Pagina:Chiarini - Vita di Giacomo Leopardi.djvu/118

90 capitolo iv.

Egli era in un momento di crisi terribile: si sfogava con l’amico, ma probabilmente non gli diceva tutto. Egli aveva anticipato di quattro o cinque anni l’età dello sviluppo; era già uomo quando gli altri sono ancora bambini. Fino dall’anno innanzi si era svegliato in lui il bisogno di amare, il desiderio di godere della contemplazione della bellezza femminile; e cotesto bisogno non trovava in Recanati modo di sodisfarsi. «Non credo che le Grazie, scriveva al Giordani, sieno state qui mai, neppure di sfuggita all’osteria.»1 Non aveva modo di parlare con donne avvenenti, anzi nemmeno di vederle; doveva contentarsi di gettare qualche occhiata dalla finestra alla figliuola del cocchiere, o a qualche altra ragazza del popolo che passasse per la strada o che incontrasse quando usciva a passeggio. Probabilmente aveva già risoluto di abbandonare la carriera ecclesiastica, e non aveva ancora, per rispetto alla famiglia, avuto il coraggio di buttar via il collare. Mille sentimenti e desiderii e pensieri diversi lo agitavano, che gli facevano di tratto in tratto balenare agli occhi della mente un’idea, una speranza; l’idea, la speranza di mutar vita. Gli pareva che ciò sarebbe stato la medicina di tutti i suoi mali. Ma quell’ idea, quella speranza, appena balenata, dispariva, e lo lasciava nel buio. «Iddio ha fatto tanto bello questo nostro mondo, tante cose belle ci hanno fatto gli uomini, tanti uomini ci sono, che chi non ò insensato arde di vedere di conoscere; la terra ò piena di meraviglio; ed io di diciotto anni potrò diro: In questa caverna vivrò, e morrò dove son nato?»2 Questo grido, che gli ruppe dal cuore nelle prime confidenze della sua amicizia col Giordani, chi sa quante volte lo avevano udito prima i suoi compagni di cattività Carlo e Paolina!

  1. Epistolario, vol. I, pag. 97.
  2. Idem, pag. 56, 57.