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86 | capitolo iv. |
aveva usato cavalcare, e non gli poteva entrare in testa che i figliuoli suoi avessero bisogno di fare quello che non aveva fatto lui. D’altronde, Giacomo oramai era gobbo: bisognava rassegnarsi alla volontà della Provvidenza. L’unico rimedio era farne un prelato. La Chiesa non guarda alla bellezza fisica degli uomini che si danno a lei : un prelato dotto a quel modo avrebbe potuto, benché gobbo, fare gran cammino. Il male è che appunto allora Giacomo scriveva al Giordani: «Dio mi scampi dalle prelature che mi vorrebbero gittar sul muso!»1 E il Giordani gli rispondeva approvando; anche per questa cagione, diceva lui, che «l’uomo non deve prima dei trent’anni prendere nessuna di quelle risoluzioni che non ammettono pentimento, come prete, matrimonio e simili.»2
Assicurando l’ amico che non studiava, Giacomo diceva la verità; ma non studiava unicamente perchè la salute non glielo permetteva. Forse il Giordani, rimproverandolo che non ascoltasse i suoi consigli, credeva composti allora l‘inno a Nettuno e la traduzione dei Frammenti di Dionigi d’Alicarnasso; ma Giacomo, a disingannarlo, lo assicurò che quei lavori erano stati fatti prima che incominciasse la loro conoscenza. La traduzione dei Frammenti di Dionigi era, come sappiamo, del gennaio del 1817; l’Inno dell’anno innanzi, ma fu pubblicato più tardi. Fu pubblicato nello Spettatore del 1° maggio 1817, come traduzione dal greco di autore incerto, con un corredo di note per dottrina meraviglioso. All’Inno erano unite