in cielo la mercede di sua molta virtù ; Galerio, un suo giovane discepolo, dal muso caprino, che, escluso per sempre dai piaceri di Venere, loda i raggi del giorno, loda la sorte del genere umano e benedice Dio; un terzo, innominato, che, disfatto dal mal francese, grida tos- sendo: Bella Italia, bel mondo, età felice, Dolce stato nioi-tal! Questi e molti altri (dice il poeta) che nimici a Cristo Furo insiu oggi, il mio parlare offende, Perchè il vivere io chiamo arido e tristo. E in odio mio fedel tutta si rende Questa falange, e santi detti scocca Contro chi Giobbe e Salomon difende. — ^acquetatevi, amici, — risponde il poeta ai suoi accusatori ; — se io dissi che la vita è infelice, le mie parole non vi toccano allatto: Che misera non è la gente sciocca. Il dolore e la noia, tormenti delle anime bennate, non hanno alcun potere su voi: alla vostra felicità bastano i maccheroni, le ostriche, i gelati, le donne; E il cor, che né gentil cosa, ne rara, Né il bel sognò giammai, né l'infinito. Come la Falinodia nell'intendimento dell'autore non toglieva niente alla stima ch'egli aveva per il Capponi e gli altri della società fiorentina, che pro- fessavano opinioni diverse dalle sue, così la satira 1 nuovi credenti non toccava affatto quei molti lette- rati napoletani, che, pure inchinando verso le dot- Chiarini, Leop. „ 434 CAPITOLO XXI. trine filosofiche allora prevalenti, avevano un alto concetto di lui. Egli vedeva volentieri questi letterati, che amava e stimava, e che si avvicinavano a lui per mezzo del Ranieri. Alcuni li conosceva già fino da Firenze, come Alessandro Poerio, verso il quale, se potè per un momento avere un po' di malumore, a cagione della ammirazione di lui per il Tommaseo, il malumore passò presto, ed egli non tardò a ren- dere giustizia al giovane amico, che fu uno de' suoi più alti e degni estimatori.
Ebbc a quel tempo grande importanza in Napoli la scuola del marchese Basilio Puoti; la quale, seb- bene censurata poi giustamente per l'angustia delle idee letterarie da alcuni di quelli stessi che vi appar- tennero, ebbe i suoi meriti, e non piccoli, verso la cultura napoletana, anzi italiana. Essa rappresentava in Napoli quello che il Cesari e i suoi seguaci nella letteratura dell' Italia superiore ; il culto cioè e lo stu- dio della lingua degli scrittori del buon tempo ; con questo divario, che quella del Puoti era una vera pro- pria scuola, dove sotto la direziono del maestro si davano precetti ed esempi e si facevano studi ed esercizi. Il Puoti e i suoi giovani scolari, scrive lo /um- bini, tennero in f/run proffio il Loo|)ardi, e quando accadeva loro di rivciìeiio di tanto in tanto, erano lii li di fargli le mafjffiori dimostrazioni di stima.^ il De Sanctis narrava poi allo /unibini giovanotto, di una visita fatta dal Leopardi alla scuola del Puoti: < Nar- rava come, mentre tutti ansiosamente lo aspettavano, il poeta giungesse appoggiato al braccio di un suo
- ZoKBiaii Studi 0ul Ltopardt, voi. II, png. 24.'), 244. LA < PALINODIA > E < LA GINESTRA >. 435
camico, e alquanto incerto nell'andare e quasi timido in ogni suo atto. Cominciano subito i soliti esercizi della scuola: si leggono vari componimenti, seguono le osservazioni dei giovani e del maestro.... In fine il Puoti pregò il poeta che volesse essergli cortese del suo giudizio intorno alla maniera con cui in quella scuola si studiava l' italiana favella; ogni parola di lui sarebbe stata un prezioso ammaestramento e in- sieme un caro e venerato ricordo per quei giovani. Schermitosi per qualche istante, il Leopardi poi disse, con voce un po' fioca e pur dolce: ammirare quel sen- timento così vivo dell'italianità nello scrivere, e se- gnatamente il ritorno a quei nostri antichi, che fecero tante cose grandi e non meno grandi ne ispirarono ai nipoti, sempre che questi intesero a rinnovare il culto degli avi. Il Puoti non aver bisogno dei suoi consigli, nò lui esser tale da poterne dare. Tuttavia per compiacere al cortesissimo marchese, notava come in quella scuola si facesse più conto della purità che della proprietà. Or, egli esser d'avviso che questa si dovesse tenere in non minore, anzi in maggior pregio di quella ; e che un sentimento eccessivo della purità potrebbe persino nuocere a quella proprietà stessa da cui principalmente viene ad ogni discorso l' evidenza e la luce. >' Le dimostrazioni di stima fattegli dai suoi ammi- ratori erano le cose delle quali il Leopardi si com- piaceva maggiormente; e furono, credo, le sole vere sodisfazioni ch'egli gustò nella vita. Oltre l'amicizia e la stima dei principali letterati del paese, ebbe il Leopardi a Napoli anche quella di alcuni stranieri che fecero là qualche dimora nel tempo in cui egli vi abitò. Il Bunsen, rispondendo il 5 luglio 1835 al Leo- pardi, per avvisarlo che aveva accettata e pagata la ' ZuMBiNi, loc. cit., pag. 244, 245. 436 CAPITOLO XXI. sua cambiale, gli mandava la lettera pel dottore En- rico Guglielmo Schulz, che recavasi nell' Italia meri- dionale per alcune ricerche storiche. Lo Schulz non solo divenne amico del Leopardi, ma gli fece conoscere il poeta Augusto Platen, recatosi a Napoli ed in Sicilia a cercarvi salute, ed inebriarsi d'ammirazione per l' Ita- lia. Il Leopardi, non dimentico dei suoi antichi amori per gli studi di filologia, ebbe cara la conoscenza e l'amicizia dello Schulz, e si compiacque della sua con- versazione, come già si era compiaciuto di quella del De Sinner; col quale mantenne corrispondenza epi- stolare anche in questi ultimi anni. Quando, alla fine del 1835, il filologo di Berna gli fece balenare la speranza eh' ei sarebbe andato a Na- poli per rivederlo e passare un po' di tempo con lui, se ne rallegrò tutto, ma non vi fece su grande assegna- mento; e il 25 gennaio 1836 gli rispose: < Non so s'io debba considerare altrimenti che come una dolce illu- sione la speranza che voi mi date di rivedervi a Na- poli l'inverno prossimo. >' Fu veramente una illusione, perchè il De Sinner, quale si fosse il motivo, poi non andò. Era destinato che i due amici non si rivedes- sero. Qualche mese più tardi, avendo il Do Sinner pro- posto al Leopardi di restituirgli i suoi manoscritti filo- logici, Giacomo si mostrò disi)iaccnte della proposta, e rispose : < Prima i fiumi ritorneranno allo fonti, eh' io ricuperi il vigore necessario per gli studi filologici: quando quest'impossibile avvenisse, lo mio carte tornando dallo vostre nelle mie mani, non farebbero che perdere, >' Arrivato a questo, che fu, come ho detto, il mi- glior tempo della sua vita a Napoli, il Leopardi do- veva oramai aver perduto ogni speranza di ni lonta- narsi da qucslla cittA,, anche per breve tempo: ma non sapeva rasscgnarvisi. Como in tutte le precedenti,
- EpUtolavio, voi. in, pflg. 23. * Idoin, pAg. 80. LA. * PALINODIA > E < LA GINESTRA >. 437
'OSI ili quasi tutte le sue lettere al padre dalla pri- iiuiveni del 1835 in poi è espresso il desiderio e la speranza di andare fra poco a rivedere la famiglia. Il 4 dicembre 1835 scriveva alla Paolina: < Io, cara Pilla, muoio di malinconia sempre che penso al gran tempo che ho passato senza riveder voi altri ; quando mi rivedrai, le tue accuse cesseranno. Se fosse neces- sario, ti direi che non sono mutato di uno zero verso voi altri; ma tra noi queste cose non si dicono se non per celia, ed io ridendo te le dico' Il 19 febbraio 183() scrisse al padre che sperava di poter partire alla Hne d'aprile o ai primi di maggio; e r 11 dicembre dello stesso anno gli mandò una lettera con queste commoventi parole : < Mio caro papà, se Iddio mi concede di rivederla, ella e la mamma e i fratelli conosceranno che in questi sette anni io non ho demeritata una menoma particella del bene che mi hanno voluto innanzi, salvo se le infelicità non iscemano l'amore nei genitori e nei fratelli, come l'e- stinguono in tutti gli altri uomini. Se morrò prima, la mia giustificazione sarà affidata alla Provvidenza. >* Neil' ottobre innanzi ora scoppiato il cholera : ciò spiega le prime e le ultime parole del poeta, che aveva una gran paura dell'orribile morbo.
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Nell'aprile del 183(5 il Leopardi, che allora, come sappiamo, stava relativamente abbastanza bene della salute, accettò volentieri di andare, in compagnia dei suoi ospiti, a passare alcuni giorni in una villetta alle falde del Vesuvio, messa gentilmente a sua disposi- zione dall'avvocato Ferrigni. E il poeta si trovò così bene in quella campagna, che, invece di alcuni giorni, » Epistolario, voi. Ili, pag. 22. * Idem, pag. 37. 438 CAPITOLO XXI. vi dimorò allora quasi tre mesi, e tornatovi nell'ago- sto, vi stette fino ai 15 febbraio dell'anno seguente. < La villetta era a cavaliere di Torre del Greco e di Torre dell'Annunziata, >' in una splendida posi- zione, dalla quale si scopre allo sguardo tutto il me- raviglioso e variato paesaggio che circonda il golfo. Annesso alla villetta era un podere pure apparte- nente al Ferrigni. < Quivi, scrive il Ranieri, col bravo Pasquale, e con la compagnia di un antico familiare di casa Ferrigni, menammo l' infermo, e quivi lo ada- giammo in un'allegra e saluberrima stanza ad oriente. Quivi egli ascoltava, con piacevole attenzione, i rac- conti e le leggende vulcaniche del fattore, della moglie, dei figliuoli e delle figliuole, gente patriarcale ed an- tica di quei luoghi e di quel podere ; e quivi egli andò vie più sempre non mediocremente migliorando. >" Egli usciva sovente, in compagnia degli ospiti, a passeggiare per quei dintorni; ora a Torre del Greco, ora a Torre dell'Annunziata, ora al lido, e non di rado a Tompei. < Spesso montava a piedi verso le falde superiori del monte, dove, al bordone di un telaio, si compiaceva di udire il canto di una gio- vinetta, fidanzata ad un figliuolo del fattore, e che aveva ancor essa il nome di Silvia. >^ È facile immaginare come questa vita salubre e tranquilla tornasse giovevole non pure al corpo, ma all'animo del poeta. Egli non aveva, durante la sua permanenza a Capodimontc, intermesso mai del tutto di lavorare. I lavori ai (luali più particolarmente attendeva erano, credo, i Paralipomeni e i rcnsicri, che neUa mento sua dovevano essere come il compi- mento e il suggello di tutta la sua opera lettera- ria. Ma qui neiUi splendida campagna partenopea, che gli apriva allo sguardo tante sceno magnilichc, per lui affatto nuove, qui dinanzi al terribile monto l'iUzio oc, png. r>8. ' Idotn, png. 59. LA < PALINODIA > H < LA GINESTRA >. 439 sterminatore, che aveva ai suoi piedi i ruderi delle città da lui distrutte, si sentì rinascere alla poesìa, a qualche cosa di nuovo nella poesia. E senza ab- haudonare interamente gli altri lavori che aveva fra mano, in alcuni momenti di felice ispirazione pensò e scrisse le sue due ultime liriche. Il tramonio della luna e La ginestra ; che sono, specialmente l'ultima, degno coronamento al solenne edificio poetico da lui consacrato al dolore umano. Il tramonto della luna è un compianto sulla morte della giovinezza. La giovinezza è un tema inesauribile nella lette- ratura del nostro autore; egli vi torna su molto spesso in verso ed in prosa ; e in questa poesia si duole per- chè la parte migliore della vita umana, dove pure 0(/ni bene è frutto di mille pene, debba cedere il luogo alla aborrita vecchiezza. Ogni aspetto della natura, sia pur bello e gentile, ha per il poeta una parola di dolore. La luna, giunta al confine del cielo, manda gli ul- timi raggi ad illuminare un vago paesaggio in riva al mare; fra le ombre che si allungano gli oggetti mutano forme e si confondono; di che l' incantevole scena acquista maggior vaghezza. A un tratto spari- scono gli oggetti, spariscono le ombre, e tutto piomba neir oscurità. La luna è scomparsa, e il carrettiere dalla sua via saluta con un mesto canto l'ultimo al- bore della luce che gli fu guida. Così, dice il poeta, dilegua la giovinezza : fuggono le illusioni e le speranze; ed una tenebra trista av- volge la rimanente vita dell'uomo. Voi però, o piagge, o colline, noii resterete orfane lungamente, che dall'altra parte del cielo vedrete domani sorgere l'alba, e poi il sole inondare di luce i campi del cielo. Ma la vita mortai, poi che la bella Giovinezza sparì, non si colora 440 CAPITOLO XXI. D'altra luce giammai, né d'altra aurora. Vedova è iusino al fine; ed alla notte Che l'altre etadi oscura, Segno poser gli Dei la sepoltura. Anclie in questa poesia si può intravedere qual- che riflesso della campagna napoletana. Per quanto il paesaggio nella descrizione del tramonto della luna nella prima strofa sia un po' indeterminato, si sente negli elementi ond'esso è composto qualche cosa di meridionale. E il sorger del sole negli splendidi versi: folgorando intorno Con sue fianmie possenti, Di lucidi torrenti Inonderà con voi gli eterei campi, se può esser veduto così in qualsiasi parte d'Italia, in nessuna certamente meglio che sotto il cielo di Napoli. Nella Ginestra abl)iamo dinanzi la campagna ve- suviana in tutti i suoi particolari, col suo terribile passato, col suo squallido e pauroso presente. Seduto alle falde del monte, il poeta s'immagina di vedere la famosa eruzione che diciotto secoli innanzi distrusse Ercolano e Pompei, e la descrive in pochi versi mirabilmente. Nò meno mirabilmente descrive il terrore che ad ogni nuova eruzione, o minaccia di ossa, prende oggi gli abitanti di quelle contrade. Il villa- nollo leva Io sguardo sospettoso alla vetta fatalo ; e spesso, vegliando tutta la notte, salo sul tetto per esplorare il corso Del tornato bollor, che si riversa Dall' inesaasto grembo Sull'aronoBO dorso, n cui riluco Di Capri la marina E di Napoli il porto e MorgoUina. E 80 appreMMar lo vede, o ne nel cupo Del domestico pozzo ode mai l'acqua LA < PALINODIA > E < LA UlNEfcìTKA >. l il Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli, Desta la moglie in fretta, e vi», con quanto Di lor cose rapir posson, fuggendo, Vede lontan l'usato Suo nido, e il picciol campo Che gli fu dalla fame unico schermo, Preda al Hutto rovente, Che crepitando giunge, e inesorato Durabilmente sopra quei si spiega. L'industria umana ha richiamato alla luce l'ostintii Pompei; ma il forestiero di fra i mozzi colonnati con- templa da lontano la cresta fumante, che minaccia ancora lo sparse ruine. E nell'orror della secreta notte Per li vacui teatri, Per li templi deformi e per le rotte Case, ove i parti il pipistrello asconde, Come sinistra face Che per vóti palagi atra s'aggiri. Corre il baglior della funerea lava. Che di lontan per l'ombre Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge. Le paurose scene, rievocate dalla fantasia del poeta con una l'orza di rappresentazione meravigliosa, ser- vono come di nucleo, intorno al quale si svolge una serie di meditazioni iilosotiche, che sono per la loro altezza e novità, e per la luce che le illumina da quelle famose ruine e dallo splendido paesaggio na- poletano, vera e grande e nuova poesia. Perchè non è mica detto che al poeta sia negato di ragionare; che il poeta lirico debba sempre andare barcolloni come un ubriaco, affastellando tropi d' ogni genere, indovinelli e logogrifi, i quali facciano rimanere in- tontito il povero lettore, che ha la pazienza di leg- gere senza capire. La vera e grande poesia è quella che ti fa restare meravigliato, non perchè non intendi, 442 CAPITOLO XXI. ma per ciò che intendi, e perchè ciò che intendi ti apre la mente a pensieri nuovi e sublimi e il cuore a sentimenti alti e generosi. E questo efletto che ti fa sempre la poesia leopardiana, te lo fa in parti- colar modo La ginestra^ la quale, gettando un raggio di luce nuova sopra la dolorosa filosofia del recana- tese, ne trae fuori inaspettata una conclusione conso- lante. Per questo rispetto La ginestra può dirsi un correttivo della Palinodm, o meglio il capitolo ultimo, che compie ed esplica tutta la filosofia leopardiana. 11 poeta prende le mosse dal povero fior di gine- stra, che già vide nella deserta campagna romana, e ora rivede nell'arida schiena del Vesuvio; lo rivede e pensa che quei campi sparsi di cenere e coperti di lava furono ville e campi coltivati, furono palazzi e giardini, furono città famose che il vulcano distrusse insieme con gli abitanti. Sentendo quanto altri mai la piccolezza e nullità del genere umano, in confronto alla smisurata po- tenza della natura, il Leopardi s'indigna di quella stolta superbia, per la quale l' uomo si reputa re del- l' universo. La derise più volte nei dialoghi: qui chiama cotesto re dell' universo a vedere quanta cura abbia del genere umano l'amante natura, quale potenza ab- bia il genere umano contro di lei, che con un leggero moto può, quando esso meno se l'aspetta, annullarlo interamente. Dipinte in queste rivo Son deirtiiimna ^(uite Le magnifiche sorli e progressive: dico il filosofo pessimista, rispondendo con l'ironia di questo ultimo verso all'ottimismo filosofico del Mamiani. Nella Palinodia poteva parerò che il poeta, deri- dendo i progrossi della civillA, negasse la civilttl stessa: e chi ricordi che un tempo egli professò la LA « l'ALlNOUlA i E ^ LA GLNESTRA >. 44^ teorica del Rousseau, che gli uoiuiiù primitivi, usciti dalle mani della natura buoni e felici, fossero stati corrotti dalla civiltà, potrebbe raffermarsi in quella idea. Ora, sentendolo proclamare nella Giueslia che soltanto per la civiltà i destini degli uomini possono migliorare, s'immaginerà di coglierlo in flagrante con- tradizione. Ma la teorica del Rousseau il Leopardi l'aveva abbandonata molto prima di scrivere la Falinoiìia; e ciò che derideva nella Palinodia, non era la civiltà vera; era quella falsa civiltà che, rinnegando le dot- trine filosofiche del secolo decimottavo, asservì di nuovo il pensiero alla religione, e proclamò l' uomo signore del mondo, creato a ciò da un Dio provvido, che lo aveva destinato alla felicità. Nessuna civiltà, secondo il Leopardi, è conciliabile con queste favole: la ci- viltà deve avere suo fondamento nel vero. E il vero, per il Leopardi, è che gli uomini sono infelici per decreto di natura. Riconoscere la bassezza e la mi- seria del proprio stato, dice egli, non è debolezza, ma nobiltà d'animo; e nobiltà d'animo è guardare arditamente in faccia il proprio destino, mostrarsi grande e forte nel soffrire; nobiltà d'animo e saviezza insieme è opporre ai mali onde natura flagella il ge- nere umano, il solo rimedio che valga a mitigarli; una specie di fraternità, nella quale ciascun uomo, abbrac- ciando tutti gli altri con vero amore, porga e riceva aiuto valido e pronto nei pericoli e nelle angosce della guerra comune. La sola nemica vera degli uomini è la natura; e contro di lei debbono gli uomini essere uniti e armati a propria difesa. Togliete dalla vita umana gli odii e le ire fraterne; nei rapporti fra uomo ed uomo sostituite all'egoismo l'altruismo, e la vita avrà quel tanto di felicità che solo le è possibile. Finché gli uomini cercheranno la propria sodisfazione nel male altrui, né le statistiche né le scienze economiche e politiche non varranno a scemare di un atomo i loro 444 CAPITOLO XXI. — LA < PALINODIA > EC. mali. Come una famiglia è felice se tutte le persone onde è composta, legate insieme da un affetto pro- fondo e sincero, hanno di mira in tutte le loro azioni il bene comune; così la grande famiglia umana avrà pace soltanto quando fra uomo ed uomo non ci sa- ranno altri legami che d'amore. Questo appello alla fraternità, che in fondo rassomiglia molto alla dot- trina predicata dal Nazzareno, tempra la tristezza del pessimismo leopardiano, e gli dà, come dissi, una con- chiusione consolante. GIACOMO LEOPAKDI. (Ihi un lìiuffinii iti Amo» Ca»»hU )