Vita di Giacomo Leopardi/Capitolo IV
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Capitolo IV.
LE PRIME RELAZIONI CON PIETRO GIORDANI.
1816-1817.
Sommario: Paura di dover morire presto. — L'idillio Le rimembranze. — La cantica L'appressamento della morte. — Pubblicazione del secondo libro dell‘Eneide tradotto. — Prime lettere del Giordani al Leopardi. — Ragioni di simpatia fra loro. — Carattere del Giordani e cenni della sua vita. — Importanza dell'amicizia del Giordani nella vita del Leopardi. — Loro corrispondenza epistolare. — Il Leopardi manda al Giordani la cantica. — Paure del Giordani per la salute dell'amico e raccomandazioni che pensi a stare allegro e invigorirsi. — Influenza del Giordani sul Leopardi. — Impossibilità del Leopardi di seguire i consigli del Giordani. — «Dio mi scampi dalle prelature.» — L‘'Inno a Nettuno. — I Sonetti in persona di Ser Pecora. — Crisi terribile e sfoghi col Giordani. — Desiderio di vedere il mondo.
Sappiamo che negli anni 1814 e 1815 Giacomo godè per alcuni mesi ad intervalli quella che chiamò la sua somma felicità; e sappiamo anche che al termine di quel tempo era irreparabilmente avvenuta la rovina del suo gracile corpo; alla quale egli, quietamente occupato negli studi, non aveva fatto attenzione, o almeno non aveva dato grande importanza.
Ma ad un tratto, fra la fine del 1815 e il cominciare del 1816, ebbe la visiono terribile della sua miseria, o gli entrò nell’anima la paura, anzi la forma credenza, di dover morire alla più lunga fra due o tre anni.1
Era tornato di recente agli studi letterari; e volle, in questa disposiziono d’animo, tentare la poesia. La familiarità presa con Mosco, o forse la lettura degli Idilli del Gessner «idolo allora d’Europa»,2 secondo l’espressione del Carducci, lo allettarono a comporre qualche cosa in quel genere. Così nacque, credo, nella primavera del 1816, l’idillio Le rimembranze, nel quale manca affatto la serenità e semplicità dell’idillio greco, e spunta invece il sentimentalismo degli idilli gessneriani.
Anche nella poesia bucolica antica ci sono gl’idilli funebri; e quello di Mosco nella morte di Bione pare al Leopardi uno dei più belli; ma non ha niente di comune col suo né con quelli del Gessner. Bione era un bifolco che con la dolcezza del canto amoroso allevava e dilettava tutta la natura animata ed inanimata; e il compianto del poeta sulla morte di lui non è che una glorificazione dell’amoroso cantore. L’idillio del Leopardi invece descrive il dolore di una famigliuola di contadini, che piange la morte immatura del figlioletto maggiore. Ciò che vi ha d’idillico sono soltanto le circostanze esteriori della vita dei personaggi; ma i personaggi stessi, il loro affannarsi e il loro pianto non hanno niente della schietta e rude indole campagnola.
La triste idea di dover presto morire non abbandonava il poeta; ed egli, dopo l’idillio, compose, in undici giorni del novembre e dicembre di quell’anno 1816, la cantica L’appressamento della morte.
Il Monti, discendendo pur dal Varano, aveva con lo splendore dei versi e la magnificenza delle immagini e dello stile messa in onore la terzina dantesca e ringiovanito la poesia delle Visioni. La cantica del nostro è una Visione: era quindi naturale che anch’egli eleggesse come metro la terzina; pur avendo gli occhi, più che al Monti e al Varano, a Dante e al Petrarca, che allora studiava con passione. Il poeta immagina di trovarsi solo di notte in una landa bellissima, vagamente illuminata dalla luna. Scoppia ad un tratto una terribile procella, di che egli impaurisce. Al cessare della procella appare in mezzo ad un gran chiarore il suo Angelo Custode, mandato dalla Madonna; il quale gli dice: Guarda. E il poeta si vede passare dinanzi, in una lunga processione, l‘Amore con dietro la turba infinita delle sue vittime, poi l‘Avarizia coi suoi immondi seguaci, poi l‘Errore con un lungo corteo di eretici, poi la Guerra coi conquistatori che coprirono la terra di stragi, poi l’oscena Tirannia dal manto spruzzato di sangue, finalmente l‘Oblio. Lo sfilare delle ombre è accompagnato dalle osservazioni morali dell’Angelo; il quale, finita la processione, accenna al poeta di volgere gli occhi in alto. Il poeta si volge e vede, fra uno strappo di nubi, in mezzo ad un fulgore vivissimo, la beata sede dei giusti; vede passeggiare per essa anime che cantano, vestite di lucido ammanto, fra le quali riconosce l’Alighieri, il Petrarca, il Tasso; e finalmente, aprendosi il cielo più addentro, vede Cristo e Maria. Qui la visione è finita, e l’Angelo si parte e dice al poeta: Ora che hai veduto le triste gioie e le misere grandezze del mondo, e la beatitudine celeste, rallegrati, chò presto morrai. Con la visione finisce il quarto canto del poema.
Quando il poeta lo scrisse, non s’era, come si vede, staccato ancora dalle idee religioso, che erano state le fide compagne della sua prima gioventù; ma a quello idee non rispondeva più un sentimento vivo dell’animo; esso orano qualche cosa corno la veste di chierico che il giovane ora oramai abituato a portare, ma che forse in cuor suo desiderava gii vagamento di poter gettare alle ortiche. Fresco della lettura di Dante e del Petrarca, e forse anche del Varano e del Monti, si era servito di quello idee come le più adattate alla parte rappresentativa della sua cantica, ma non era riuscito ad infondere in esse il calore che non aveva nell’animo. Dico questo, perchè i primi quattro canti del poema leopardiano, a parte le imperfezioni artistiche, lasciano freddo il lettore. Ciò che vi ha di meglio, anzi di veramente bello, sono alcune brevi descrizioni, fatte con quel sentimento della natura ch’egli fin da giovane ebbe come pochi altri in Italia. Invece nel canto quinto c’è un po’ di calore e di vita; c’è la lotta fra l’umano e il divino, fra il giovane che vorrebbe vivere e si dispera di dover morire e il religioso che sente il dovere di rassegnarsi alla volontà divina, e vorrebbe persuadersi che ciò è per il suo meglio, ma non ci riesce. Il divino trionfo nelle parole, l’umano nel sentimento. Le invocazioni e le preghiere a Dio e alla Madonna sono fredde e sbiadite in confronto della pietà che suona in questo lamento:
O dolci studi, o care Muse, addio. |
Si sente che il poeta, anche dopo la visione, preferisce le miserie di questo mondo alla beatitudine celeste. Verrà tempo, e non lontano, ch’egli invocherà la morte sinceramente; ma allora ahimè non crederà più nella vita futura.
Prima di comporre la Cantica, la quale non era, almeno per allora, destinata alla pubblicazione, il Leopardi aveva, sullo scorcio dell’estate, fatta, come sappiamo, la traduzione del secondo libro dell‘Eneide; e ci aveva messo tutta la cura e l’impegno possibili. Rimasto preso dalle bellezze di quella poesia, bellezze che non ritrovava nella traduzione del Caro, per quanto gli paresse ammirabile, si mise in testa di riprodurle lui, proponendosi, per riuscirvi, quello che non era il miglior modo, una gran fedeltà. E, finito il lavoro, gli parve di aver fatto opera migliore di tutte le altre sue traduzioni anteriori.
Quando aveva pubblicato il saggio dell‘Odissea, s’era inginocchiato (sono sue parole) innanzi a tutti i letterati d’Italia supplicandoli a comunicargli il loro parere. Nessuno si fece vivo: né le lodi generiche comunicategli dallo Stella potevano sodisfarlo. Egli aveva un gran desiderio di farsi conoscere dai letterati più famosi del tempo. Perciò, invece di pubblicare la sua nuova traduzione nello Spettatore, come aveva fatto di tutte le altre, la mandò allo Stella, perchè gliela facesse stampare in un opuscolo a parte. Il manoscritto fu spedito il 4 ottobre 1816 da Monaldo, e il 6 dicembre Giacomo, sollecitandone la stampa, scriveva all’editore: «Sono impaziente di veder l’esito di quella mia traduzione, sopra la quale le confido così a quattr’occhi che io fondo molto speranze.»3 Finalmente l’opuscolo ai primi di febbraio del 1817 fu stampato, e con lettere del 21 l’autore ne presentava un esemplare al Mai, uno al Monti e uno al Giordani. Le lettere erano umili come di suddito a principi. Il Monti e il Mai risposero subito ringraziando, lodando e facendo qualche appunto; il Giordani risposo anche lui una lettera cortese, ma cerimoniosa; rispose prima d’aver ricevuto il libro, che doveva essere consegnato a tutti dallo Stella. Il piacentino sapeva che il Leopardi era un Signore d’ingegno e di studi raro, come poi gli scrisse, ma non sapeva la sua età. Quando l’ebbe saputa dal Mai, mandò subito, dietro alla prima, una seconda lettera calda d’ammirazione e d’affetto, che dovè far trasalire di gioia il giovine marchigiano mentre la leggeva.
Egli conosceva il suo valore, si sentiva capace di opere grandi; ma udirsi dire dal Giordani che il conte Giacomo Leopardi, com’era già un miracolo di Recanati, sarebbe ben presto un onore d’Italia; che il Monti e il Mai, coi quali egli parlava spesso di lui, erano stupiti del suo ingegno e del suo sapere, dovette procurargli una di quelle sodisfazioni che non si dimenticano; la maggiore, io credo, ch’egli avesse provata fino allora. E fuori di sé dalla contentezza, rispose: «Che io veda e legga i caratteri del Giordani, che egli scriva a me, che io possa sperare d’averlo d’ora innanzi maestro, sono cose che appena posso credere. Né Ella se ne meraviglierebbe, se sapesse per quanto tempo e con quanto amore io abbia vagheggiata questa idea, perché le cose desideratissime paiono impossibili quando sono presenti.»4 E seguita parlandogli di sé e de’ suoi studi con una effusione che gli era fino allora sconosciuta, la effusione di un cuore appassionato, che ha finalmente trovato un cuore che lo intenda. Gli confessa di avere «grandissimo, forse smoderato e insolente, desiderio di gloria»; lo accerta che «se vivrà, vivrà alle lettere, perché ad altro non vuole, né potrebbe vivere»; e in un luogo della lettera gli dice: «Di Recanati non mi parli. M’é tanto cara che mi somministrerebbe le belle idee per un trattato dell’odio della patria, per la quale se Cedro non fu timidus mori, io sarei timidissimus vivere. Ma mia patria é l’Italia: per la quale ardo d’ amore, ringraziando il cielo d’avermi fatto italiano.»5 Notiamo: dalla orazione agli italiani del maggio 1815 a questa lettera del 21 marzo 1817 le idee politiche del Leopardi avevano fatto molto cammino: dal campo ove egli militava soldato, non pure obbediente ma ardito, sotto la bandiera del padre, era passato puramente e semplicemente al campo avversario; e notiamo che di questo passaggio non ebbe nessun merito, o nessuna colpa, il Giordani. Anche notiamo che chi gl’insegnò ad aborrire Recanati non fu esso Giordani; il quale rispondendo alla sua lettera gli diceva: «Parmi che al savio convenga amare il suo luogo nativo; e parmi ch’ ell’ abbia cagioni di amare il suo Recanati. L’Alfieri, da lei giustamente ammirato, veda che si pregiava di Asti: né il Piemonte vale più del Piceno; né Recanati meno di Asti.»6 Al che Giacomo di rimando: «È un bel dire, Plutarco, l’Alfieri amavano Cheronea ed Asti. Le amavano e non vi stavano. A questo modo amerò ancor io la mia patria quando ne sarò lontano; ora dico di odiarla perché vi sono dentro.»7
So c’era fra i lettorati del tempo uomo che potesse comprendere e amare il Leopardi, era questi Pietro Giordani, il quale aveva avuto, come Giacomo, una giovinezza infelice, e in molto altre circostanze della vita lo somigliava. Anche lui, d’ingegno straordinariamonte precoce, aveva imparato in fanciullezza il lutino ed il greco; anche lui appassionatissimo degli studi; anche lui di complessione gracile e di salute fino ai venti anni debolissima; anche lui sensibilissimo e bisognoso d’aflotto; anche lui innamorato della bellezza e dell’arte; anche lui disgraziato nei genitori.
Il padre suo non aveva in casa autorità nessuna; la madre, divota, avarissima, dura e fredda coi figliuoli (una specie di contessa Adelaide), governava tirannicamente tutto e tutti, sotto la direzione del prete confessore. Quando, mortogli il padre (appunto nel marzo del 1817), il Giordani divenne padrone di sé, scriveva all’amico: «Mi diverto ad esercitare pazienza colla mia buona madre, che è la più sublime e la più incomoda santa della terra: mi diverte il potermi vantare di sopportare una santità che impazientirebbe gli apostoli e i profeti.»8 Questa osservazione fa il paio con quella della buona Paolina che, come vedemmo nel primo capitolo, chiamava sua madre un vero eccesso di perfezione cristiana, una donna ottima ed esemplarissima, la quale si è imposti dei doveri verso i figli che non riescono loro punto comodi.
Con una madre e un padre sì fatti è facile immaginare quale fosse la vita di Pietro Giordani giovinetto, nell’età cioè che ha bisogno di godere, di amare, di espandersi. A lui mancò anche il conforto che a troppo caro prezzo fu largito al Leopardi, di avere negli studi l’aiuto, l’incoraggiamento e la lode del padre. A lui l’amore alle lettere fu apposto a colpa, e dovè, per volontà della madre, laurearsi avvocato. Aveva passati i venti anni, e perchè non gli piaceva esercitare quella professione, era tenuto schiavo come un fanciullo; non aveva alcun assegnamento dalla famiglia, doveva vestire come voleva la madre, trattare con chi voleva la madre, trovarsi in casa all’ora che voleva la madre; la quale, sospettosa ed inquieta, faceva spiare ogni suo passo, e voleva conoscere ogni suo pensiero, massimamente nelle cose di religione. Per sottrarsi a tanta schiavitù, Pietro, seguendo l’ esempio del fratello maggiore, cercò, per disperazione, rifugio in convento, e a ventitré anni si fece frate. Ma quella non era vita per lui: passati tre anni rientrò nel mondo, gittandosi alla ventura, solo, senza aiuti, senza conoscenze, deliberato di combattere con le armi della probità, dell’ingegno, del forte volere la lotta per la esistenza. Combattè e vinse. Ed ora il prodigioso giovinetto di Recanati rivolgevasi a lui come al principe degli scrittori italiani viventi.
Era naturale, nonostante la differenza della età (il Giordani aveva ventiquattro anni di più), che i due nobili ingegni si sentissero attratti, come da una corrente di simpatia, l’uno verso l’altro.
Il Giordani disprezzava e odiava ferocemente i preti e i nobili cattivi e ignoranti, e faceva aperta professione di questi suoi sentimenti; ma, se ne trovava qualcuno virtuoso e cólto, lo portava alle stelle; perchè gli stava in testa che dalla virtù e dal sapere delle classi sociali più alte dipendesse in gran parte il bene della patria. Conosceva nei suoi paesi tanti nobili ignoranti prepotenti e presuntuosi, che trovarne uno dotto, buono e gentile in un piccolo paese dello Marche gli parve un miracolo. Anche questa circostanza contribuì non poco ad accendere l’animo del Giordani per il giovino Leopardi; e fino dalle prime lettere si strinse fra i due un’ amicizia viva, forte, sincera; che si mantenne immutata fino alla tomba; e nel Giordani sopravvisse alla morto dell’amico, benchè gli si fosse insinuato nell’animo il dubbio di non essere negli ultimi anni degnamente corrisposto.
Questa amicizia ebbe un’importanza grande nella vita del Leopardi.
Liberatosi, nella rapida evoluzione del suo spirito, dallo idee religiose e politiche e dulia tutela letteraria del padre, egli non aveva, nella trista solitudine di Recanati, una persona autorevole con la quale dibattere le proprie opinioni, alla quale chiedere aiuto e consiglio, dalla quale pigliar coraggio nelle ore e nei giorni di sfinimento e di svogliatezza. Il fratello Carlo e la sorella Paolina, come erano stati nella prima età i suoi compagni di scuola e dei giuochi, erano ora i suoi compagni di pena. La vita di quei poveri giovani era qualche cosa di incredibile. Erano sequestrati da tutto il mondo esteriore, salvo quel po’ di vista e di remore che ne potea venir loro talvolta dalle finestre del vecchio palazzo. A venti anni non potevano uscire di casa se non accompagnati dal pedagogo o da qualcuno dei parenti. Unica libertà lasciata al povero Giacomo, quella di ammazzarsi studiando; ed egli pur troppo ne usava e abusava.
La voce della figlia del cocchiere che tessendo cantava nella casetta di faccia, il profilo di una fanciulla del popolo che gli balenava dinanzi nella via, lo facevano sobbalzare di gioia, gli davano dei fremiti di contentezza, ed empivano poi di amorose visioni i suoi sogni.
Il solo suo confidente era Carlo, confidente universale, confidente anche negli studi ; ma di questi non parlava troppo spesso neppure con lui, perchè discordavano nelle opinioni. Carlo amava poco la patria, poco gli antichi, molto gli stranieri, moltissimo i francesi; era cioè agli antipodi del fratello. In una sola cosa andavano d’accordo, nell’aborrimento della schiavitù domestica e nel desiderio di liberarsene. La povera Paolina, che moralmente, ed anche un po’ fisicamente, somigliava a Giacomo, subiva l’influenza dei fratelli, specialmente del maggiore, e mordeva con essi la catena: ma tanto lei che Carlo sentivano in faccia a Giacomo la loro inferiorità intellettuale; e Paolina in ispecie, che gli faceva da copista, lo riteneva come un oracolo.
In questa condizione di cose l’apparizione del Giordani, che si presentava ammiratore affettuoso e fervente, parve a Giacomo e fu una grande fortuna. Egli sentì subito, ricevuta la seconda lettera, che quello era l’uomo che gli mancava; la guida, il consigliere, l’amico; l’uomo per mezzo del quale poteva entrare in comunicazione con quel mondo là fuori, a cui tanto anelava e che gli era conteso. E si aggrappò a lui, come il naufrago alla tavola che può essere l’unica sua salvezza.
Nella corrispondenza epistolare, che nei primi cinque anni, finché Giacomo non uscì di Recanati, durò calda e nutrita fra loro, è gran parte della vita intellettuale ed affettiva di Giacomo: le lunghe e bellissime lettere sue all’amico sono stupende pagine di autobiografia, e sono della prosa più bella ch’egli abbia mai scritta. Quanto cammino aveva fatto in pochi mesi il giovine che dal preambolo alla traduzione dell‘Eneide era arrivato alle due lettere al Giordani del 21 marzo e del 30 aprile 1817! Il Giordani scriveva a qualche amico che solo Dante avrebbe potuto scriver le lettere ch’ egli riceveva dal Leopardi. Invece è chiaro che Dante non avrebbe potuto scriverle; ma anche chiaro che ciò che nel suo entusiasmo voleva dire il Giordani era la verità.
Con la lettera del 21 marzo il Leopardi avverte l’amico che gli manda per mezzo dello Stella un manoscritto, affinchè lo legga e gli dica se gli pare buono per le fiamme. Era la cantica su l‘Appressamento della morte.
II Giordani parte aveva indovinato, parte aveva saputo dallo Stella che il Leopardi, di complessione delicata, si era rovinato e si rovinava la saluto coll’eccessiva applicazione; e fin dalle prime lettere lo aveva supplicato di moderarsi e di alternare allo studio gli esercizi del corpo. La lettura della Cantica lo aveva confermato nei suoi timori. Appena l’ebbe letta, gli scrisse: «Io non sono giudice di poesie, se non come quel ciabattino giudicava le pitture. Nondimeno come uno del popolo dirolle, che questa cantica non mi pare certamente da bruciare; e né anche però la stamperei così subito. Credo che V. S. rileggendola dopo alquanti mesi vi troverà forse molti segni di felicissimo ingegno; e forse anche qualche lunghezza, qualche durezza, qualche oscurità.»9 Ma, a parte i pregi e i difetti artistici del lavoro, ciò che gli fece maggiore impressione, e impressione dolorosa, fu l’argomento. «Mi ha molto contristato, diceva, un timore che la sua delicata complessione abbia patito dal soverchio delle fatiche, e le dia quelle tante malinconie.... È da filosofo non amare la vita e non temere la morte più del giusto: ma fissarsi nel pensier continuo della morte cotanto spazio quanto ne vuole il componimento di quella cantica, non mi pare cosa da giovinetto di dieciotto anni, al quale la natura consente di viverne bene ancora sessanta, e l’ingegno promette di empierli di studi gloriosi. Pensi dunque, io la supplico, a rallegrarsi e invigorirsi: e invece di allettare i pensieri malinconici, li sfugga.»10 Il Giordani aveva indovinato, come del resto era facile. La composizione della Cantica non aveva fatto che accrescere la malinconia del poeta; nel quale la paura di morire raggiunse il colmo ai primi del 1817.
In altre lettere posteriori del Giordani al Leopardi le raccomandazioni di curare la salute rinforzano e prendono il tuono di amichevole ma severo rimprovero. Per carità, o ubbiditemi, o non mi scrivete mai più.... se vi ostinate a volervi ammazzare o incadaverire, fatemi la carità, scordatevi di me, non mi dite più niente, e risparmiatemi questa pungentissima afflizione.»11 E poi, portandogli ad esempio sé stesso: «Non vi avviliscano le malinconie, le languidezze presenti, i martirìi del pensiero: io le ho provate tutte nella vostra età; e sono sopravvissuto.... Dunque confidatevi, amatevi, curatevi. Conservate la vostra vita, come se l’ aveste in deposito dall’ Italia, e come se nel deposito si conservassero grandissime speranze di gloria e di felicità nazionale.»12
Queste parole del Giordani dovevano essere un balsamo all’ animo del Leopardi; ma l’ animo, come il corpo, era oramai troppo gravemente malato, sì che il balsamo potesse avere maggior virtù di un calmante, il quale tempera il dolore per il momento, ma non ha alcuna efficacia sul male. La malattia morale e la fisica, strettamente connesse, potevano forse essere curate, e se non vinte, attenuate negli effetti, quattro o cinque anni innanzi. Ora ogni rimedio era inutile. E da ora appunto cominciò quella terribile alternativa nella quale il poeta trascinò gli altri venti anni della sua esistenza, di desiderare la morte quando la credeva lontana, di averne paura quando la credeva vicina.
Alle raccomandazioni del Giordani, di moderare lo studio, di divertirsi, di cacciare la malinconia, Giacomo rispondeva: «Che parla ella di divertimenti? Unico divertimento in Recanati è lo studio; unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia. So che la noia può farmi manco male che la fatica, e però spesso mi piglio noia, ma questa mi cresce, coin’ ò naturale, la malinconia. Non m’è possibile rimediare a questo, nè faro che la mia salute debolissima non si rovini, senza uscire di un luogo che ha dato origino al male, e lo fomenta e l’accresce ogni dì più.»13 Poi con altre lettere lo assicura
PIETRO GIORDANI.
(Da un chiaroscuro di P. Toschi.)
che tien conto dei suoi consigli, che lo ubbidisce: «Oh credete forse che non vi ami? o che non mi limi? E se non lo credete, perchè volete credere che mi ostini a far quello che mi nuocerebbe?... Stando in Recanati, e come ci sto io, niente mi può consolare della privazione degli studi; e nondimeno, perchè vedo che mi bisogna stare un pezzo senza studiare, e per ubbidire a voi, non istudio, e cosi fo da molto tempo. Sappiate che sono sei mesi che io non iscrivo, e leggo così poco, che si può dir niente.»14 Queste parole sono in una lettera dell’11 agosto 1817. Tre giorni innanzi gli aveva scritto: «Ahi, mio caro Giordani, che credete voi che io faccia ora? Alzarmi la mattina e tardi, perchè ora, cosa diabolica! amo più il dormire che il vegliare. Poi mettermi immediatamente a passeggiare, e passeggiar sempre sema mai aprir bocca ne veder libro sino al desinare. Desinato, passeggiar sempre nello stesso modo sino alla cena: se non che fo, e spesso sforzandomi e spesso interrompendomi e talvolta abbandonandola, una lettura di un’ ora. Così vivo e son vissuto, con pochissimi intervalli, per sei mesi.»15 Quanto agli esercizi del corpo con tanta insistenza raccomandatigli dall’ amico, rispondeva: «Il cavalcare che mi consigliate, certo mi gioverebbe, ed è uno dei pochi esercizi che io potrei fare, dei quali non è il nuotare né il giocare a palla né altro tale, che non molto fa mi avrebbe dato la vita ed ora mi ammazzerebbe, quando io mi ci potessi provare, che è impossibilissimo. Potrei, dico, cavalcare, se avessi molte cose che non ho.»16
Quali erano queste molte cose? Probabilmente una sola: la volontà dei genitori. O probabilmente Monaldo non ci pensava. Forse neppur lui da giovane aveva usato cavalcare, e non gli poteva entrare in testa che i figliuoli suoi avessero bisogno di fare quello che non aveva fatto lui. D’altronde, Giacomo oramai era gobbo: bisognava rassegnarsi alla volontà della Provvidenza. L’unico rimedio era farne un prelato. La Chiesa non guarda alla bellezza fisica degli uomini che si danno a lei : un prelato dotto a quel modo avrebbe potuto, benché gobbo, fare gran cammino. Il male è che appunto allora Giacomo scriveva al Giordani: «Dio mi scampi dalle prelature che mi vorrebbero gittar sul muso!»17 E il Giordani gli rispondeva approvando; anche per questa cagione, diceva lui, che «l’uomo non deve prima dei trent’anni prendere nessuna di quelle risoluzioni che non ammettono pentimento, come prete, matrimonio e simili.»18
Assicurando l’ amico che non studiava, Giacomo diceva la verità; ma non studiava unicamente perchè la salute non glielo permetteva. Forse il Giordani, rimproverandolo che non ascoltasse i suoi consigli, credeva composti allora l‘inno a Nettuno e la traduzione dei Frammenti di Dionigi d’Alicarnasso; ma Giacomo, a disingannarlo, lo assicurò che quei lavori erano stati fatti prima che incominciasse la loro conoscenza. La traduzione dei Frammenti di Dionigi era, come sappiamo, del gennaio del 1817; l’Inno dell’anno innanzi, ma fu pubblicato più tardi. Fu pubblicato nello Spettatore del 1° maggio 1817, come traduzione dal greco di autore incerto, con un corredo di note per dottrina meraviglioso. All’Inno erano unite due odi greche, tratte, dicevasi, dal medesimo manoscritto che conteneva l’Inno, e delle quali si dava,
insieme col supposto originale antico, una traduzione latina. Tutti i dotti restarono presi all’inganno; e il Custode della Vaticana, supponendo che nessun altra biblioteca potesse possedere il prezioso manoscritto dove l’Inno era stato rinvenuto, giurava che avrebbe scoperto chi ne lo aveva cavato fuori senza saputa sua.
Nessuna meraviglia che parecchi credessero autentico l’Inno; sono di quelle cose sempre accadute e che sempre accadranno. Non c’è anche oggi chi si ostina a credere scritture autentiche del Leopardi le contraffazioni di Ilario Tacchi? non c’ è forse una sentenza di tribunale, la quale conferma che il vero autore delle contraffazioni del Tacchi è Giacomo Leopardi in persona? Il Giordani, che lesse l’Inno senza accorgersi neppur lui dell’ inganno, rimase ammirato più che altro della tanta erudizione delle note; e quando seppe il vero proruppe: «Oh chi potrebbe oggi in Italia far tali scherzi; e inni greci e odi anacreontiche!»19
Della traduzione del secondo libro dell‘Eneide, sappiamo che il Leopardi, appena compiutala, era molto contento; ma dopo le critiche del Monti, se non la condannò subito interamente, scrisse però al Giordani: «Che il mio libretto avesse molti difetti lo credea prima, ora lo giurerei perchè me lo ha detto il Monti; carissimo e desideratissimo detto.»20 E non passò molto tempo che condannò anche quella traduzione, come tutte le altre cose sue giovanili.
In tutto l’anno 1817, oltre la versione dei Frammenti di Dionigi fatta, come dissi, nel gennaio, e la Lettera al Giordani sopra il Dionigi del Mai posta nel luglio, il Leopardi non si sa che scrivesse altro che le poche cose già accennate, cioè i sonetti satirici in persona di Ser Pecora fiorentino beccaio, la traduzione in versi di un breve frammento della Teogonia d’Esiodo (la Titanomachia), con innanzi un discorso critico, il quale è tutto un elogio della poesia esiodea, e l’elegia Il primo amore.
I sonetti, composti, come l’autore stesso dice, a somiglianza dei Mattaccini del Caro, erano vòlti a castigare la insolenza petulante di Guglielmo Manzi, bibliotecario della Barberiniana di Roma, il quale aveva risposto un sacco di villanie ad una critica urbanissima del Giordani nella Biblioteca italiana. L’autore voleva pubblicarli subito nello Spettatore, e li mandò perciò allo Stella, il quale, sia per non aver brighe col Manzi, sia per altre ragioni, non li stampò. Quei sonetti furono poi pubblicati dal Leopardi stesso nel 1826,21 ma non hanno importanza se non quanto servono a dimostrare la grande facilità ch’egli aveva da giovane d’imitare i vari stili e le varie forme e maniere letterarie; facilità della quale parla egli stesso nei Pensieri, chiamandola facilità di assuefazione. «Con una sola lettura, scrive, riusciva a prendere uno stile, avvezzandomici subito l’immaginazione a rifarlo ec. Così leggendo un libro in una lingua forestiera m’assuefaceva subito dentro quella giornata a parlare anche meco stesso e senza avvedermene in quella lingua.»22
La Titanomachia ha presso a poco i pregi e i difetti delle altre traduzioni. L’autore attribuiva più importanza al discorso che alla traduzione; la quale è, come tutti gli altri lavori dello stesso genere e di quel tempo, importante sopratutto come esercitazione di studio. Nell‘'Elegia sono invece i primi lampi dell’ingegno poetico dell’autore. La terzina petrarchesca, trattata non senza un po’ di stento nella Cantica, ha nella Elegia un’andatura più franca, per quanto non anche sicura, e trova in due o tre punti accenti di passione vera. Vedremo nel capitolo seguente che essa fu composta nei giorni dal 14 al 16 dicembre 1817, quando il poeta, trovato finalmente un soggetto sul quale fissare l’amor suo, era proprio nel fervore della passione.
Il 14 luglio 1817, scrivendo al Giordani, Giacomo si lasciò, verso la fine della lettera, sfuggire queste parole: «Addio, Giordani mio. M’è gran conforto il pensare a voi in questa mia, per più cagioni da qualche tempo, infelicissima e orrenda vita.»23 Il Giordani spaventato domandò spiegazioni, ed ei gli rispose l’8 agosto, cercando temperare l’effetto di quelle parole: «Quando un giovane dice d’essere infelice, d’ordinario s’immaginano certe cose che io non vorrei che s’ immaginassero di me.... Benché io desideri molte cose e anche ardentemente, com’è naturale ai giovani, nessun desiderio mi ha fatto mai né mi può fare infelice.... Ma mi fa infelice primieramente l’assenza della salute, perchè, oltreché io non sono quel filosofo che non si curi della vita, mi vedo forzato a star lontano dall’ amor mio, che é lo studio.»24 Aggiunge che l’altra cosa che lo fa infelice è il pensiero, il quale lo ha in sua balia, ed al quale non può sottrarsi per la mancanza assoluta di qualsiasi svagamento e distrazione. Egli era in un momento di crisi terribile: si sfogava con l’amico, ma probabilmente non gli diceva tutto. Egli aveva anticipato di quattro o cinque anni l’età dello sviluppo; era già uomo quando gli altri sono ancora bambini. Fino dall’anno innanzi si era svegliato in lui il bisogno di amare, il desiderio di godere della contemplazione della bellezza femminile; e cotesto bisogno non trovava in Recanati modo di sodisfarsi. «Non credo che le Grazie, scriveva al Giordani, sieno state qui mai, neppure di sfuggita all’osteria.»25 Non aveva modo di parlare con donne avvenenti, anzi nemmeno di vederle; doveva contentarsi di gettare qualche occhiata dalla finestra alla figliuola del cocchiere, o a qualche altra ragazza del popolo che passasse per la strada o che incontrasse quando usciva a passeggio. Probabilmente aveva già risoluto di abbandonare la carriera ecclesiastica, e non aveva ancora, per rispetto alla famiglia, avuto il coraggio di buttar via il collare. Mille sentimenti e desiderii e pensieri diversi lo agitavano, che gli facevano di tratto in tratto balenare agli occhi della mente un’idea, una speranza; l’idea, la speranza di mutar vita. Gli pareva che ciò sarebbe stato la medicina di tutti i suoi mali. Ma quell’ idea, quella speranza, appena balenata, dispariva, e lo lasciava nel
buio. «Iddio ha fatto tanto bello questo nostro mondo, tante cose belle ci hanno fatto gli uomini, tanti uomini ci sono, che chi non ò insensato arde di vedere di conoscere; la terra ò piena di meraviglio; ed io di diciotto anni potrò diro: In questa caverna vivrò, e
morrò dove son nato?»26 Questo grido, che gli ruppe dal cuore nelle prime confidenze della sua amicizia col Giordani, chi sa quante volte lo avevano udito prima i suoi compagni di cattività Carlo e Paolina! Quel mondo, da lui intravisto di là dai monti e dal mare che chiudevano l’orizzonte del suo paese natale; quel mondo di cui gli era contesa la conoscenza dall’avarizia materna, e dalla grettezza e cocciutaggine del padre, egli, fra mezzo ai gravi e faticosi suoi studi, lo aveva disperatamente cercato nei libri; e i libri, mostrandogliene idealizzate le parti migliori, gli avevano acceso sempre più vivo il desiderio di vederlo da vicino nella sua vera realtà. Giudicando degli altri da sé, e di sé e degli altri dall’animo suo, e dimenticando il suo corpo, si sognava che in cotesto mondo, splendido di meravigliose bellezze, avrebbe potuto esplicare tutte le sue forti facoltà, sodisfare tutti i suoi ardenti desiderii. Là era il campo vero della vita; là erano i premii desiderati alle opere dell’ ingegno, il plauso generale, la lode dei dotti, il sorriso delle belle donne; là erano infine la libertà, la gloria e l’amore, a cui egli aspirava con tutte le forze della sua giovinezza. Il tempo in cui faceva questi sogni fu, lo sappiamo da lui
stesso, il tempo della sua maggiore felicità.
Ma ormai quel tempo era passato per sempre!
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Note
- ↑ Epistolario di Giacomo Leopardi, vol. I, pag. 127.
- ↑ G. Carducci, Degli spiriti e delle forme nella poesia di G. Leopardi; Bologna, Zanichelli, 1898, pag. 46.
- ↑ Epistolario, vol. I, pag. 80.
- ↑ Epistolario, vol. I, pag. 89.
- ↑ Idem, pag. 41 e seg.
- ↑ Epistolario, vol. III, pag. 88.
- ↑ Idem, vol. I, pag. 59.
- ↑ Epistolario, vol. III, pag. 107.
- ↑ Epistolario, vol. III, pag. 89.
- ↑ Idem, pag. cit.
- ↑ Epistolario, vol. III, pag. 108.
- ↑ Idem, pag. 109, 110.
- ↑ Idem, vol. I, pag. 57.
- ↑ Epistolario, vol. I, pag. 90.
- ↑ Idem, pag. 87.
- ↑ Idem, pag. 98.
- ↑ Epistolario, vol. I, pag. 96.
- ↑ Idem, vol. III, pag. 112.
- ↑ Epistolario, vol. III, pag. 97.
- ↑ Idem, vol. I. pag. 41.
- ↑ Nel volumetto Versi del conte Giacomo Leopardi; Bologna, 1826, dalla Stamperia delle Muse.
- ↑ Pensieri di varia filosofia ec., III, 115. Vedi anche IV, 95.
- ↑ Epistolario, vol. I, pag. 84.
- ↑ Idem, pag. 86.
- ↑ Epistolario, vol. I, pag. 97.
- ↑ Idem, pag. 56, 57.